2024-11-02
Il chiagni e fotti di Minoli con la Rai: la azzanna e poi ci torna da superstar
Gianni Minoli (Imagoeconomica)
Il presentatore contesta ancora la tv di Stato, dopo il rientro in palinsesto de «La Storia siamo noi». Abituale ingratitudine che ripaga: appena l’autore critica Viale Mazzini, dai piani alti arriva subito un nuovo incarico.Giovanni Minoli, core ’ngrato. Ma come? Per fare spazio all’eterno ritorno dell’uguale, l’ennesima replica de La storia siamo noi, la Rai ha accorciato di 40 minuti un prodotto consolidato nella mattinata di Rai3 come Elisir, e lui che fa? Spara su viale Mazzini. Interpellato da La Stampa sulle chiusure anticipate del reality di Luca Barbareschi e del talk show di Antonino Monteleone, ha sentenziato: «Quei flop sono solo l’epifenomeno del fenomeno, l’errore è stato burocratizzare tutto», con programmi » all’insegna del “mezz’ora non si nega a nessuno”», quando invece in tv «servono competenze ed esperienze».A cominciare dalle sue, ça va sans dire. Un rapporto odi et amo, quello di Minoli con la tv di Stato, che l’ha costretto, nei decenni, a trovare riparo in altri lidi professionali. Un irrequieto Limonov, un Minolimonov, che però alla fine è sempre tornato alla «casa del padre». Anzi: «del suocero», dal momento che sbarcò nella tv pubblica nel 1972 «genero dell’allora direttore generale della Rai Ettore Bernabei, essendo sposato con la figlia Matilde» (così Wikipedia). Quella Rai che al «Festival della tv» a Dogliani, nel maggio scorso, ha fotografato come: «Il welfare alla romana della politica italiana, un luogo di scarico», intendendo -forse - una discarica di politici e dirigenti alle prese con la strategia della pensione. Con la Rai, in realtà, è sempre stato un prendersi e un lasciarsi. Porte girevoli in cui non si è mai infilato Bruno Vespa, sempiterno uomo Rai da quando vi approdò nel 1962, in radio, e a viale Mazzini è rimasto sempre e per sempre, e questo nonostante la guerra che gli è stata fatta, gli ostacoli insormontabili, l’emarginazione subita, che gli hanno provocato sì tanta amarezza: «Fossi stato di sinistra, la mia carriera sarebbe stata più agevole», detta così, testuale. Se qui si evoca Vespa, è perché tra i due - che per la pubblicistica hanno incarnato, nella Prima repubblica, il volto dell’informazione pubblica «lottizzata» (Vespa in quota Dc, Minoli in odore di garofano socialista) - gli spunti polemici non sono mancati, una volta pure con preannuncio di querele reciproche. Nel 1996 TvTalk, programma di Rai Educational diretta da Minoli, aveva messo a confronto due puntate di Porta a Porta, una con Silvio Berlusconi, l’altra con Romano Prodi, concludendo che il secondo era stato bersagliato da molte più domande del primo, 150 a 53. La redazione (cioè Vespa): «Esigiamo una smentita riparatrice, anche a costo di chiederla in tribunale». Minoli: «Il tribunale lo chiedo io, perché sono sicuro che lì sanno contare». Non solo. Minoli in passato si è lamentato con i suoi sodali perché il desiderio di varare una nightline in seconda serata si sarebbe scontrato negli anni con l’opposizione di Vespa, intoccabile in quella fascia da lui monopolizzata. Vero? Falso? Sta di fatto che a Vespa una stilettata gliel’ha rifilata per interposta persona, quando a Mix24 su Radio24 ospitò, nel 2013, Renato Brunetta, all’epoca capogruppo del Pdl alla Camera, sfruculiandolo sul compenso del rivale: «Vespa guadagna 6 milioni (per tre anni, nda). Inaccettabile» tuonò Brunetta.E dire che anche Minoli è, legittimamente, attento ai soldi e bravo a farsi pagare. A Radio 24, una delle tappe del pellegrinaggio giornalistico di Minoli (che ha toccato pure La7), il contratto alla fine non gli fu rinnovato perché, fu scritto in un comunicato, «nei 4 anni di messa in onda la trasmissione non ha mai incrementato in maniera significativa gli ascolti di quella fascia, come invece ci si augurava visto anche l’elevato investimento economico sul