2023-11-10
Costanza Mignanelli: «Tutti possiamo battere l’anoressia. Ma dobbiamo scegliere di guarire»
Parla l’autrice de «Il coraggio di piacersi»: «Quando smetti di mangiare non vuoi più crescere, è una ricerca inconscia di attenzioni per tornare bambini. Tolta la flebo ho rimparato ad alimentarmi dai chicchi di riso».«C’era una volta una bambina con la frangetta di nome Costanza, per tutti Costy, sempre allegra e positiva, sognatrice sin dai primi anni di vita. Sembrava una di quelle principesse che prenderebbe una scaletta per raggiungere la luna».Si tratteggia così, con toni di fiaba, Costanza Mignanelli, 34 anni da Ancona, responsabile marketing e comunicazione per una grande azienda locale. Come in ogni fiaba che si rispetti, però, durante il cammino della protagonista arriva la fase dello smarrimento: per Costy ciò si traduce nel guardarsi allo specchio e non piacersi. È allora che, con spietata determinazione, decide di smettere di mangiare. Un lustro di buio nell’età della luce, dai 20 ai 25 anni, in cui Mignanelli discende i gironi dell’anoressia, anello dopo anello; fino a che, toccato il fondo, ritrova dentro di sé l’attaccamento alla vita e la forza per il colpo di reni.Dopo quasi 10 anni, certa di avere sconfitto «il mostro», lo rinchiude per sempre nel libro Il coraggio di piacersi, un racconto che è un addio alla malattia e un messaggio: «Chiedete aiuto».C’è mai stata la paura che il mostro potesse tornare?«Ne ho discusso più volte con la mia psicologa. Ogni volta che avevo un momento di fragilità, magari in periodi di stress, alzavo il telefono: “Secondo te può tornare?”. La risposta è sempre stata: “Quel momento è passato perché hai scelto di guarire, e chi sceglie di guarire non torna indietro”».Come ricorda la sua infanzia?«Per quel che so, ero serena. Sicuramente la separazione dei miei, nel 2016, fu il sigillo su un qualcosa che non funzionava da tempo; i conflitti di coppia iniziarono quando ero piccola. Non ho memoria di un gesto d’affetto scambiato da mamma e papà».C’è un episodio sedimentato nell’animo?«No, ma c’è la consapevolezza di una tensione incamerata. Non ero una bambina che buttava fuori, assorbivo e accumulavo».Qual era il suo piatto preferito, da piccola?«Oddio… (sorride). Nessuno me lo aveva mai chiesto. Il primo che mi viene in mente è la minestra col formaggino. Mia madre era solita farmela quando stavo male, ma io la chiedevo sempre».Una bambina atipica.«Mamma racconta che, pur non essendo una che divorava il cibo, mangiavo qualsiasi cosa mi desse».Era mai stata oggetto di prese in giro dovute al suo aspetto?«Mai, fino ai 12 anni. Nell’estate tra gli 11 e i 12 il mio corpo sbocciò, spuntarono il seno e le forme. Ricordo che a settembre, al mio ritorno a scuola, c’erano compagni che facevano commenti, non necessariamente con cattiveria. Io non rispondevo, tornavo a casa e piangevo».Età difficile…«Già… Per me anche la danza ha rappresentato un elemento traumatico. Ho ballato dagli 8 ai 20 anni, quando già non stavo bene: arrivavo alla fine delle coreografie che mi reggevo in piedi a malapena. C’era un confronto continuo tra le ragazze e nella mia testa si era creata la convinzione di essere troppo in carne, nonostante non fosse oggettivamente così. Vedevo le altre più belle, più magre. Ci fu anche un episodio, avrò avuto 16-17 anni…».Dica.«Stavamo provando una coreografia che prevedeva l’utilizzo di una sedia di vimini, di quelle da cabaret. Saltai con particolare impeto e ruppi il sedile. Mi guardai intorno e vidi le compagne che ridevano. Non stavano ridendo di me in particolare, eppure piansi per una settimana, non volevo più fare il saggio finale».Come arriva l’anoressia? Si presenta all’improvviso o se ne avvertono i passi?«Io credo di averla sempre covata. Non ho mai accettato che il mio corpo stesse cambiando. Dico sempre che, quando smetti di mangiare, è come se non volessi più crescere, non vuoi maturare, è una ricerca inconscia di attenzioni per tornare bambino. Il mostro arrivò dopo l’estate della maturità, di colpo mi sentii liberata dalla responsabilità di portare a casa buoni voti e mi dissi: ora l’obiettivo è dimagrire».Cosa la infastidiva, guardandosi allo specchio?«Tutte le forme: i fianchi, le gambe, il seno. Mi sentivo pesante».Ricorda il primo sentimento di disagio legato al cibo?«Avevo appena cominciato l’università: da un giorno all’altro cominciai a scartare tutto ciò che era nutrimento, mangiavo solo verdure e bevevo caffè. Avevo eliminato anche la frutta, per via degli zuccheri».Quando si rese conto di avere un problema?«Fine 2015. Pesavo circa 54 chili (io sono alta 1,74). Capii che la mia mente aveva scatenato tutta una serie di disturbi ingannevoli: continui bruciori di stomaco, nausea appena mi avvicinavo al cibo».Come reagì?«Panico. Ti accorgi di non avere più un controllo che prima ti illudevi di avere, avendo vinto sulla bilancia. È come essere posseduti da un demone che si è preso la tua testa e il tuo corpo».Qualcuno, attorno a lei, capì?«Mia madre provò a portarmi da una psichiatra, ma io non mi sentivo matta nonostante le fragilità. Rifiutavo gli psicofarmaci perché dentro di me volevo un’altra cura… che era l’amore».Gli amici?