Giancarlo Giorgietti (Ansa)
- Sciolti gli ultimi nodi nel centrodestra. Nuovo maxi-emendamento: salta il cumulo tra fondi e assegno Inps, stretta sull’uscita dal lavoro di precoci e usuranti, estesa la detassazione dei contratti. Domani il testo in Aula per il voto finale. Ritirato il condono.
- Per gli operatori del settore Fintech si rischiano effetti distorsivi soprattutto sulle startup.
Lo speciale contiene due articoli
I senatori sono già stati allertati per lavorare anche la notte tra il 23 e il 24 dicembre. Lunedì il testo arriva in Aula. Di qui alla vigilia di Natale il percorso verso l’approvazione della manovra in Senato, è pieno di insidie. Non si è ancora spento il contrasto all’interno della maggioranza con il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, costretto a ironizzare sull’ipotesi di sue dimissioni («Ci penso tutte le mattine, ma siccome è la ventinovesima manovra di bilancio che faccio so come funzionano le cose») reclamate dall’opposizione alla luce della divergenza di posizioni con il suo partito. Dopo una nottata di telefonate incrociate per appianare il clima, Giorgetti ha presentato il nuovo maxi emendamento approvato poi in serata, con una serie di novità.
Salta la possibilità, in vigore dal 2025, di andare in pensione di vecchiaia anticipata a 64 anni con almeno 20 anni di contributi, per chi è in regime contributivo pieno, cumulando la previdenza complementare per raggiungere l’importo minimo previsto. La cancellazione consente di recuperare quei risparmi che sarebbero dovuti arrivare dall’emendamento sulle pensioni con la stretta sul riscatto della laurea breve e l’allungamento della finestra tra la maturazione e l’accredito dell’assegno, cancellate per l’opposizione della Lega. Si stima una minore spesa previdenziale crescente: 12,6 milioni nel prossimo anno, 36 nel 2027, 51,7 milioni nel 2028, 70 milioni nel 2029, 71,9 milioni nel 2030, 74,8 milioni nel 2031, 85,3 milioni nel 2032, 101,6 milioni nel 2033, 119,2 milioni nel 2034 e 130,8 milioni nel 2035.
La proposta sopprime una norma introdotta con l’ultima legge di bilancio con l’obiettivo di rendere più flessibile l’uscita. Per evitare altre frizioni, Giorgetti ha precisato che «pare non interessasse a nessuno». Ma il relatore della manovra, Claudio Borghi, non la pensa così («il cumulo dei fondi non è sbagliato») e ha annunciato una norma ad hoc.
Il nuovo maxi emendamento contiene anche un taglio di 40 milioni al Fondo per il pensionamento anticipato nei lavori usuranti a partire dal 2033. L’ammontare del fondo passerebbe dagli attuali 233 milioni a 193 milioni annui a decorrere dal 2033. Aumentano i tagli (di 50 milioni nel 2033 e di 100 milioni dal 2034) all’anticipo pensionistico per i lavoratori precoci. La manovra nel testo originario già prevedeva una decurtazione di 20 milioni nel 2027, 60 milioni nel 2028 e 90 milioni nel 2029. La modifica del governo prevede che ci siano 90 milioni in meno fino al 2032, tagli per 140 milioni nel 2033, e di 190 milioni annui dal 2034.
Rispuntano le misure per le imprese chieste da Confindustria, ovvero fondi per i crediti d’imposta Transizione 5.0 e Zes (Zona economica speciale); la misura sul Tfr come l’adesione automatica alla previdenza integrativa per i neo assunti e il contributo da 1,3 miliardi a carico delle assicurazioni. Riguardo a quest’ultimo punto si stabilisce che entro il 16 novembre di ogni anno gli assicuratori versino a titolo di acconto una somma pari all’85% del contributo dovuto per l’anno precedente. Torna l’ampliamento dei soggetti tenuti al versamento del Tfr al Fondo Inps per l’erogazione del contributo. Da gennaio prossimo vi rientrano anche i datori di lavoro che hanno raggiunto i 50 dipendenti. In via transitoria è previsto per il 2026-2027 che tale inclusione sia limitata a coloro che hanno un numero di dipendenti non inferiore a 60. Dal 2032 è prevista l’estensione dell’obbligo del versamento per le aziende con un organico non inferiore a 40 unità.
