
Mentre Luigi Di Maio insiste, il premier fa il grillino dal volto buono: prima di martedì non ci sarà nessuna decisione sul «licenziamento» di Armando Siri. Ne approfitta l'ex governatore lombardo per alzare il tiro sul numero due leghista. Prepariamoci: a meno di eventi straordinari e - al momento - imprevedibili, sarà un lungo weekend di parole, più che di fatti. Quanto ai fatti, cioè lo scioglimento del nodo legato alla permanenza nel governo di Armando Siri, non potranno realizzarsi prima di martedì, quando sarà convocato il Consiglio dei Ministri. È quella la sede in cui, anche sulla base della legge 400 del 1988, che disciplina la vita dell'esecutivo, il premier potrà porre formalmente ai suoi colleghi il tema della sorte politica del sottosegretario. Da qui ad allora, sarà solo guerra di parole. Alla quale però ieri ha partecipato lo stesso Giuseppe Conte, che cerca di ritagliarsi un curioso ruolo da «grillino dal volto umano». Nella sostanza, infatti, pende sempre più spesso dalla parte di Luigi Di Maio, rinunciando a una posizione da mediatore «terzo»; ma, almeno nella forma, cerca di apparire meno rozzo dei pentastellati più scatenati, non senza qualche concessione a un'ipocrisia tardodemocristiana.Così, da Pechino, il premier ha fatto giungere un messaggio dai due volti. Prima, ha indorato la pillola. Ha raccontato di aver parlato l'altro ieri al telefono con Siri: «Non potevamo vederci, e mi sono scusato, perché c'è anche l'aspetto umano di una persona che attende di incontrare il suo presidente». Ma l'evocazione dello human factor è durata poco, e soprattutto non pare affatto determinante per Conte: «Ho molto rispetto per il lato umano della vicenda, ma quando deciderò lo farò razionalmente. Non mi sento affatto condizionato sulle scelte che prenderò in riferimento al suo caso: ho in mente una linea ben precisa che seguirò». E infine la stilettata, quando i cronisti gli hanno chiesto esplicitamente se dimissionerà Siri: «Se mi dovessi convincere di questa soluzione, non credo ci siano alternative, lo vedremo a tempo debito». Quanto ai due azionisti della maggioranza, ciascuno resta sulle sue posizioni. Ieri Di Maio ha lasciato a verbale una dura intervista al Corriere della Sera, con non pochi passaggi esplicitamente provocatori verso Matteo Salvini: il leader leghista «deve rispondere ai cittadini, non a noi. Noi abbiamo fatto quello che dovevamo, togliendo le deleghe a Siri. Questo attaccamento alla poltrona non lo capisco. Gli abbiamo chiesto un passo indietro. Continui a fare il senatore, non va mica per strada. Certo che Conte dovrebbe spingerlo alle dimissioni. E lo farà, ne sono sicuro. Deciderà lui come».Quanto invece a Salvini, ieri è stato perfino liquidatorio rispetto alle provocazioni degli alleati: «Siri? Non commento quello che decideranno altri, parlo di vita reale». Sull'insistenza con cui M5S lo incalza sulle relazioni di Paolo Arata con la Lega, il ministro dell'Interno ha aggiunto: «L'ho incontrato soltanto una volta. Occupiamoci di altro».Dichiarazioni in linea con il tono abbastanza duro già usato da Salvini in un colloquio con Repubblica: «Conte è libero di incontrare chi vuole. Siri per me deve restare al suo posto. Io con Siri ho parlato, mi ha detto di essere tranquillo e tanto mi basta. Spero abbia modo di spiegare ai magistrati, che in un Paese normale lo avrebbero chiamato dopo un quarto d'ora, non settimane dopo».Subito dopo, Salvini ha per la prima volta evocato la possibile fine dell'esperienza di governo: «Io di pazienza ne avrei, ma la gente si avvicina per fare selfie, stringermi la mano e mi dice: “Matteo, ma questi 5 stelle vogliono continuare ancora così? Ti attaccano sempre? Perché non rompi?". Io non voglio fare polemica, nonostante tutto quel che mi è stato detto in queste ore, ma mi chiedo se la mia stessa pazienza ce l'abbiano ancora gli elettori che hanno voluto questo governo». E infine il messaggio a Di Maio: «Non l'ho sentito e non rispondo alle provocazioni». E che la Lega - diversamente da retroscena circolati nelle ultime 24 ore - non abbia affatto scaricato il suo uomo si evince anche dalla durezza delle dichiarazioni del ministro Gian Marco Centinaio: «Se il M5S va per la sua strada, vuol dire che mancano i presupposti per andare avanti. Ritengo che qualsiasi operazione su Siri, ma su qualsiasi altro membro di governo a cui dovesse succedere una cosa del genere, dovrebbe essere almeno concordata fra i due leader. Se così non fosse, ci sarebbe un problema». Poi una considerazione insieme politica e di buon senso: «Dal 27 maggio dobbiamo tornare a governare, e se durante questo periodo ci sono attacchi personali, diventa difficile ricucire». Conclusione più distensiva: «Abbiamo promesso agli italiani che andremo avanti cinque anni con un alleato col quale abbiamo fatto un contratto di governo. Se Salvini sta proseguendo, vuol dire che sono più quelli che gli dicono di andare avanti».Insomma, i due fronti si lanciano qualche avvertimento e qualche bordata, ma - per il momento - evitano di bruciarsi definitivamente i ponti alle proprie spalle. Forse la sintesi di questa situazione di sospensione sta proprio nella laconica considerazione di Giancarlo Giorgetti, curiosamente chiamato in causa non solo dai grillini, ma pure da Roberto Maroni (sia pure per difenderlo: e però la sensazione è che Giorgetti avrebbe fatto volentieri a meno di leggere quella sortita) in quanto responsabile dell'assunzione come consulente esterno del figlio di Arata, Federico: «Conte è un professore e un avvocato, vedrà le carte e capirà», ha detto Giorgetti. Intanto, grande - e un po' comica - agitazione dei mainstream media alla notizia che Salvini e Di Maio non si «seguirebbero» più reciprocamente su Instagram.
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