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2024-03-03
Nei cortei anti Israele spiccano i dem a braccetto con chi predica l’odio
Ansa
Il Pd e la sinistra hanno scelto da che parte stare: dalla parte della piazza che grida slogan come «Noi la Palestina la vogliamo, non esiste Israele che è uno stato che occupa», «Palestina libera fino alla vittoria», «Abbattere le frontiere dal Brennero alla Palestina», «Fuoco alle galere», oppure che imbratta la foto del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con mani insanguinate. La saldatura tra la gioiosa macchinina da guerra di Elly Schlein e il fronte italiano pro Palestina è avvenuta a Pisa, dove numerosi esponenti politici locali della sinistra, e del Partito democratico in particolare (su tutti, il presidente dem della Provincia, Massimiliano Angori), hanno partecipato al corteo-minestrone («In piazza contro le bombe e i manganelli», il titolo), organizzato da studenti e ragazzi per protestare per gli scontri dello scorso 23 febbraio in città tra manifestanti e forze dell’ordine, insieme a collettivi universitari, docenti delle scuole superiori e sindacati (complessivamente, quasi 5.000 persone alla manifestazione). Tra gli striscioni apparsi lungo il serpentone di partecipanti, «Pisa non ha paura» e «Israele Stato fascista e terrorista».
Momenti di particolare tensione si sono registrati soprattutto a Trento, dove un corteo anarchico ha sfilato per le vie del centro storico della città per sostenere la Palestina, ma anche per esprimere solidarietà agli imputati del processo per i disordini che si erano registrati al Brennero nel 2016. Numerosi muri sono stati imbrattati con scritte e insulti, prese di mira anche le banche e la sede dell’università.
A Roma i manifestanti (presenti tra gli altri la Comunità palestinese in Italia, gli attivisti di Cambiare rotta, Unione popolare, Rifondazione comunista e alcune sigle anarchiche) se la solo presa un po’ con tutti: la foto di Giorgia Meloni, ritratta in compagnia del presidente israeliano Benjamin Netanyahu, è stata imbrattata con impronte di mani insanguinate. Qualcuno se l’è presa con la senatrice a vita Liliana Segre, agitando lo striscione «Liliana Segre io ti stimo ma non sento la tua voce sulle stragi di Gaza». In un altro si leggeva: «Avete superato i nazisti. Fosse Ardeatine: 10 per ogni ucciso a via Rasella. Gaza: 25 per ogni ucciso il 7 ottobre». Tra i bersagli del corteo anche il segretario del Pd, Elly Schlein, ritratta in una fotografia accanto agli striscioni «Fermiamo il genocidio, Palestina libera» e «Governo Meloni complice del genocidio», e Matteo Salvini, accusato di «complicità in genocidio». In testa al corteo i ragazzi palestinesi hanno esposto dei lenzuoli bianchi con scritto in rosso «Stop genocidio». I giovani si sono poi sdraiati per terra mentre dalle casse risuonava il rumore di bombe e missili. Infine Maya Issa, presidente del movimento degli studenti palestinesi, al megafono ha scandito più volte lo slogan «Noi la Palestina la vogliamo, non esiste Israele che è uno Stato che occupa e che ha colonizzato la nostra terra». A suggellare la scampagnata è partitala superhit di ogni serpentone, Bella ciao, intonata nei pressi dell’università La Sapienza.