Le risorse per il Piano casa diminuiscono da 300 a 200 milioni per il biennio 2026-2027, mentre gli stanziamenti per il Ponte sullo Stretto di Messina sono spostati al 2032 e 2033. Il governo conferma 300 milioni nel biennio prossimo per rifinanziare il Fondo occupazione.
Arrivano 1,1 miliardi per la prosecuzione delle opere pubbliche. Nel dettaglio, vengono stanziati 600 milioni di euro per il 2026 e altri 500 milioni per il 2027. Si tratta, in totale, di 100 milioni in meno rispetto alla prima versione del maxi emendamento che poi è stato ritirato. È stata estesa ai redditi fino a 33.000 euro la detassazione dei rinnovi contrattuali. Allargato il beneficio anche ai rinnovi effettuati nel 2024.
In una riformulazione di un emendamento si prevede che sarà di 10 milioni per il solo 2026 il taglio del finanziamento alla Rai rispetto ai 30 milioni in tre anni, previsti inizialmente. Per l’editoria c’è un rifinanziamento di 60 milioni nel 2026.
Raddoppia la Tobin Tax (passa dallo 0,1% allo 0,2%), la tassazione delle transazioni finanziarie. Per i contratti assicurativi stipulati dal 1° gennaio 2026 l’aliquota sulla polizza Rc auto sale al 12,5% per gli infortuni del conducente e di rischio di assistenza stradale. Per gli affitti brevi aliquota al 21% sulla prima casa e al 26% sulla seconda; oltre i due immobili diventa reddito di imposta. Stanziato un milione per ciascuno degli anni 2026 e 2027 per l'Ente nazionale per la protezione e l'assistenza dei sordi.
L’emendamento sulla riapertura dei termini del condono 2003, che ha scatenato l’opposizione pronta all’ostruzionismo, sarà trasformato in un ordine del giorno. Via libera a un emendamento per lo spoil system nelle Authority.
Troppe penalizzazioni al Fintech: tasse al 33% sulle attività cripto
La Legge di Bilancio 2026 si inserisce in un contesto macroeconomico complesso, segnato da una crescita moderata, da un’elevata pressione fiscale e dalla necessità di garantire stabilità ai conti pubblici. Con una dotazione complessiva di circa 22 miliardi di euro, il provvedimento si muove lungo una linea di equilibrio tra esigenze di gettito e misure di sostegno, ma lascia aperti interrogativi rilevanti sul fronte dell’innovazione finanziaria.
Per quanto riguarda il comparto finanziario, la manovra concentra l’attenzione principalmente su banche e assicurazioni, chiamate a contribuire in modo significativo attraverso modifiche all’Irap e interventi sulla base imponibile. Un’impostazione che, secondo l’ecosistema Fintech, rischia di produrre effetti distorsivi, soprattutto per gli operatori di dimensioni minori e per le startup innovative.
Le modifiche all’Irap - che prevedono l’aumento dell’aliquota di due punti percentuali per il triennio 2026-2028, accompagnato da una detrazione fissa - favoriscono infatti gli operatori strutturati, lasciando invece scoperti i soggetti più piccoli, che non beneficiano di alcuna soglia di esenzione. Una scelta che potrebbe ampliare il divario tra grandi gruppi regolamentati e nuove imprese tecnologiche.
«In questo modo, il provvedimento rischia di accentuare la distanza tra grandi gruppi regolamentati e nuove imprese innovative, ostacolando la crescita di un comparto che dovrebbe invece essere sostenuto come leva strategica per la competitività del sistema finanziario italiano», osserva Camilla Cionini Visani, direttore generale di Italia Fintech.
Particolarmente critico anche il capitolo dedicato alle cripto-attività. La Manovra innalza infatti al 33% l’aliquota sulle plusvalenze realizzate a partire dall’1 gennaio 2026, rispetto al 26% in vigore negli anni precedenti. Un aumento che, pur con alcune eccezioni per i token di moneta elettronica denominati in euro conformi al regolamento MiCar, rappresenta un segnale di irrigidimento fiscale verso un settore ancora in fase di sviluppo.
