
Il debutto del nuovo governo sembra un film di Vanzina: l'ex «avvocato del popolo» succede a sé stesso, Roberto Speranza fa il capo della classe, Sergio Costa batte i tacchi e Elena Bonetti si candida al ruolo che era di Maria Elena Boschi.Se la canta e se la suona. Il vecchio motto popolare (non populista, non sia mai) irrompe mentre Giuseppe Conte agita la campanella in solitaria, nel gesto più surreale del governo Vanzina, che avrebbe meritato il palcoscenico della Mostra del cinema di Venezia, rigorosamente fuori concorso. Il premier vecchio e insieme nuovo agita lo strumento, che risponde con un tintinnio da spaghetti western. Questa volta l'unico passaggio di consegne avviene fra la sua mano destra e la sua mano sinistra. Una scena messicana davanti al segretario di Palazzo Chigi, Roberto Chiappa, in imbarazzo e all'ex sottosegretario Giancarlo Giorgetti visibilmente divertito, che alla fine dirà: «Non l'ho neanche toccata. Good luck». Una scena che rappresenta una stagione folle, una cifra politica da zero virgola, forse un destino.Se la canta e se la suona il Conte con la pochette dalle quattro punte, una in più delle Cime di Lavaredo, mentre osserva il suo capolavoro durante il rito del giuramento. Il primo giorno di scuola si consuma così, nell'acquario del Quirinale che qualche leghista definisce «rettilario» riferendosi alla trappola del non voto, fra selfie alla Matteo Salvini (ma adesso sono opere d'arte), occhiate complici tra grillini e piddini, e una domanda che i funzionari si sussurrano perplessi: «Ma quello chi è?». È la riproposizione dell'eterno ritorno del sempre uguale condita dalla bonomia democristiana di Sergio Mattarella, che di questo governo è al tempo stesso ispiratore e levatrice. Sfilano tutti e tutti leggono la formula. Per primo Conte: «Giuro di essere fedele...». Il resto è inutile perché suona esilarante sulle labbra del protagonista di uno dei più clamorosi salti mortali carpiati con avvitamento della storia moderna, che trascina con sé idee, principi, regole, convinzioni politiche, ideali, alleanze. Il primo premier a governare indifferentemente con la destra e con la sinistra, altrimenti noto come lo statista di Biarritz, non è fedele neppure a sé stesso, figuriamoci a un foglio con sopra scritte parole di carta. Un giorno di qualche mese fa disse in Aula, anzi lesse: «Metteremo fine al business dell'immigrazione che è cresciuto a dismisura sotto il mantello della finta solidarietà». Oggi è felice di presentare al capo dello Stato Luciana Lamorgese come ministro dell'Interno e di definirla ex prefetto di ferro di Milano. Lo è, ma nel senso che non ha mai perdonato nulla agli italiani, ai sindaci dell'hinterland, a coloro che non credevano nell'accoglienza diffusa. E li ha costretti a muso duro ad accettare ovunque clandestini deambulanti con smartphone. Nelle case sfitte, nelle palestre, nelle abbazie millenarie. Primo vero germe della paura e del rifiuto.I neoministri fanno passerella con le loro ingenuità e le loro ambiguità. C'è Paola Pisano con camicia bianca e pantalone optical da Spritz, ministro dell'Innovazione tecnologica (il dicastero mancava dall'ultimo governo Berlusconi), ex assessore del comune di Torino, sponsorizzata da Chiara Appendino. Lady startup dovrà occuparsi di industria 4.0, di biotecnologie, di autostrade digitali. Macigni. C'è Fabiana Dadone, anch'essa piemontese, che si appalesa in un più classico tailleur e dovrà occuparsi della pubblica amministrazione. Dai macigni ai mammuth. Sfila Francesco Boccia, impostato e teatrale nel leggere la formula («Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi, e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione»), poi ecco Vincenzo Spadafora, uno degli habituès. Provenzano al Sud, Spadafora allo Sport, Bonafede alla Giustizia, Costa al Territorio, soprattutto Speranza alla Salute: sembra che le scelte siano state fatte in base al nome come nei giochi dei ragazzi all'oratorio quando fuori piove.Il protocollo pretende un'aurea ripetitività, ma non nega al cronista curioso due brividi. Il primo è l'entrata in scena di Elena Bonetti, piddina di stretta osservanza renziana, ministro della Famiglia, destinata a sostituire Maria Elena Boschi nel cuore della sinistra radical chic. Docente di matematica, ex scout, 45 anni, avanza con passo felino e tacco 12, è perfino sexy con quel capello a caschetto da River Cafè a Manhattan. Oscura Roberto Speranza che da primo della classe recita la formula a memoria, Sergio Costa che da buon generale batte i tacchi come 14 mesi fa e la giunonica Teresa Bellanova, ministro dell'Agricoltura con la terza media, così per mantenere la tradizione inaugurata da Valeria Fedeli. Il secondo brivido è la chiamata di Luigi Di Maio, momento clou, massima attenzione per vedere se gli sono rimasti appiccicati ai calzoni residui di colla. È accompagnato fin sulla soglia dalla fidanzata Virginia Saba, obiettivo prediletto dei fotografi. Lei è laureata, giornalista, insomma l'intellettuale di famiglia. Lui sembra un ripetente ripescato e mandato agli Esteri per un Erasmus. Davanti a Mattarella è a proprio agio, per la seconda volta ministro a 33 anni. Giulio Andreotti dovette aspettare i 35 per essere il più giovane ministro della prima Repubblica. E se fosse vivo troverebbe più di una consonanza - almeno nei metodi per mantenere il potere - fra il Movimento 5 stelle di oggi e la Democrazia cristiana di ieri. Quando incrocia lo sguardo di Conte, Di Maio strizza l'occhiolino, ricambiato con complicità dal premier. È il punto esclamativo sul delitto perfetto.I due hanno fatto i conti senza Dario Franceschini detto Vesuvio per i danni subìti da Pompei durante la sua precedente investitura alla Cultura. È di nuovo qui con la barba sfatta da intellettuale di Cinecittà e un libro in uscita, il sesto. È più prolifico di Alexandre Dumas padre. Lo zoo è questo, senza dimenticare il rigido Roberto «bellaciao» Gualtieri. Mattarella invita tutti alla foto ricordo, poi ha fretta di tornare in meditazione. Così si risparmia la prima uscita ufficiale del ministro dell'Istruzione, Lorenzo Fioramonti, grillino: «Bisogna tassare le merendine dei bambini e le bibite gassate». Si passa in fretta dalle campanelle ai campanacci.
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