2019-10-21
Con l’aereo del Bullo volati via oltre 150 milioni
Al giorno d'oggi un'inchiesta giudiziaria non si nega a nessuno, neppure se il presunto reato al centro dell'indagine della magistratura è una gita sulla moto d'acqua della polizia. A furor di popolo, anzi di Repubblica, nei mesi scorsi i pm erano stati costretti ad aprire un fascicolo sul «passaggio» in mare offerto al figlio minorenne del ministro dell'Interno, mettendo sotto accusa gli agenti per aver cercato di impedire che un giornalista filmasse la scena, salvo poi richiedere l'archiviazione per la «tenuità del fatto».Tradotto, significa che in Procura hanno ritenuto di aver ben altro da fare che dare la caccia ai poliziotti e ai loro eventuali abusi da spiaggia. Eppure, se da un lato si indaga sull'uso delle moto d'acqua, nessuno sembra avere interesse ad aprire un'inchiesta sugli aerei di Stato, soprattutto se l'aereo in questione è quello della presidenza del Consiglio. O meglio, era. E dire che se da un lato c'è di mezzo una gita in mare, dall'altro c'è una spesa di oltre 150 milioni per un velivolo ordinato e lasciato a marcire in un hangar a spese della collettività. Non so se i lettori siano a conoscenza del caso. Nel 2016 l'allora capo del governo Matteo Renzi decise che gli aerei a disposizione di Palazzo Chigi non fossero più adeguati e che si dovesse rimpolpare la flotta presidenziale con un nuovo mezzo capace di attraversare gli oceani senza scalo. Il velivolo avrebbe dovuto sancire il prestigio ritrovato dell'Italia sotto la guida del nuovo leader fiorentino. Così, mentre l'esecutivo trattava il salvataggio di Alitalia con Etihad, compagnia di bandiera degli Emirati Arabi, ecco spuntare un contratto per la fornitura e l'assistenza di un Airbus all'altezza della levatura e della supponenza dell'allora capo del governo. L'aereo avrebbe dovuto essere pronto per la fine del 2016 e l'inizio del 2017, coincidenza volle che proprio all'epoca un referendum ponesse fine alla carriera presidenziale di Matteo Renzi, con il risultato che l'uomo che sperava di volare alto, da un capo all'altro dei continenti, si trovò all'improvviso costretto a imbarcarsi su un volo assai più breve e rasoterra, destinazione Pontassieve. Dalla Casa Bianca, dove fu accolto da Barack e Michelle Obama, alla casa in Toscana, dove ad aspettarlo c'era una famiglia addormentata, come egli stesso raccontò in un memorabile post.La conclusione dell'esperienza da statista, non pose però fine al contratto stipulato dallo Stato con Etihad, per cui il velivolo ordinato ai tempi di Renzi, rimase a disposizione del governo, senza per altro che Paolo Gentiloni, cioè il successore del nostro, sentisse il bisogno di utilizzarlo. Per mesi, anzi per oltre un anno, il colosso dei cieli rimase a terra, fino a che, cambiato governo e mandato a casa pure Gentiloni, Luigi Di Maio e Danilo Toninelli, nel frattempo diventati vicepresidente e ministro dei Trasporti, annunciarono di aver rescisso il contratto con Etihad per la fornitura dell'Air Force Renzi, come venne subito ribattezzato per paragonarlo all'Air Force One del presidente degli Stati Uniti.Storia finita, spreco tagliato? Niente affatto. Primo perché la compagnia di Abu Dhabi continua a richiedere un indennizzo multimilionario ad Alitalia, su cui era stata appoggiata l'operazione. E secondo perché ogni giorno che passa la faccenda rivela risvolti a dire poco sorprendenti. Lasciamo perdere il fatto che nessuno, tranne Renzi, sentisse l'utilità del velivolo, ma concentriamoci sui passaggi dell'intera operazione. Circa un anno fa un addetto ai lavori spiegò alla Verità che due aerei gemelli rispetto a quello del governo erano in vendita per 7 milioni, mentre Il Fatto Quotidiano ha di recente rivelato che quando il contratto fu stipulato, Etihad non aveva a disposizione l'aereo richiesto e dunque sia stata costretta a comprarne uno. Fin qui, si potrebbe anche convenire che la compagnia si sia mossa per soddisfare le esigenze del cliente. Peccato che a quanto pare non tornino alcuni dettagli. Il primo è che sul mercato pare ci fossero aerei a prezzi più convenienti, per cui sarebbe stato possibile stipulare un accordo a condizioni migliori per il nostro Paese: in pratica l'Italia avrebbe potuto pagare un ventiseiesimo di ciò che è stato pagato. Il secondo dettaglio è che oltre a sottoscrivere un canone capestro per avere a disposizione il velivolo, il governo tramite Alitalia avrebbe anticipato i soldi per comprare l'aereo, riuscendo poi a farselo affittare. Un esperto interpellato dal quotidiano diretto da Marco Travaglio ha ricostruito i passaggi della strana operazione, arrivando alla conclusione che l'intera faccenda fosse priva di alcun senso economico. Non