«La tassazione prevista dalla manovra si configura come un aggravio fiscale in grado di ostacolare lo sviluppo di un settore che dovrebbe essere riconosciuto come strategico per l’innovazione finanziaria e la competitività del Paese», sottolinea Cionini Visani. «I digital asset e la finanza digitale rappresentano un terreno di sperimentazione e crescita, capace di attrarre investimenti, favorire l’inclusione e accelerare la trasformazione tecnologica».
Accanto a questi elementi, la Legge di Bilancio introduce anche alcune misure positive, come l’innalzamento della soglia di esenzione per i buoni pasto elettronici, la proroga degli incentivi agli investimenti in beni strumentali e la revisione dell’imposta di bollo su alcuni contratti di credito al consumo. Interventi che vanno nella direzione della digitalizzazione, ma che appaiono ancora frammentari rispetto alle esigenze di un settore in rapida evoluzione.
Nel complesso, la manovra restituisce l’immagine di un Paese che cerca stabilità finanziaria, ma che fatica a riconoscere pienamente il ruolo strategico del Fintech come motore di innovazione, competitività e crescita. Una sfida che, secondo gli operatori del settore, richiederà nei prossimi mesi un dialogo più strutturato tra istituzioni e mercato per evitare che l’Italia perda terreno rispetto agli altri principali ecosistemi europei.
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Ernesto Maria Ruffini (Ansa)
Mister Fisco fa una mossa prevista nel copione spifferato dal consigliere del Quirinale: «Elly Schlein non la vedo premier. Servirebbe un governo tutti insieme». E ad Assisi battezza la nuova creatura in salsa prodiana.
«Non vedo Elly Schlein come premier». Finito di separare con la forchetta le verdure dal roast beef e di raccontarsi come uno Special one di sacrestia («Mai votato Dc anche se nipote di cardinale, a 15 anni fumavo la pipa»), Ernesto Maria Ruffini dà il titolo all’intervistatore del Foglio. «Ai miei occhi chi si vede adesso come premier anziché guadagnare punti ne perde. All’assemblea pd è andato a votare meno di un terzo dei membri». Una frase destinata a far andare di traverso la particola consacrata domenicale a Dario Franceschini, totem cattodem del Nazareno e neo-sponsor (con il Correntone) della Elly a Palazzo Chigi. Ma sembra che il Metternich di Piacenza debba rifare tutto perché l’ex gabelliere dell’Agenzia delle Entrate scende in campo e non ha alcuna intenzione di fare la comparsa.
«Io ci sarò quando sarà il momento», puntualizza riferendosi alle primarie, mentre schizza un disegno sul tovagliolo; a sinistra se la tirano tutti da artisti, avrà letto che all’inizio lo faceva anche Picasso per pagare il conto. Poi il promotore dei comitati «Più uno» aggiunge: «Ci sarò se si parla di contenuti. Il centrosinistra ha perso le elezioni non perché non avesse un leader ma perché non aveva un’idea. Quando l’ha avuta, con Romano Prodi, ha vinto». Più che a un campo largo aspira a un campo aperto «perché servirebbe un governo tutti insieme». Il governissimo, l’esecutivo del presidente, l’acme dei sogni bagnati della sinistra in affanno. Leggi e ti viene un dubbio: questa dove l’avevo già sentita? Ma certo, è l’emendamento Garofani. È la traduzione in bella copia della strategia del consigliere del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
«Speriamo che cambi qualcosa prima delle prossime elezioni, ci vorrebbe un provvidenziale scossone»; per sconfiggere il centrodestra «basterebbe una grande lista civica nazionale», aveva rivelato Francesco Garofani durante una cena sportiva. Le frasi terremotarono la pace di cachemire del Colle e costarono a questo impertinente giornale, che le pubblicò, accuse patetiche e infamanti di complottismo e di eversione. Il Quirinale emise un comunicato grondante indignazione («Si è sconfinato nel ridicolo»). Il sistema mediatico dei colletti stirati scodinzolò. Il Pd si allarmò per la delegittimazione implicita della segretaria. Adesso arriva in motorino il nipote del cardinale di Palermo e ripete il progetto senza avere toccato un dito di vino: sono anche queste chiacchiere in libertà?
