Chi vuole cancellare limiti e confini punta a renderci tutti meno liberi

Che a scriverlo non è un pericoloso sovranista, ma un autore letto e stimato in tutto il mondo che è molto difficile etichettare come conservatore destrorso. Si tratta di Frank Furedi, professore emerito di sociologia all’Università del Kent e autore di alcuni saggi fondamentali tra cui spicca Il nuovo conformismo (2005), pubblicato in Italia anni fa da Feltrinelli. Ora, grazie all’editore Meltemi, è arrivato anche qui il suo ultimo scritto, che in tutto il mondo anglofono ha suscitato un rovente dibattito. Si intitola I confini contano. Perché l’umanità deve riscoprire l’arte di tracciare le frontiere, e sgretola la gran parte dei luoghi comuni che da troppo tempo imperversano riguardo alla bellezza della mobilità globale.
Come noto, l’assenza di limiti e confini è uno dei dogmi del neoliberismo: gli uomini devono poter circolare liberamente ovunque esattamente come le merci, e poco importa se poi la differenza tra uomo e merce va sfumando. Tutti i confini devono saltare: quelli fra gli Stati, ma anche fra le età, fra le culture, perfino fra i sessi. Chiunque oggi rivendichi separazione e differenza è guardato come un ottuso bigotto o, peggio, un crudele fascista. Furedi, al contrario, ci dimostra che senza i confini siamo destinati irrimediabilmente a perderci o a essere dominati.
Prima di tutto, spiega, dobbiamo preservare i «confini simbolici» che ci rendono quello che siamo. «I confini», scrive, «non sono soltanto realtà fisiche e geografiche, hanno anche una forte rilevanza simbolica, grazie alla quale le comunità acquisiscono consapevolezza di sé stesse e del senso della loro esistenza. […] Quando i confini simbolici perdono di significato, si arriva a una crisi culturale. Senza la guida offerta dalle frontiere simboliche, per i giovani è difficile compiere la transizione verso l’età adulta».
Secondo Furedi, «i confini simbolici si sono dimostrati essenziali per lo sviluppo del pensiero umano e hanno sensibilizzato le persone a comprendere dove porre sé stesse in relazione agli altri. I confini simbolici offrono agli individui una bussola per i rapporti interpersonali e influenzano il modo in cui è percepita la realtà; trasmettono alle comunità dei criteri per discernere, per fare distinzioni cognitive o di spazio e tempo».
Eppure tutti questi confini oggi vengono fatti saltare, uno dopo l’altro. Scompaiono i riti, compresi quelli di passaggio, come ha notato il filosofo Byung-Chul Han in un recente saggio. Il nostro futuro sembra essere già scritto: mobilità totale e sradicamento. Lo sostiene il noto «futurologo» Parag Khanna in un libro appena pubblicato da Fazi e intitolato Il movimento del mondo. «Migrare è il destino», afferma deciso Khanna. E nota come «tutte le forze che costringono le persone a sradicarsi stanno accelerando: carenza di manodopera, sconvolgimenti politici, crisi economiche, evoluzioni tecnologiche e cambiamenti climatici».
Messa così, verrebbe quasi da pensare che la mobilitazione totale e la «liquidità» siano in qualche modo obbligate, quasi naturali. In realtà, ormai lo abbiamo capito, sono indotte. È, appunto, il pensiero dominante a veicolare l’idea che si debba essere flessibili, sradicati, liquidi, neutri e malleabili.
L’immigrazione, ovviamente, è il terreno su cui è più facile misurare l’influenza dell’ideologia no border. Non per nulla Furedi scrive: «Considerato che le tesi liberali a favore dei confini aperti si sono trasformate in un supporto all’ingegneria sociale, tutte le persone tolleranti dovrebbero essersi stancate della retorica che circonda l’immigrazione e la diversità. L’uso dell’immigrazione come arma contro la sovranità nazionale ha l’effetto assolutamente devastante di provocare confusione e incertezza culturale. Una perorazione illuminata della libertà di circolazione dovrebbe sostenere anche la sovranità nazionale e riconoscere l’autorevolezza della cultura nazionale prevalente». È una riflessione potente, specie se si considera che non proviene da un autore «di destra».
In effetti posizioni non troppo dissimili, anche se talvolta meno coraggiose, stanno cominciando da un po’ a diffondersi anche a sinistra. Un esempio è l’interessante saggio di Michael Lind, già docente ad Harvard e editorialista del New York Times intitolato La nuova lotta di classe (Luiss). Lind è un progressista, eppure sostiene la necessità di alcune forme di limitazione dell’immigrazione di massa, portando avanti idee che la sinistra italiana probabilmente non sarebbe mai disposta ad accettare. A suo dire, i beneficiari delle migrazioni di massa che portano lavoratori sotto pagati dal Sud al Nord del mondo «tendono a essere i nuclei famigliari ricchi della superclasse che assumono personale domestico e le aziende il cui modello di business si basa sulla manodopera a bassa retribuzione. Le vittime sono i lavoratori poveri, compresi i lavoratori immigrati arrivati con le precedenti ondate migratorie». Ecco la prova sul campo di ciò che teorizza Frank Furedi: l’assenza di confini toglie libertà, crea nuovi schiavi.
Nel caso dell’immigrazione, si crea il proverbiale «esercito industriale di riserva» composto da lavoratori sottopagati che possono essere facilmente sfruttati. Ma, come detto, la lotta contro i confini condotta dall’attuale sistema non riguarda soltanto le frontiere fisiche. Ha a che fare pure con quello che Furedi definisce «il linguaggio delle identità prive di confini in merito al comportamento individuale».
A tal proposito, il caso più emblematico è senz’altro quello delle teorie gender, che propagandano la fluidità e l’indistinzione. La «moltiplicazione delle identità», sostiene Frank Furedi, ha come esito preoccupante «la difficoltà che molti giovani incontrano nel compiere la transizione all’età adulta». Più in generale, il sociologo spiega che «senza un senso del limite, l’identità diventa instabile, minacciando di compromettere il senso di sé dell’individuo».
E se manca questo «senso di sé», se l’individuo non ha un’identità chiara e forte, beh, il suo destino è segnato. Egli sarà debole, eccessivamente fragile, confuso, e facilmente manipolabile. Di nuovo, un potenziale schiavo.
Conclude Furedi: «I confini contano, perché danno alle comunità la sicurezza che occorre loro in un mondo di incertezze. E i confini contano anche perché forniscono l’infrastruttura culturale necessaria per la costruzione dell’identità personale». Chi vuole abbatterli in nome della «libertà», in realtà ci rende tutti meno liberi.






