2021-04-17
Il grande sociologo Frank Furedi tesse l’elogio delle frontiere, fisiche e morali: «Necessarie per vivere bene». Un concetto che anche a sinistra un numero crescente di intellettuali comincia a comprendereChe a scriverlo non è un pericoloso sovranista, ma un autore letto e stimato in tutto il mondo che è molto difficile etichettare come conservatore destrorso. Si tratta di Frank Furedi, professore emerito di sociologia all’Università del Kent e autore di alcuni saggi fondamentali tra cui spicca Il nuovo conformismo (2005), pubblicato in Italia anni fa da Feltrinelli. Ora, grazie all’editore Meltemi, è arrivato anche qui il suo ultimo scritto, che in tutto il mondo anglofono ha suscitato un rovente dibattito. Si intitola I confini contano. Perché l’umanità deve riscoprire l’arte di tracciare le frontiere, e sgretola la gran parte dei luoghi comuni che da troppo tempo imperversano riguardo alla bellezza della mobilità globale. Come noto, l’assenza di limiti e confini è uno dei dogmi del neoliberismo: gli uomini devono poter circolare liberamente ovunque esattamente come le merci, e poco importa se poi la differenza tra uomo e merce va sfumando. Tutti i confini devono saltare: quelli fra gli Stati, ma anche fra le età, fra le culture, perfino fra i sessi. Chiunque oggi rivendichi separazione e differenza è guardato come un ottuso bigotto o, peggio, un crudele fascista. Furedi, al contrario, ci dimostra che senza i confini siamo destinati irrimediabilmente a perderci o a essere dominati. Prima di tutto, spiega, dobbiamo preservare i «confini simbolici» che ci rendono quello che siamo. «I confini», scrive, «non sono soltanto realtà fisiche e geografiche, hanno anche una forte rilevanza simbolica, grazie alla quale le comunità acquisiscono consapevolezza di sé stesse e del senso della loro esistenza. […] Quando i confini simbolici perdono di significato, si arriva a una crisi culturale. Senza la guida offerta dalle frontiere simboliche, per i giovani è difficile compiere la transizione verso l’età adulta». Secondo Furedi, «i confini simbolici si sono dimostrati essenziali per lo sviluppo del pensiero umano e hanno sensibilizzato le persone a comprendere dove porre sé stesse in relazione agli altri. I confini simbolici offrono agli individui una bussola per i rapporti interpersonali e influenzano il modo in cui è percepita la realtà; trasmettono alle comunità dei criteri per discernere, per fare distinzioni cognitive o di spazio e tempo». Eppure tutti questi confini oggi vengono fatti saltare, uno dopo l’altro. Scompaiono i riti, compresi quelli di passaggio, come ha notato il filosofo Byung-Chul Han in un recente saggio. Il nostro futuro sembra essere già scritto: mobilità totale e sradicamento. Lo sostiene il noto «futurologo» Parag Khanna in un libro appena pubblicato da Fazi e intitolato Il movimento del mondo. «Migrare è il destino», afferma deciso Khanna. E nota come «tutte le forze che costringono le persone a sradicarsi stanno accelerando: carenza di manodopera, sconvolgimenti politici, crisi economiche, evoluzioni tecnologiche e cambiamenti climatici». Messa così, verrebbe quasi da pensare che la mobilitazione totale e la «liquidità» siano in qualche modo obbligate, quasi naturali. In realtà, ormai lo abbiamo capito, sono indotte. È, appunto, il pensiero dominante a veicolare l’idea che si debba essere flessibili, sradicati, liquidi, neutri e malleabili. L’immigrazione, ovviamente, è il terreno su cui è più facile misurare l’influenza dell’ideologia no border. Non per nulla Furedi scrive: «Considerato che le tesi liberali a favore dei confini aperti si sono trasformate in un supporto all’ingegneria sociale, tutte le persone tolleranti dovrebbero essersi stancate della retorica che circonda l’immigrazione e la diversità. L’uso dell’immigrazione come arma contro la sovranità nazionale ha l’effetto assolutamente devastante di provocare confusione e incertezza culturale. Una perorazione illuminata della libertà di circolazione dovrebbe sostenere anche la sovranità nazionale e riconoscere l’autorevolezza della cultura nazionale prevalente». È una riflessione potente, specie se si considera che non proviene da un autore «di destra». In effetti posizioni non troppo dissimili, anche se talvolta meno coraggiose, stanno cominciando da un po’ a diffondersi anche a sinistra. Un esempio è l’interessante saggio di Michael Lind, già docente ad Harvard e editorialista del New York Times intitolato La nuova lotta di classe (Luiss). Lind è un progressista, eppure sostiene la necessità di alcune forme di limitazione dell’immigrazione di massa, portando avanti idee che la sinistra italiana probabilmente non sarebbe mai disposta ad accettare. A suo dire, i beneficiari delle migrazioni di massa che portano lavoratori sotto pagati dal Sud al Nord del mondo «tendono a essere i nuclei famigliari ricchi della superclasse che assumono personale domestico e le aziende il cui modello di business si basa sulla manodopera a bassa retribuzione. Le vittime sono i lavoratori poveri, compresi i lavoratori immigrati arrivati con le precedenti ondate migratorie». Ecco la prova sul campo di ciò che teorizza Frank Furedi: l’assenza di confini toglie libertà, crea nuovi schiavi. Nel caso dell’immigrazione, si crea il proverbiale «esercito industriale di riserva» composto da lavoratori sottopagati che possono essere facilmente sfruttati. Ma, come detto, la lotta contro i confini condotta dall’attuale sistema non riguarda soltanto le frontiere fisiche. Ha a che fare pure con quello che Furedi definisce «il linguaggio delle identità prive di confini in merito al comportamento individuale». A tal proposito, il caso più emblematico è senz’altro quello delle teorie gender, che propagandano la fluidità e l’indistinzione. La «moltiplicazione delle identità», sostiene Frank Furedi, ha come esito preoccupante «la difficoltà che molti giovani incontrano nel compiere la transizione all’età adulta». Più in generale, il sociologo spiega che «senza un senso del limite, l’identità diventa instabile, minacciando di compromettere il senso di sé dell’individuo». E se manca questo «senso di sé», se l’individuo non ha un’identità chiara e forte, beh, il suo destino è segnato. Egli sarà debole, eccessivamente fragile, confuso, e facilmente manipolabile. Di nuovo, un potenziale schiavo. Conclude Furedi: «I confini contano, perché danno alle comunità la sicurezza che occorre loro in un mondo di incertezze. E i confini contano anche perché forniscono l’infrastruttura culturale necessaria per la costruzione dell’identità personale». Chi vuole abbatterli in nome della «libertà», in realtà ci rende tutti meno liberi.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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