solo. Un esperto ha rivelato alla Verità che l'affare ha avuto una curiosa triangolazione, con di mezzo una società nepalese che non pare avere nulla a che fare con gli aerei ma molto con le costruzioni. Perché si dovesse usare un'impresa di Katmandu per avere un aereo a disposizione del presidente del Consiglio è un mistero, così come oscura è l'urgenza che ha spinto il nostro governo a dare via libera a un leasing che pare non avere avuto alcuna convenienza per il nostro Paese. Ma se un filone porta in Nepal, un altro sembra portare alle Isole Cayman, un posticino tranquillo che chiunque voglia combinare affari senza dare troppo nell'occhio conosce molto bene. Tra canoni esagerati, triangolazioni incomprensibili e società disperse all'estero in Paesi poco trasparenti, ci sarebbero tutte le ragioni per vederci chiaro. Ma inspiegabilmente non c'è Repubblica o altro giornale che a furor di popolo solleciti un'indagine. Perché un conto è lo scandalo di una gita con una moto d'acqua, valore dell'affare all'incirca 5 euro. Un altro è lo scandalo di un aereo ordinato e mai usato: valore dell'affare 150 milioni di euro. Dovremo forse aspettare una commissione d'inchiesta sulle fake news per saperne di più? Oppure verrà un giorno in cui alla Leopolda ai giornalisti sarà consentito di fare domande oltre che di ascoltare comizi?
Federico Cafiero De Raho (Ansa)
(Totaleu)
Lo ha detto l'eurodeputato di Fratelli d'Italia Paolo Inselvini alla sessione plenaria di Strasburgo.
Giornata cruciale per le relazioni economiche tra Italia e Arabia Saudita. Nel quadro del Forum Imprenditoriale Italia–Arabia Saudita, che oggi riunisce a Riyad istituzioni e imprese dei due Paesi, Cassa depositi e prestiti (Cdp), Simest e la Camera di commercio italo-araba (Jiacc) hanno firmato un Memorandum of Understanding volto a rafforzare la cooperazione industriale e commerciale con il mondo arabo. Contestualmente, Simest ha inaugurato la sua nuova antenna nella capitale saudita, alla presenza del vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani.
L’accordo tra Cdp, Simest e Jiacc – sottoscritto alla presenza di Tajani e del ministro degli Investimenti saudita Khalid A. Al Falih – punta a costruire un canale stabile di collaborazione tra imprese italiane e aziende dei Paesi arabi, con particolare attenzione alle opportunità offerte dal mercato saudita. L’obiettivo è facilitare l’accesso delle aziende italiane ai mega-programmi legati alla Vision 2030 e promuovere partnership industriali e commerciali ad alto valore aggiunto.
Il Memorandum prevede iniziative congiunte in quattro aree chiave: business matching, attività di informazione e orientamento ai mercati arabi, eventi e missioni dedicate, e supporto ai processi di internazionalizzazione. «Questo accordo consolida l’impegno di Simest nel supportare l’espansione delle Pmi italiane in un’area strategica e in forte crescita», ha commentato il presidente di Simest, Vittorio De Pedys, sottolineando come la collaborazione con Cdp e Jiacc permetterà di offrire accompagnamento, informazione e strumenti finanziari mirati.
Parallelamente, sempre a Riyad, si è svolta la cerimonia di apertura del nuovo presidio SIMEST, inaugurato dal ministro Tajani insieme al presidente De Pedys e all’amministratore delegato Regina Corradini D’Arienzo. L’antenna nasce per fornire assistenza diretta alle imprese italiane impegnate nei percorsi di ingresso e consolidamento in uno dei mercati più dinamici al mondo, in un Medio Oriente considerato sempre più strategico per la crescita internazionale dell’Italia.
L’Arabia Saudita, al centro di una fase di profonda trasformazione economica, ospita già numerose aziende italiane attive in settori quali infrastrutture, automotive, trasporti sostenibili, edilizia, farmaceutico-medicale, alta tecnologia, agritech, cultura e sport. «L’apertura dell’antenna di Riyad rappresenta un passo decisivo nel rafforzamento della nostra presenza a fianco delle imprese italiane, con un’attenzione particolare alle Pmi», ha dichiarato Corradini D’Arienzo. Un presidio che, ha aggiunto, opererà in stretto coordinamento con la Farnesina, Cdp, Sace, Ice, la Camera di Commercio, Confindustria e l’Ambasciata italiana, con l’obiettivo di facilitare investimenti e cogliere le opportunità offerte dall’economia saudita, anche in settori in cui la filiera italiana sta affrontando difficoltà, come la moda.
Le due iniziative – il Memorandum e l’apertura dell’antenna – rafforzano dunque la presenza del Sistema Italia in una delle aree più strategiche del panorama globale, con l’ambizione di trasformare le opportunità della Vision 2030 in collaborazioni concrete per le imprese italiane.
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