2024-04-26
Christian McBride: «Se non battono i piedi devi cambiare lavoro»
Il contrabbassista di Filadelfia che ha già collezionato otto Grammy: «James Brown era il mio eroe e nella musica che piace a me il groove conta più della tecnica e delle note giuste. Troppi colleghi pensano: “La gente si diverte, stiamo sbagliando qualcosa”».Una trentina di album da leader e oltre 360 (trecentosessanta…) da coprotagonista. Per un totale di otto Grammy awards vinti e 16 nomination in bacheca (qualcuno avvisi Wikipedia). Cinquantuno anni e una collezione di progetti paralleli che dà le vertigini e può causare la sindrome dei sette nani di Biancaneve: ogni volta che si prova a fare l’inventario (trio, quintetto, big band, Inside straight, New jawn…) ne manca uno. Nel mezzo del cammin della sua vita artistica, Christian McBride sembra già in Paradiso. Avrà anche il dono dell’ubiquità? Scorrendo i cartelloni dei festival e le copertine dei dischi il dubbio viene. Anche perché il contrabbassista e compositore di Filadelfia oltre al performer fa anche l’insegnante, il conduttore di podcast e il direttore artistico del Newport Jazz Festival, il più antico d’America. Martedì sera, ad esempio, è stato avvistato (e acclamato) al Torino Jazz Festival. Merito del musicologo Stefano Zenni, che dirige la rassegna e non se l’è fatto scappare. «Nel costruire un programma che parli dell’oggi», spiega alla Verità tra un concerto e l’altro, «volevo da un lato fotografare l’osmosi in corso tra jazz ed elettronica, hip hop, trap e world music (due nomi su tutti: Sélébéyone e Ghost horse, in scena questa sera). Il jazz infatti sta prendendo in prestito alcuni elementi da questi generi, ma lascia anche che avvenga il contrario. Dall’altro lato era doveroso dare spazio al filone più classico, ancora molto presente, con McBride, Dave Holland, Roberto Gatto (domani sera, ndr) e Paolo Fresu (30 aprile, ndr). Quando parliamo di jazz dovremmo iniziare a usare il plurale: non ce n’è uno solo, ma diversi». Il finale della kermesse, che chiuderà martedì 30 aprile, è in crescendo. E domenica arriva un certo John Zorn, in esclusiva nazionale. Ma torniamo al nostro Stakanov dell’improvvisazione, classe 1972, che ha stregato il Teatro Colosseo di Torino, tra l’altro stracolmo. Quando Christian McBride afferra il suo contrabbasso lo fa sembrare un ukulele. Per questo fa effetto scoprire che quell’elegantissimo omone, sempre sorridente e con la voce da baritono, sia stato vittima di bullismo da ragazzo. Pare che all’epoca non fosse alla moda perché non ascoltava la disco music e, in mancanza di altri pretesti, venisse preso in giro per i «denti grandi»... Ma lasciamolo raccontare a lui. Bandleader di una miriade di gruppi, compositore, direttore artistico, divulgatore. Come fa a gestire le sue varie vite senza perdersi?«Non lo so» (ride). «Scherzi a parte, le priorità sono sempre chiare nella mia mente. Muoversi su così tanti piani può essere complicato, anche se per ora mi sembra di riuscirci. L’importante è fare programmazione, ma restare pronti a cambiare in corsa». Il suo collega chitarrista Pat Metheny dice che lei è sempre sicuro di quello che fa, senza indecisioni o passaggi a vuoto.«Secondo me sbaglia, ma è gentile a dirlo» (ride). «Noi contrabbassisti siamo programmati per dare certezze. Dobbiamo sempre sapere tutto: conosciamo la melodia, l’armonia e proteggiamo il ritmo. Abbiamo un sacco di responsabilità all’interno di una band». Una domanda al Christian McBride direttore artistico: qual è il segreto per un grande festival jazz?«L’atmosfera, senza dubbio. Non conta solo il catalogo dei musicisti che si riesce a presentare. La vera sfida è far percepire al pubblico e agli artisti che sono benvenuti. Esistono molti modi per far sentire le persone accolte, da performer lo so bene. È un’alchimia difficile da creare, ma è la cosa più importante». E in Italia ad atmosfera come siamo messi?«Il vostro Paese è da tempo uno dei luoghi privilegiati d’Europa per fare jazz, come dimostra questo festival. Dall’Italia arrivano musicisti fantastici come il mio amico Dado Moroni. E, sempre a proposito di pianisti, sono un grande fan di Stefano Bollani, anche se non c’è mai stata occasione di suonare con lui».Al Torino Jazz Festival si è presentato con quattro giovani molto interessanti: Nicole Glover (sax tenore), Ely Perlman (chitarra elettrica), Mike Kings (tastiere), Savannah Harris (batteria). Che sensazione le dà suonare con i musicisti della nuova generazione?