A Milano sono stati 1.500, secondo gli organizzatori, i partecipanti al corteo. A tenere banco è stata la spaccatura all’interno dell’Anpi locale, conseguente alle dimissioni del presidente, Roberto Cenati, contrario all’utilizzo del termine «genocidio» per l’operazione militare di Israele a Gaza. Cenati è stato spesso preso di mira durante il pomeriggio al grido di «Vergogna», «È l’ennesima provocazione», e «Meno male che te ne sei andato». «Da tantissimi iscritti all’Anpi non era più ben visto perché le sue esternazioni erano sempre a favore di Israele che condividiamo se si parla della Shoah, ma in questo momento non è il caso di stare dalla parte di un governo che sta massacrando una popolazione», hanno sostenuto i partigiani meneghini prima del rompete le righe, avvenuto davanti alla stazione Centrale. Immancabili gli slogan contro Giorgia Meloni «perché manda soldati e armi». Qualcuno ha anche scandito «Joe Biden assassino». A Firenze, infine, i manifestanti si sono radunati davanti al consolato degli Stati Uniti, blindato dalle forze dell’ordine. Anche qui la benedizione della sinistra si è materializzata con la presenza di Antonella Bundu e Dmitrij Palagi, consiglieri di Sinistra progetto Comune. Altre mobilitazioni si sono tenute a Trieste, a Torino, dove i manifestanti hanno tenuto a sottolineare che «il Comune è gemellato con Gaza» e Empoli, dove insieme agli studenti hanno sfilato anche le femministe di Non una di meno, gli ultras della locale squadra di calcio e i candidati sindaco, Alessio Mantellassi (centrosinistra) e Leonardo Masi (Buongiorno Empoli-M5s).
«Quello in Palestina non è genocidio». Presidente di Anpi Milano si dimette
Alla fine Roberto Cenati, presidente della sezione milanese dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia), ha optato per le dimissioni irrevocabili. Dopo alcuni giorni di riflessioni sofferte, ha concluso che l’unica scelta possibile fosse quella di un passo indietro e, dunque, di dire addio dopo quasi tredici anni alla guida dell’Anpi di Milano.
Il motivo all’origine della drastica decisione è riassumibile in una parola: genocidio. Un vocabolo che viene ormai regolarmente adoperato, in particolare negli ambienti della sinistra, per definire gli attacchi nei confronti dei palestinesi ordinati nella Striscia di Gaza dal premier israeliano Benjamin Netanyahu in reazione all’attentato terroristico condotto da Hamas il 7 ottobre 2023. Un utilizzo che però, secondo Cenati, è del tutto improprio e, pertanto, non accettabile. Sul punto, l’ormai ex presidente dei partigiani milanesi era stato molto chiaro già alcuni giorni fa, in un’intervista rilasciata al Corriere della sera: «È una parola che va usata con grande attenzione. Nel 1948 l’Onu ha adottato una convenzione che qualifica come genocidio “l’uccisione sistematica di membri di un gruppo nazionale, etnico, o religioso”. Non sussistono tali condizioni nell’attuale conflitto», aveva detto. Per poi proseguire: «Il governo israeliano sta determinando una tragedia umanitaria, con stragi di civili, soprattutto bambini, donne e anziani, vittime del conflitto originato dal barbaro attacco del 7 ottobre. Il governo di Netanyahu si prefigge di annientare Hamas, che nel suo statuto prevede la distruzione di Israele e l’eliminazione degli ebrei, ma non ha come obiettivo la distruzione fisica, sistematica e totale del popolo palestinese, né le altre misure prefigurate nel termine genocidio. E poi c’è un altro slogan che non ci piace di quei cortei: quando si chiede che lo Stato palestinese si estenda dal Giordano al Mediterraneo. Significa che si vuole l’eliminazione di Israele».
