2019-06-08
Condannata da Stato e servizi sociali a stare in otto metri con i suoi tre figli
Il marito ha cercato di stuprare la sua bimba ed è scappato in Sudamerica, lei da tre anni è relegata in una casa famiglia.La casa è una stanza di quattro metri per due. Dentro gli stendini per il bucato, il frigorifero e quattro letti. Ci vivono Alessandra - che ha 38 anni - con tre figli. Una condizione per la quale normalmente interverrebbero giudici minorili e servizi sociali: peccato che siano stati proprio loro a far vivere lì madre e bambini, in quella che risulta essere una struttura di accoglienza a Marghera, vicino a Venezia, insomma una casa-famiglia, una di quelle strutture dove chi la gestisce può arrivare a incassare anche 150 euro al giorno per ogni ospite.Il fatto è che madre e figli vivono in casa famiglia da ormai quasi tre anni, malgrado Alessandra continui a chiedere ogni santo giorno di tornare a casa sua. Vorrebbe una vita normale e cercare di dimenticare il dramma che è all'origine di tutta questa assurda (e dolorosa ) storia: un giorno di tre anni fa, rientrando a casa- a Verona- sorprese il marito che cercava di stuprare la figlia più grande, allora tredicenne, avuta da un precedente matrimonio. Si scoprì che le molestie sessuali andavano avanti da tempo. Alessandra denunciò, l'uomo venne subito allontanato, poi arrestato, quindi condannato a 6 anni di galera.Nel frattempo, però, madre e figli vennero presi in carico dai servizi sociali e alloggiati in una comunità, perché il marito-patrigno-stupratore, oltre ad abusare della ragazzina, faceva vivere tutti in condizioni di degrado, in un alloggio fatiscente. Tutto bene? No, perché a questo punto la vicenda prende una piega assurda. L'uomo riesce a scappare in Sudamerica, Alessandra e i figli rimangono in casa-famiglia. Da allora sono passati tre anni: lui è libero, loro inspiegabilmente costretti a una sorta di domicilio coatto, oltretutto costosissimo per il contribuente.Nel frattempo la famiglia è pure stata divisa. La ragazzina vittima del patrigno è stata separata da Alessandra e dai suoi fratellini, come se di prove emotive non ne avessero subite a sufficienza. Tutti impazziti, tra servizi sociali e tribunali? Certamente no, ma tutto il sistema qualcosa di bizzarro ce l'ha. Nei verbali e nelle relazioni, di cui chi scrive è entrato in possesso, si legge che all'ennesima richiesta da parte di Alessandra di potersene tornare a casa con i bambini, viene risposto no, «considerate la precarietà delle condizioni in cui il nucleo famigliare viveva e le difficoltà personali della donna». Come se non si potesse cambiare casa.Certo sarebbe necessario che la donna lavorasse per potersi pagare un affitto, ma in un'istanza presentata già all'inizio della vicenda si dice che la donna «ha cercato di reperire una qualsiasi attività lavorativa, ma non appena un potenziale datore di lavoro viene a conoscenza del numero dei figli e della loro età, ritira l'offerta».Esistono le case popolari. A Verona ve ne sono alcune a di posizione del Comune proprio per emergenze abitative. Esistono anche aiuti economici appositamente previsti, ma niente, si preferisce far restare tutti in una stanza di due metri per quattro, a 100 chilometri di distanza da parenti e amici. Intanto viene messa in dubbio la capacità di Alessandra di accudire i figli. Nelle carte si legge ancora che vi sono «difficoltà nella relazione mamma-bambino, a più livelli e toccano tutti gli aspetti fondamentali del rapporto tra lei e i suoi figli». Verrebbe da dire: provateci voi a dare dimostrazione di perfetta cura materna accatastati in quattro in una stanza! Non solo nessuno se lo chiede, ma nessuno parrebbe anche chiedersi che razza di segno può avere lasciato in una moglie l'esperienza spaventosa del marito che vuol portarsi a letto la figlia. Anzi, la ragazzina è stata allontanata, quasi a voler addossare alla madre una qualche responsabilità sull'accaduto.Forse c'entra una frase pronunciata dalla donna in uno dei tanti colloqui avuti con psicologi e assistenti sociali, quando dice di avere avuto «perplessità nei comportamenti del marito, avendo notato gesti poco opportuni e ricerche su Internet sulla possibilità che un'adolescente possa rimanere incinta». Il dubbio degli operatori- insomma -può essere sul fatto che Alessandra avrebbe potuto accorgersi prima di quanto stava accadendo. Peccato che, al tempo, la figlia tredicenne vivesse in casa, ma già sotto la responsabilità dei servizi sociali, a causa di un rapporto litigioso tra la madre e il primo marito, padre della ragazzina: insomma anche loro avrebbero dovuto vigilare su quel che accadeva.Ma tutto questo attiene al passato. Il presente è quella stanzetta dove vive una famiglia ammassata. «È questa vita che crea problemi. Stipati, sempre a contatto strettissimo con persone che hanno problemi anche seri…», dice Alessandra nell'ultimo colloquio avuto con una psicologa. La quale serenamente ammetta di non capirci nulla: «Ma la richiesta di tutte queste valutazioni da cosa nasce? Ma lei è obbligata a stare in comunità? Che casino!».Se non ci capisce nulla lei, figuriamoci i protagonisti. Ed è difficile anche capire come si sia preferito spendere finora centinaia di migliaia di euro per lasciare nel disagio una famiglia già provata nel più duro dei modi, piuttosto che dare un sostegno diretto. Mentre chi ha causato tutto questo se ne sta beatamente al caldo, in Sudamerica.
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