programma» (si favoleggiava di oltre 700.000 euro a stagione, tutto compreso, i fidi Mario Sechi e Pietrangelo Buttafuoco nonché l’archivio delle sue trasmissioni storiche in Rai, che la stessa Rai gli cedette gratis quando se ne andò, e che l’anno scorso gli ha ricomprato dicunt per un milione di euro).Parole bollate da Minoli come «utili solo a mascherare le ragioni politiche di scelte inconfessabili». Quali? Boh.Si potrebbe sgradevolmente concludere che Minoli chiagne e fotte, come si dice volgarmente a Napoli, città di Un posto al sole, esempio di successo seriale - 6.556 puntate, al 28 ottobre 2024, dal debutto nel 1996 - voluto da Minoli, che ne rivendica la paternità. E che può portare giustamente all’occhiello insieme al rivoluzionario Mixer, o a Quelli della notte di Renzo Arbore, prodotto dalla sua struttura a Rai 2.Ma è più forte di lui: appena c’è odore di nomine in casa Rai, ecco che i giornali lo cercano e lui non si nega, sollecito nel polemizzare. Il bello è che, spesso, quando lui azzanna il carrozzone di viale Mazzini, quelli del settimo piano, pronti!, gli affidano un nuovo incarico.Fanpage.it, aprile 2024: «La Rai mi ha cacciato tante volte, spesso lì comanda chi non sa nulla di tv», e toh: ecco Minoli nel palinsesto autunnale.La Stampa, 2009: «Imitato da tutti, ma la Rai mi lascia nelle catacombe», nientemeno (tutti chi, poi? In primis Lucia Annunziata, che a In mezz’ora «usa le stesse inquadrature di Mixer», tiè). E toh: nel 2010 la Rai lo mette a capo della struttura ad hoc «Rai per i 150 anni dell’Unità d’Italia», budget di 8 milioni l’anno. Un tempo Maria Grazia Bruzzone, critico tv dell’Unità, lo dipinse «cattolico fanfaniano, aziendalista, socialista martellian-craxiano, progressista diessino-veltroniano, ammiratore di Forza Italia, principe della trasversalità» (elenco da aggiornare, per i detrattori). Lui con Claudio Sabelli Fioretti non fece un plissè: «È una spiegazione maliziosa e faziosa, come se fossi un trasformista». Al Centro.it, che il 24 ottobre scorso gli ha domandato: «Lei è mai stato lottizzato?», ha replicato stentoreo: «No, mai». E gli spot elettorali con Bettino Craxi imperante? «Li rivendico, li rifarei, ci misi la mia faccia. Non feci come quelli che fanno gli spot a chiunque facendo finta che sia informazione». Certo, Craxi forse lo deluse quando, nel camper del congresso Psi a Milano nel 1989, fece intendere - così fu raccontato da un testimone al sottoscritto- di preferirgli l’approccio arrembante di Giuliano Ferrara, che aveva preso la parola dal podio bombardando la Rai (il cui presidente, Enrico Manca, sedeva alle spalle di Ferrara, applaudendolo pure, dal che si capisce che Paolo Corsini, il direttore Rai sul palco di Atreju, è arrivato con 35 anni di ritardo). Minoli non ha mai pregato qualcuno, né si è mai candidato a qualcosa. Non c’è motivo per non credergli. Ma non può certo impedire che il suo nome circoli. A sua insaputa. Ovvio. Ultimo caso, la (mancata) nomina nel cda Rai.Il sito Dagospia ha inzigato che a tirargli la volata sarebbe stato «il duplex Pd Francesco Boccia-Dario Franceschini», ma Elly Schlein si sarebbe messa di traverso non fidandosi del «multitasking» Minoli. Pazienza. A Minoli le relazioni non mancano per riprovarci. A cominciare da quelle con l’ubiquo Gianni Letta, testimone di nozze al matrimonio tra Salvo Nastasi, «ombra» di Franceschini al ministero della Cultura, e la propria figlia Giulia, in un intreccio imponderabile per cui Nastasi, già commissario straordinario a Bagnoli e presidente della Siae, oggi nuovo presidente della Fondazione Cinema per Roma, è appena diventato consigliere di amministrazione del Policlinico Gemelli. Là dove ha esercitato per anni uno specialista sopraffino, Roberto Bernabei, direttore del dipartimento di Scienza dell’invecchiamento, archiatra pontificio, fratello di Matilde, quindi cognato di Minoli. Tutta una famiglia.
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.