Il punto di vista di Cenati, tuttavia, si è presto rivelato minoritario all’interno dell’Anpi e così, dopo l’assenza ai cortei filopalestinesi svoltisi fino a oggi, anche la sezione milanese parteciperà, in accordo con la direzione nazionale dell’associazione, al corteo pro Palestina che si terrà il 9 marzo a Roma e che vedrà tra i suoi protagonisti anche la Cgil. Un corteo fra i cui slogan annunciati figura anche quello seguente: «Impedire il genocidio». A quel punto Cenati non ha potuto fare altro che dimettersi, coerentemente con le opinioni da lui espresse. Non si è fatta attendere la replica di Gianfranco Pagliarulo, che dell’Anpi è il presidente nazionale, il quale ha commentato così la mossa di Cenati: «Le parole del presidente dell’Anpi milanese mi lasciano stupito. Una delle parole d’ordine per la grande manifestazione del 9 marzo è “impediamo il genocidio”, parole che utilizza il tribunale penale internazionale. Dire “impediamo”, poi, significa che non c’è ancora un genocidio ma c’è pericolo che accada». Naturalmente il contrasto su di un singolo termine cela una ben più profonda e lacerante contrapposizione di carattere politico: da una parte, nell’Anpi, c’è chi, sostenendo tuttora la proposta sintetizzata dalla frase «due popoli e due Stati», prende in considerazione ragioni e torti di entrambe le parti in conflitto; dall’altra, ed è con ogni evidenza la parte più consistente, ci sono coloro per i quali esistono un solo carnefice e una sola vittima, rispettivamente il governo israeliano e i palestinesi della Striscia, e per i quali gli esponenti di Hamas non vanno considerati dei terroristi ma esclusivamente dei valorosi partigiani (appunto) impegnati in una drammatica lotta di liberazione.
Un grande scrittore italiano di origine ebraica, Carlo Levi, diceva (è il titolo di un suo libro) che «le parole sono pietre». Non è meno vero per la quasi totalità della sinistra italiana, compresa da oggi anche l’Anpi milanese: purché le pietre siano quelle dell’Intifada palestinese e non altre.
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Ieri sfilate senza disordini in diverse città con in prima linea amministratori del Pd. Pioggia di insulti (pure a Liliana Segre), foto di Giorgia Meloni imbrattata di sangue.Roberto Cenati lascia l’Anpi Milano spaccata dalla difesa a oltranza dei «partigiani» di Hamas.Lo speciale contiene due articoli.Il Pd e la sinistra hanno scelto da che parte stare: dalla parte della piazza che grida slogan come «Noi la Palestina la vogliamo, non esiste Israele che è uno stato che occupa», «Palestina libera fino alla vittoria», «Abbattere le frontiere dal Brennero alla Palestina», «Fuoco alle galere», oppure che imbratta la foto del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con mani insanguinate. La saldatura tra la gioiosa macchinina da guerra di Elly Schlein e il fronte italiano pro Palestina è avvenuta a Pisa, dove numerosi esponenti politici locali della sinistra, e del Partito democratico in particolare (su tutti, il presidente dem della Provincia, Massimiliano Angori), hanno partecipato al corteo-minestrone («In piazza contro le bombe e i manganelli», il titolo), organizzato da studenti e ragazzi per protestare per gli scontri dello scorso 23 febbraio in città tra manifestanti e forze dell’ordine, insieme a collettivi universitari, docenti delle scuole superiori e sindacati (complessivamente, quasi 5.000 persone alla manifestazione). Tra gli striscioni apparsi lungo il serpentone di partecipanti, «Pisa non ha paura» e «Israele Stato fascista e terrorista».Momenti di particolare tensione si sono registrati soprattutto a Trento, dove un corteo anarchico ha sfilato per le vie del centro storico della città per sostenere la Palestina, ma anche per esprimere solidarietà agli imputati del processo per i disordini che si erano registrati al Brennero nel 2016. Numerosi muri sono stati imbrattati con scritte e insulti, prese di mira anche le banche e la sede dell’università.A Roma i manifestanti (presenti tra gli altri la Comunità palestinese in Italia, gli attivisti di Cambiare rotta, Unione popolare, Rifondazione comunista e alcune sigle anarchiche) se la solo presa un po’ con