«È fantastico. Credo che per i jazzisti della mia età sia venuto il momento di offrire delle opportunità alle nuove leve. Lo sto facendo io, lo fa Joshua Redman… Là fuori ci sono così tanti talenti, hanno solo bisogno di occasioni. Suonare con loro è anche il modo migliore per provare a rimanere dei buoni musicisti. Sono nati in un’altra era, sono abituati ad avere a disposizione all’istante tutto quello che cercano, la musica che li circonda è completamente diversa, per cui gli stimoli non mancano».Nella serata, ha dato spazio anche alle loro composizioni (da segnalare Elevation di Ely Perlman). Quando ha iniziato lei, i musicisti più esperti erano così premurosi?«Assolutamente no, c’era il nonnismo…» (ride).Visto che si fa prima a dire con chi non ha suonato che il contrario (Bobby Watson, Freddie Hubbard, Hank Jones, McCoy Tyner, James Brown, Wynton Marsalis, Sting, Paul McCartney, solo come assaggio), qualche storiella la deve raccontare. «Ok, vada a riascoltarsi Live at Fat Tuesday’s (1992, ndr). Per tutto il tour la band aveva suonato sempre gli stessi brani. Arriva la sera più delicata, perché il concerto sarebbe stato registrato. Fila tutto liscio, poi verso la fine il capo, Freddie Hubbard, impugna la tromba e inizia a improvvisare su qualcosa... Mi si è gelato il sangue, non avevo idea di cosa fosse, ma ormai il treno era partito».E come se l’è cavata? «Benny Green gli è andato dietro al pianoforte e mi ha sussurrato: “But beautiful”. Mai suonata in vita mia... Mi sono appoggiato a lui, ma è stato terribile, anche perché quello che ho combinato rimarrà in quel disco per sempre. E sa qual è l’aspetto più divertente?».Me lo dica lei. «Che il tour è andato avanti e siamo tornati alla scaletta di sempre. But beautiful non l’abbiamo più considerata» (ride). «Queste cose comunque ai miei tempi accadevano di continuo. I vecchi (i musicisti nel suo slang diventano “cats”, ndr) erano così. Nessuno ti chiedeva “conosci questa canzone”? Attaccavano e basta. Poi a voce ti potevano annientare, il loro linguaggio non era politicamente corretto e oggi non sarebbe ammesso in nessuna scuola di jazz al mondo» (ride). «Jimmy Smith non era la persona più gentile dell’universo, James Brown idem. Lou Donaldson era un tipo divertente, ma la sua onestà nei giudizi era brutale».E lei che trattamento riserva ai nuovi arrivati?«Per come son fatto io, tratto le persone esattamente come vorrei che venisse fatto con me. Però cerco anche di far capire alla nuova generazione che non deve sempre aspettarsi i complimenti per quello che sta facendo. I ragazzi tendono a cercare troppe conferme. Devono imparare che a inizio carriera ci saranno serate in cui fallirai miseramente e ti troverai in situazioni imbarazzanti: è tutto ok, fa parte della scuola. È per non fare la figura dell’idiota che uno costruisce nel suo cervello un’enciclopedia di migliaia di brani in tutte le tonalità possibili».A proposito di prove da superare, lei ha raccontato di essere stato bullizzato parecchio da ragazzino. I problemi però non le hanno fatto assumere la posa della vittima.«La mia armatura era un walkman con le cassette del mio eroe, James Brown. Lì dentro mi sentivo al sicuro e poi c’era l’amore della mia famiglia e forse la capacità di guardare lontano. Avevo capito che se mi fossi impegnato in qualcosa ne sarei uscito. Poi, una volta entrato nel mondo della musica, ho avuto chiaro che si tratta di un privilegio: nella vita ci è chiesto solo di suonare. Se anche qualcosa dovesse andare storto quanto duro potrebbe essere?». A James Brown, mito della giovinezza con cui poi ha potuto suonare, ha rubato il senso del ritmo?«Non c’è dubbio, nella sua musica ogni strumento si comporta come una batteria. Vede, al mondo esiste un sacco di musica eseguita in modo impeccabile, con tutte le note giuste al loro posto. Però non ti fa battere i piedi. Quando ho studiato il mio primo pezzo al basso elettrico, Papa was a rolling stones dei The Temptations, ho capito che quello che conta non sono le note, ma il groove. Se la gente non si muove c’è qualcosa che non va. Oggi vedo troppi jazzisti che ragionano al contrario, della serie “se il pubblico si diverte forse stiamo facendo qualcosa di sbagliato”».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.