«Stavano in silenzio, nessuno sapeva come gestire la situazione. Ne ho persi tanti, troncavo i rapporti, è come mettersi in isolamento. Stessa cosa con il fidanzato, gli stavo facendo del male. Nei rari momenti di vita sociale, escogitavo stratagemmi per non mangiare».Per esempio?«Quando non potevo evitare pranzi o cene, buttavo il cibo mentre gli altri erano distratti, oppure lo nascondevo in tasca, nei tovaglioli. A Natale me la cavavo mangiando solo verdura, quella era il mio paracadute».Come si fa a dimenticare cosa sia l’appetito?«Non si dimentica. C’erano situazioni in cui desideravo fortemente mangiare, ma appena sgarravo di una virgola recuperavo digiunando per giorni».Quanto era arrivata a pesare?«Il punto più basso fu 45 chili. E ancora non mi piacevo».Nel frattempo, la vita degli impegni come procedeva?«Portavo avanti tutto. Mi laureai con il massimo dei voti, come un soldatino. Le ragazze colpite da questo male spesso sono molto determinate, perfezioniste, ambiziose».Ha mai provato un senso di colpa verso gli affetti?«Oggi, col senno di poi, sì. Durante la malattia non sopportavo nessuno. Perché tutti mi remavano contro, volevano sabotare il mio progetto».In quale momento crede di aver toccato il fondo?«La sera del 27 dicembre 2015. Ero a cena dai miei zii con tutti i parenti. Sentivo questa inquietudine interiore, stavo malissimo. A un certo punto, dal nulla, mi alzai e andai in camera di mio cugino per stendermi. Quando vennero a cercarmi, l’unica cosa che riuscii a dire fu: “Se non mi ricoverate, mi ammazzo”».Un Sos.«Sì. Il reparto in cui fui ricoverata però, endocrinologia, non era attrezzato per i disturbi alimentari. La notte di Capodanno fu un incubo: chiedevo aiuto e gli infermieri non sapevano cosa fare. Non mi facevano vedere i genitori perché, in casi come il mio, si pensa che siano la fonte primaria del problema. Non avevo nulla a cui aggrapparmi. Solo un antinausea nella borsa, il Plasil. Cercai di uccidermi con quello».Per fortuna è qui a raccontarlo.«Lo devo al mio angelo, Nadia, un’infermiera. Lei capì che tutto ciò di cui avevo bisogno era staccare il cervello e riposare. Mi diede otto gocce di un ansiolitico che mi fece dormire come un sasso. Il giorno dopo mi svegliai e pensai: ma io sto bene. Improvvisamente mi sentii libera».Così dall’oggi al domani?«Ovviamente poi ci fu tutto un lavoro di recupero in cui mi staccarono la flebo e dovetti ricominciare ad alimentarmi da sola, partendo da qualche chicco di riso. Un’impresa. A ogni boccone mi veniva da vomitare, piangevo. La forza che tirai fuori in quei momenti non pensavo neanch’io di averla. Volevo finalmente tornare a vivere».I medici affermano che il cuore degli anoressici, a causa della drastica perdita di peso, si restringe. È un fatto fisico, ma ha anche un che di metaforico, non trova?«È vero. L’ho potuto constatare perché una ragazza ricoverata con me per anoressia aveva diversi problemi al cuore. Se guardo la cosa simbolicamente, ero diventata arida, vuota: il mio cuore si era ristretto. La Costanza di oggi è l’opposto, il motore di tutto è l’amore».Che ruolo hanno giocato i social nell’evolversi della malattia?«Piuttosto rilevante. Al di là delle mie fragilità, le cui radici affondavano in una fase della crescita dove i social non esistevano, siamo bombardate da immagini di perfezione estetica che non corrispondono a una perfezione etica. L’importante sono le gambe, l’addome, il culo. È il regno del vuoto».Eppure nella moda è nata la categoria curvy.«Mi sembra più un’operazione di pulizia dell’immagine, un modo per lavarsi la coscienza. Vedi sfilare queste ragazze alte 1,80 per 45 chilogrammi e poi, di tanto in tanto, piazzano la curvy di turno, che non rappresenta comunque la normalità. La taglia che va via per prima nei negozi è la M, ciò significa che la maggior parte delle donne è normopeso».Quando si guarda allo specchio, adesso, cosa vede?«Io e lo specchio abbiamo trovato una tregua (sorride). Parto sempre notando i difetti, però poi vedo quella luce interiore che si era spenta. Questo mi dà equilibrio, armonia».Il «coraggio di piacersi», dunque, cos’è?«È qualcosa che si costruisce giorno per giorno. Un continuo compromesso tra ciò che vedi all’esterno e ciò che sei dentro di te».Cosa le ha insegnato l’anoressia?«A saper attraversare il dolore, viverlo invece di evitarlo. È una lezione utile per qualsiasi ostacolo si incontri nella vita».Chiudiamo come abbiamo cominciato: qual è il suo piatto preferito oggi?«Pollo arrosto con patate. Non so se è perché mi ricorda qualcosa dell’infanzia, ma chi mi conosce sa che, se vuole farmi felice, col pollo arrosto va sul sicuro».
Little Tony con la figlia in una foto d'archivio (Getty Images). Nel riquadro, Cristiana Ciacci in una immagine recente
«Las Muertas» (Netflix)
Disponibile dal 10 settembre, Las Muertas ricostruisce in sei episodi la vicenda delle Las Poquianchis, quattro donne che tra il 1945 e il 1964 gestirono un bordello di coercizione e morte, trasformato dalla serie in una narrazione romanzata.