tutti: la foto di Giorgia Meloni, ritratta in compagnia del presidente israeliano Benjamin Netanyahu, è stata imbrattata con impronte di mani insanguinate. Qualcuno se l’è presa con la senatrice a vita Liliana Segre, agitando lo striscione «Liliana Segre io ti stimo ma non sento la tua voce sulle stragi di Gaza». In un altro si leggeva: «Avete superato i nazisti. Fosse Ardeatine: 10 per ogni ucciso a via Rasella. Gaza: 25 per ogni ucciso il 7 ottobre». Tra i bersagli del corteo anche il segretario del Pd, Elly Schlein, ritratta in una fotografia accanto agli striscioni «Fermiamo il genocidio, Palestina libera» e «Governo Meloni complice del genocidio», e Matteo Salvini, accusato di «complicità in genocidio». In testa al corteo i ragazzi palestinesi hanno esposto dei lenzuoli bianchi con scritto in rosso «Stop genocidio». I giovani si sono poi sdraiati per terra mentre dalle casse risuonava il rumore di bombe e missili. Infine Maya Issa, presidente del movimento degli studenti palestinesi, al megafono ha scandito più volte lo slogan «Noi la Palestina la vogliamo, non esiste Israele che è uno Stato che occupa e che ha colonizzato la nostra terra». A suggellare la scampagnata è partitala superhit di ogni serpentone, Bella ciao, intonata nei pressi dell’università La Sapienza.A Milano sono stati 1.500, secondo gli organizzatori, i partecipanti al corteo. A tenere banco è stata la spaccatura all’interno dell’Anpi locale, conseguente alle dimissioni del presidente, Roberto Cenati, contrario all’utilizzo del termine «genocidio» per l’operazione militare di Israele a Gaza. Cenati è stato spesso preso di mira durante il pomeriggio al grido di «Vergogna», «È l’ennesima provocazione», e «Meno male che te ne sei andato». «Da tantissimi iscritti all’Anpi non era più ben visto perché le sue esternazioni erano sempre a favore di Israele che condividiamo se si parla della Shoah, ma in questo momento non è il caso di stare dalla parte di un governo che sta massacrando una popolazione», hanno sostenuto i partigiani meneghini prima del rompete le righe, avvenuto davanti alla stazione Centrale. Immancabili gli slogan contro Giorgia Meloni «perché manda soldati e armi». Qualcuno ha anche scandito «Joe Biden assassino». A Firenze, infine, i manifestanti si sono radunati davanti al consolato degli Stati Uniti, blindato dalle forze dell’ordine. Anche qui la benedizione della sinistra si è materializzata con la presenza di Antonella Bundu e Dmitrij Palagi, consiglieri di Sinistra progetto Comune. Altre mobilitazioni si sono tenute a Trieste, a Torino, dove i manifestanti hanno tenuto a sottolineare che «il Comune è gemellato con Gaza» e Empoli, dove insieme agli studenti hanno sfilato anche le femministe di Non una di meno, gli ultras della locale squadra di calcio e i candidati sindaco, Alessio Mantellassi (centrosinistra) e Leonardo Masi (Buongiorno Empoli-M5s).<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cortei-antiisraele-dem-predica-odio-2667416781.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="quello-in-palestina-non-e-genocidio-presidente-di-anpi-milano-si-dimette" data-post-id="2667416781" data-published-at="1709458329" data-use-pagination="False"> «Quello in Palestina non è genocidio». Presidente di Anpi Milano si dimette Alla fine Roberto Cenati, presidente della sezione milanese dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia), ha optato per le dimissioni irrevocabili. Dopo alcuni giorni di riflessioni sofferte, ha concluso che l’unica scelta possibile fosse quella di un passo indietro e, dunque, di dire addio dopo quasi tredici anni alla guida dell’Anpi di Milano. Il motivo all’origine della drastica decisione è riassumibile in una parola: genocidio. Un vocabolo che viene ormai regolarmente adoperato, in particolare negli ambienti della sinistra, per definire gli attacchi nei confronti dei palestinesi ordinati nella Striscia di Gaza dal premier israeliano Benjamin Netanyahu in reazione all’attentato terroristico condotto da Hamas il 7 ottobre 2023. Un utilizzo che però, secondo Cenati, è del tutto improprio e, pertanto, non accettabile. Sul punto, l’ormai ex presidente dei partigiani milanesi era stato