Ruffini fa lo gnorri, ammette solo che «a sinistra c’è rassegnazione e Garofani è un amico, ci lega anche il tifo (per la Roma, ndr)». Lapidario, telegrafico, si sta allenando a realizzare il sogno da ragazzino: fare lo scrittore delle frasi dei Baci Perugina. Il resto quadra tutto. Ex direttore dell’Agenzia delle Entrate ha come brodo di coltura il grande centro, come nume tutelare Mattarella, come leader da imitare Prodi («Ascolto sempre i suoi preziosi consigli»), come taxi da acchiappare il Pd, come pianta da coltivare l’ulivo. Da 30 anni i cattodem sono fermi al semaforo prodiano e oggi più che mai considerano Schlein un’intrusa «che non percepisce la realtà e non ascolta nessuno» (dixit Pier Luigi Castagnetti che una volta a settimana pranza con il capo dello Stato).
Il centrosinistra cattolico si è rimesso in moto con la speranza di attraversare il grande deserto elettorale. Sarà la sesta o settima volta che ci prova e finora i risultati sono stati da zero virgola. Ma «la provvidenza» di Ruffini è la stessa di Garofani, di Paolo Gentiloni, di Andrea Riccardi, del Sant’Egidio al completo, del cardinal Matteo Zuppi, del Vaticano gesuita e della Cei, di Graziano Delrio, del mattarellismo ecumenico. Sconfessato dal Pantheon, Franceschini si allineerà. Per la Schlein stanno per arrivare tempi duri. Rischia di scomparire in una catacomba o di farsi guidare la mano mentre stila le prossime liste elettorali; la seguace di Manu Chao dovrà vergare sotto dettatura i nomi di candidati e cacicchi per lei impresentabili, che guardacaso nel 2029 eleggeranno il presidente della Repubblica.
In questo aulico contesto, ieri è stata varata «Comunità riformista». Titolo di qualcosa che nasce vecchio. In Umbria, ad Assisi, Santa Maria degli Angeli, più di una benedizione, con lo scopo di «tenere insieme il riformismo socialista, la tradizione del cattolicesimo democratico, la tradizione liberale e quella dell’associazionismo», come ha puntualizzato Enzo Maraio, segretario di Avanti Psi. Ma fra i promotori del minestrone di verdura c’è proprio Ruffini che ha aggiunto: «Il laboratorio che parte qui ad Assisi chiama a raccolta tutte le forze riformiste per contribuire a formare un pensiero politico. L’ambizione è quella di creare una comunità e poi quella di governarla, per fare e per contrapporsi a questo governo».
Dietro di lui è uscito dalla nebbia (o dal sarcofago) un costruttore di percorsi silvani col bollino blu: Bruno Tabacci, simbolo evergreen del galleggiamento politico nella calma piatta dell’arzigogolo. «È necessario che forze del mondo riformatore abbiano la capacità di mettersi insieme; ci vuole generosità, serietà, impegno e profondità nei programmi». Per cominciare aspettano Garofani con un chilo di provvidenza. Poi gli happy few ci sono tutti. Anzi no, manca Clemente Mastella, quello della storica frase: «Quando sento odore di braciola mi avvicino». È solo questione di tempo.
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Pasquale Tridico
A Bruxelles, la commissione guidata da Pasquale Tridico avanza la proposta di prelevare il 2% a chi è oltre 100 milioni. Gettito previsto: 67 miliardi l’anno. I contribuenti europei: si inizia così poi arriva la tassa continentale a tutti.
La patrimoniale proposta da Maurizio Landini, ovvero prelevare l’1,3% sul patrimonio netto di chi possiede più di 2 milioni di euro, è stata rispedita al mittente in Italia, però rischia di rientrare dalla finestra attraverso l’Europa. Al Parlamento europeo, gli eurodeputati hanno infatti esaminato la possibilità di introdurre una forma di imposizione minima sui patrimoni molto elevati, nell’ambito di un più ampio programma volto a rendere i sistemi fiscali «più equi». Il tema è stato al centro di un’audizione organizzata l’11 dicembre dalla sottocommissione per le questioni fiscali del Parlamento europeo - la Fisc presieduta dal grillino Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps - alla quale hanno partecipato rappresentanti della Commissione Ue, dell’Ocse, dell’Osservatorio fiscale dell’Unione e della Tax Foundation Europe.