molto chiaro già alcuni giorni fa, in un’intervista rilasciata al Corriere della sera: «È una parola che va usata con grande attenzione. Nel 1948 l’Onu ha adottato una convenzione che qualifica come genocidio “l’uccisione sistematica di membri di un gruppo nazionale, etnico, o religioso”. Non sussistono tali condizioni nell’attuale conflitto», aveva detto. Per poi proseguire: «Il governo israeliano sta determinando una tragedia umanitaria, con stragi di civili, soprattutto bambini, donne e anziani, vittime del conflitto originato dal barbaro attacco del 7 ottobre. Il governo di Netanyahu si prefigge di annientare Hamas, che nel suo statuto prevede la distruzione di Israele e l’eliminazione degli ebrei, ma non ha come obiettivo la distruzione fisica, sistematica e totale del popolo palestinese, né le altre misure prefigurate nel termine genocidio. E poi c’è un altro slogan che non ci piace di quei cortei: quando si chiede che lo Stato palestinese si estenda dal Giordano al Mediterraneo. Significa che si vuole l’eliminazione di Israele». Il punto di vista di Cenati, tuttavia, si è presto rivelato minoritario all’interno dell’Anpi e così, dopo l’assenza ai cortei filopalestinesi svoltisi fino a oggi, anche la sezione milanese parteciperà, in accordo con la direzione nazionale dell’associazione, al corteo pro Palestina che si terrà il 9 marzo a Roma e che vedrà tra i suoi protagonisti anche la Cgil. Un corteo fra i cui slogan annunciati figura anche quello seguente: «Impedire il genocidio». A quel punto Cenati non ha potuto fare altro che dimettersi, coerentemente con le opinioni da lui espresse. Non si è fatta attendere la replica di Gianfranco Pagliarulo, che dell’Anpi è il presidente nazionale, il quale ha commentato così la mossa di Cenati: «Le parole del presidente dell’Anpi milanese mi lasciano stupito. Una delle parole d’ordine per la grande manifestazione del 9 marzo è “impediamo il genocidio”, parole che utilizza il tribunale penale internazionale. Dire “impediamo”, poi, significa che non c’è ancora un genocidio ma c’è pericolo che accada». Naturalmente il contrasto su di un singolo termine cela una ben più profonda e lacerante contrapposizione di carattere politico: da una parte, nell’Anpi, c’è chi, sostenendo tuttora la proposta sintetizzata dalla frase «due popoli e due Stati», prende in considerazione ragioni e torti di entrambe le parti in conflitto; dall’altra, ed è con ogni evidenza la parte più consistente, ci sono coloro per i quali esistono un solo carnefice e una sola vittima, rispettivamente il governo israeliano e i palestinesi della Striscia, e per i quali gli esponenti di Hamas non vanno considerati dei terroristi ma esclusivamente dei valorosi partigiani (appunto) impegnati in una drammatica lotta di liberazione. Un grande scrittore italiano di origine ebraica, Carlo Levi, diceva (è il titolo di un suo libro) che «le parole sono pietre». Non è meno vero per la quasi totalità della sinistra italiana, compresa da oggi anche l’Anpi milanese: purché le pietre siano quelle dell’Intifada palestinese e non altre.
La Juventus resta sotto il controllo di Exor. Il gruppo ha chiarito con un comunicato la propria posizione sull’offerta di Tether. «La Juventus è un club storico e di successo, di cui Exor e la famiglia Agnelli sono azionisti stabili e orgogliosi da oltre un secolo», si legge nella nota della holding, che conferma come il consiglio di amministrazione abbia respinto all’unanimità l’offerta per l’acquisizione del club e ribadito il pieno impegno nel sostegno al nuovo corso dirigenziale.
A rafforzare il messaggio, nelle stesse ore, è arrivato anche un intervento diretto di John Elkann, diffuso sui canali ufficiali della Juventus. Un video breve, meno di un minuto, ma importante. Elkann sceglie una veste informale, indossa una felpa con la scritta Juventus e parla di identità e di responsabilità. Traduzione per i tifosi che sognano nuovi padroni o un ritorno di Andrea Agnelli: il mercato è aperto per Gedi, ma non per la Juve. Il video va oltre le parole. Chiarisce ciò che viene smentito e ciò che resta aperto. Elkann chiude alla vendita della Juventus. Ma non chiude alla vendita di giornali e radio.
La linea, in realtà, era stata tracciata. Già ai primi di novembre, intervenendo al Coni, Elkann aveva dichiarato che la Juve non era in vendita, parlando del club come di un patrimonio identitario prima ancora che industriale. Uno dei nodi resta il prezzo. L’offerta attribuiva alla Juventus una valutazione tra 1,1 e 1,2 miliardi, cifra che Exor giudica distante dal peso economico reale (si mormora che Tether potrebbe raddoppiare l’offerta). Del resto, la Juventus è una società quotata, con una governance strutturata, ricavi di livello europeo e un elemento che in Italia continua a fare la differenza: lo stadio di proprietà. L’Allianz Stadium non è solo un simbolo. Funziona come asset industriale. È costato circa 155 milioni di euro, è entrato in funzione nel 2011 e oggi gli analisti di settore lo valutano tra 300 e 400 milioni, considerando struttura, diritti e capacità di generare ricavi. L’impianto produce flussi stabili, consente pianificazione e riduce l’esposizione ai risultati sportivi di breve periodo.
I numeri di bilancio completano il quadro. Nei cicli più recenti la Juventus ha generato ricavi operativi tra 400 e 450 milioni di euro, collocandosi tra i principali club europei per fatturato, come indicano i report Deloitte football money league. Prima della pandemia, i ricavi da stadio oscillavano tra 60 e 70 milioni di euro a stagione, ai vertici della Serie A. Su queste basi, applicando multipli utilizzati per club con brand globale e asset infrastrutturali, negli ambienti finanziari la valutazione industriale della Juventus viene collocata tra 1,5 e 2 miliardi di euro, al netto delle variabili sportive.
Il confronto con il mercato rafforza questa lettura. Il Milan è stato ceduto a RedBird per circa 1,2 miliardi di euro, senza stadio di proprietà e con una governance più complessa. Quel prezzo resta un riferimento nel calcio italiano. Se quella è stata la valutazione di un top club privo dell’asset stadio, risulta difficile immaginare che la Juventus possa essere trattata allo stesso livello senza che il socio di controllo giudichi l’operazione penalizzante.
A incidere è anche il profilo dell’offerente. Tether, principale emittente globale di stablecoin, opera in un perimetro regolatorio diverso da quello degli intermediari tradizionali, seguito con attenzione anche da Consob. Dopo l’ultimo aumento di capitale bianconero, Standard & Poor’s ha declassato la capacità di Usdt di mantenere l’ancoraggio al dollaro. Sul piano reputazionale pesa, inoltre, il giudizio dell’Economist (del gruppo Exor), secondo cui la stablecoin è diventata uno strumento utilizzato anche nei circuiti dell’economia sommersa globale, cioè sul mercato nero.
Intorno alla Juventus circolano anche altre ipotesi. Si parla di Leonardo Maria Del Vecchio, erede del fondatore di Luxottica e azionista di EssilorLuxottica attraverso la holding di famiglia Delfin, dopo l’offerta presentata su Gedi, e di un possibile interesse indiretto di capitali mediorientali. Al momento, però, mancano cifre e progetti industriali strutturati. Restano solo indiscrezioni.
Sullo sfondo continua intanto a emergere il nome di Andrea Agnelli. L’ex presidente dei nove scudetti ha concluso la squalifica e raccoglie il consenso di una parte ampia della tifoseria, che lo sogna come possibile punto di ripartenza. L’ipotesi che circola immagina un ritorno sostenuto da imprenditori internazionali, anche mediorientali, in un contesto in cui il fondo saudita Pif, guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman e già proprietario del Newcastle, si è imposto come uno dei principali attori globali del calcio.