Al centro del dibattito la proposta illustrata da Gabriel Zucman, economista dell’Osservatorio fiscale della Ue, il quale ha avanzato l’idea di un’imposta minima sui cosiddetti patrimoni «estremi». Secondo i suoi calcoli, tassare al 2% i cittadini europei con patrimoni superiori ai 100 milioni di euro potrebbe garantire un gettito fino a 67 miliardi di euro l’anno. Una cifra considerata appetibile in una fase in cui l’Unione è alla ricerca di nuove risorse per finanziare le proprie politiche, in particolare quelle per la Difesa. Senza contare i 90 e passa miliardi, in pratica a fondo perduto, che a breve prenderanno la direzione di Kiev.
Secondo Tridico, «la Ue continua a confrontarsi con profonde disuguaglianze nelle nostre società e si trova ad affrontare importanti sfide nel mobilitare le risorse necessarie per finanziare le sue politiche», e «lo studio presentato dall’Osservatorio fiscale europeo evidenzia serie preoccupazioni», ha sottolineato il candidato del Campo largo sconfitto recentemente in Calabria, «circa l’efficacia delle imposte sul patrimonio netto finora adottate dai singoli Stati membri nel contrastare le ingenti fortune concentrate in un numero ristretto di cittadini. Queste carenze derivano dalle esenzioni, dall’erosione delle basi imponibili e dalla facilità di mobilità della ricchezza». E dunque? «Per affrontare queste debolezze e offrire una soluzione credibile a livello europeo, si dovrebbero prendere in considerazione nuove proposte, tra cui quella avanzata da mister Zucman», ha detto Tridico.
Il problema, ha replicato invece Michael Christl della Tax Foundation Europe, è che l’europatrimoniale avrebbe degli effetti collaterali non secondari. Secondo Christl, un aumento della pressione fiscale sui grandi patrimoni non porterebbe maggiore equità, bensì disinvestimenti, delocalizzazioni e fughe di capitali verso Paesi extra Ue - a partire dalla Gran Bretagna passando per la Svizzera, fino a Dubai e persino Stati Uniti - rendendo l’Europa meno competitiva e meno attrattiva di quello che è già a causa della devastante burocrazia soprattutto green e la rigida impalcatura fiscale. Anche tra gli eurodeputati il fronte appare spaccato. C’è chi ha chiesto prove empiriche più solide sul legame tra nuove imposte e trasferimento dei contribuenti facoltosi, e chi invece ha sottolineato come la ricerca di maggiore equità sociale debba comunque fare i conti con la necessità di non compromettere la capacità dell’Europa di attrarre investimenti.
Nel dibattito si è inserita con toni durissimi l’Associazione dei contribuenti europei (Taxpayers of Europe), che ha definito «inquietante» la discussione in corso. Il presidente Michael Jaeger ha chiesto di «stroncare sul nascere» ogni ipotesi di armonizzazione fiscale europea, ricordando che la tassazione del reddito e del patrimonio è competenza esclusiva degli Stati membri. Secondo l’associazione, esempi come quello francese dimostrano inoltre che anche il solo annuncio di una tassa patrimoniale può provocare effetti devastanti: in Francia, è stato ricordato, la fuga di capitali avrebbe raggiunto i 35 miliardi di euro. La paura, avvertono i contribuenti europei, è che una tassa pensata oggi per colpire gli «iper ricchi» finisca domani per estendersi a famiglie e imprese, anche attraverso strumenti come il futuro Registro patrimoniale dell’Ue. Un passo che, secondo i critici ma banalmente secondo il buon senso, rischierebbe di trasformare la ricerca di equità fiscale in un boomerang per l’economia europea. Meno ricchi uguale meno lavoro, meno investimenti, meno risparmi da gestire, meno soldi che girano. Più povertà. Alla fine saremmo magari più «equi», come propongono i cervelloni continentali, nel senso che saremmo tutti più indigenti.
Un allarme che cresce mentre Bruxelles continua a discutere di nuove entrate, con il timore sempre più diffuso che, invece di trattenere capitali e investimenti, l’Europa finisca per spingerli definitivamente oltre i suoi confini.
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