Un asse che non si esaurisce sul terreno sportivo. Lo stesso filone saudita riaffiora nel dossier Gedi, ormai entrato nella fase conclusiva. La presenza dell’imprenditore greco Theodore Kyriakou, fondatore del gruppo Antenna, rimanda a un perimetro di relazioni che incrocia capitali internazionali e investimenti promossi dal regno saudita. In questo quadro, Gedi - che comprende Repubblica, Stampa e Radio Deejay - è l’unico asset destinato a cambiare mano, mentre Exor ha tracciato una linea netta: il gruppo editoriale segue una strada propria, la Juventus resta fuori (al momento) da qualsiasi ipotesi di cessione.
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Finanziere puro. John Elkann, abilissimo a trasformare stabilimenti e impianti, operai e macchinari, sudore e fatica in figurine panini da comprare e vendere. Ma quando si tratta di gestire aziende «vere», quelle che producono, vincono o informano, la situazione si complica. È un po’ come vedere un mago dei numeri alle prese con un campo di calcio per stabilirne il valore e stabilire il valore dei soldi. Ma la palla… beh, la palla non sempre entra in porta. Peccato. Andrà meglio la prossima volta.
Prendiamo Ferrari. Il Cavallino rampante, che una volta dominava la Formula 1, oggi ha perso la capacità di galoppare. Elkann vende il 4% della società per circa 3 miliardi: applausi dagli azionisti, brindisi familiare, ma la pista? Silenziosa. Il titolo è un lontano ricordo. I tifosi hanno esaurito la pazienza rifugiandosi nell’ironia: «Anche per quest’anno vinceremo il Mondiale l’anno prossimo». E cosi gli azionisti. Da quando Elkann ha collocato quelle azioni il titolo scende e basta. Era diventato il gioiello di Piazza Affari. Dopo il blitz di Elkann per arricchire Exor il lento declino.
E la Juventus? Sotto Andrea Agnelli aveva conquistato nove scudetti di fila, un record che ha fatto parlare tutta Italia. Oggi arranca senza gloria. Racconta Platini di una breve esibizione dell’erede di Agnelli in campo. Pochi minuti e si fa sostituire. Rifiata, chiede di rientrare. Il campione francese lo guarda sorridendo: «John, questo è calcio non è basket». Elkann osserva da lontano, contento dei bilanci Exor e delle partecipazioni finanziarie, mentre tifosi e giornalisti discutono sulle strategie sportive. La gestione lo annoia, ma la rendita finanziaria quella è impeccabile.
Gedi naviga tra conti in rosso e sfide editoriali perdenti. Cairo, dall’altra parte, rilancia il Corriere della Sera con determinazione e nuovi investimenti. Elkann sorride: non è un problema gestire giornali, se sai fare finanza. La lezione è chiara: le aziende si muovono, ma i capitali contano di più.
Stellantis? La storia dell’auto italiana. La storia della dinastia. Ora un condominio con la famiglia Peugeot. Elkann lascia fare, osserva i mercati e, quando serve, vende o alleggerisce le partecipazioni. Anche qui, la gestione operativa non è il punto forte: ciò che conta è il risultato finanziario, non il numero di auto prodotte o le fabbriche gestite.
E gli investimenti? Alcuni brillano, altri richiedono pazienza. Philips è un esempio recente: un investimento ambizioso che riflette la strategia di diversificazione di Exor, con qualche rischio incorporato. Ma se si guarda al quadro generale, Elkann ha accumulato oltre 4 miliardi di liquidità entro metà 2025, grazie a vendite mirate e partnership strategiche. Una cifra sufficiente per pensare a nuove acquisizioni e opportunità, senza perdere il sorriso.
Perché poi quello che conta per John è altro. Il gruppo Exor continua a crescere in valore. Gli azionisti vedono il titolo passare da un minimo storico di 13,44 euro nel 2011 a circa 72 euro oggi, e sorridono. La famiglia Elkann Agnelli si gode i frutti degli investimenti, mentre il mondo osserva: Elkann è il finanziere perfetto, sa fare ciò che conta davvero, cioè far crescere la ricchezza e proteggere gli asset della famiglia.
In fondo, Elkann ci ricorda che la finanza ha il suo fascino anche quando la gestione aziendale è complicata: vendere, comprare, accumulare, investire con giudizio (e un pizzico di fortuna) può essere altrettanto emozionante che vincere scudetti, titoli di Formula 1 o rilanciare giornali. Il sorriso di chi ha azioni Exor vale più di qualsiasi trofeo, e dopotutto, questo è il suo segreto.
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Piero Cipollone (Ansa)
Come spiega il politico europeo i «soldi verranno recuperati attraverso quello che è il signoraggio all’euro digitale». Invece «per quanto riguarda sistema bancario e gli altri fornitori di servizi di pagamento, la stima è che possa essere fra i quattro e sei miliardi di euro per quattro anni», ricorda Cipollone. «Tenete conto che, rispetto a quello che spendono le banche per i sistemi It, questa è una cifra minima. Parliamo di circa il 3,5% di quello che spendono le banche annualmente per implementare i loro sistemi. Quindi non è un costo». Inoltre, aggiunge, «va detto che le banche saranno compensate» con una remunerazione molto simile a come quando si fa «una transazione normale con carta».
Cipollone ha anche descritto una sequenza temporale condizionata dall’iter legislativo europeo e dalla necessità di predisporre un’infrastruttura operativa completa prima di qualunque emissione. «Se per la fine del 2026 avremo in piedi la legislazione a quel punto pensiamo di essere in grado di costruire tutta la macchina entro la prima metà del 2027 e quindi, a settembre del 27, di cominciare una fase di sperimentazione, il “Pilot”. Per poi partire con il lancio effettivo nel 2029».
Per l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, l’euro digitale è particolarmente importante per l’Europa «perché via via che si espande lo spazio digitale dei pagamenti, su questo spazio la presenza di operatori europei è quasi nulla». Insomma, «più si espande lo spazio dei pagamenti digitali, più la nostra dipendenza da pochi e importanti operatori stranieri diventa più profonda», ricorda Cipollone. «Le parole chiave sono “pochi” e “non europei”, perché pochi richiama il concetto di scarsa concorrenza, stranieri non europei richiama il concetto di dipendenza strategica da altri operatori. Noi non abbiamo nulla contro operatori stranieri che lavorino nell’area dell’euro. Il problema è che noi vorremmo che l’area dell’euro avesse una sua infrastruttura autonoma, indipendente, che non dipenda dalle decisioni degli altri».
Cipollone ribadisce poi la posizione della Bce sul contante: resta centrale perché «estremamente semplice da usare», quindi inclusivo, utilizzabile ovunque e «sicuro» perché «senza alcun rischio associato». Il problema, però, è che nell’economia sempre più digitale il contante diventa meno spendibile: «Sta diventando sempre meno utilizzabile nell’economia». Da qui l’argomento «di mandato»: se manca un equivalente del contante online, si toglie ai cittadini la possibilità di usare moneta di banca centrale nello spazio digitale; «è come discriminare contro la moneta pubblica». Quindi la Bce deve «estendere una specie di contante digitale» con funzioni analoghe al contante, ma adatto ai pagamenti digitali.
Il politico ieri ad Atreju ha anche parlato di metallo giallo ricordando che le riserve auree delle banche centrali sono cresciute fino a circa 36.000 tonnellate. Come ha spiegato l’esperto, queste riserve «hanno un fondamento storico importante» perché, quando c’era la convertibilità, «servivano come riserva rispetto alle banconote». Oggi, con le monete a corso legale, «la credibilità del valore della moneta è affidata a quella della Banca centrale nell’essere capace di controllare i prezzi», ma «una eco di questa convertibilità è rimasta»: oro e valute restano riserve di valore contro rischi rilevanti.
Come ha spiegato, le Banche centrali comprano oro soprattutto come difesa «contro l’inflazione» e contro «i rischi nei mercati finanziari», e perché «le riserve sono una garanzia della capacità del Paese di far fronte a possibili shock esterni». Per questi motivi, «l’oro è tornato di moda».
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