2025-06-02
Ma la Cei segue il Vangelo di Elly e «vende» la cittadinanza facile
Il cardinale Matteo Zuppi (Getty Images)
«Avvenire» dà spazio al direttore della Caritas, che sostiene il referendum.Se non altro hanno il pregio dell’onestà. Avvenire lo scrive senza mezzi termini: «Fari dell’organismo pastorale della Cei sono i quattro verbi di papa Francesco per i migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare». Come volevasi dimostrare - e come suggerivamo nei giorni scorsi - sono rimasti lì, ai quattro luoghi comuni immigrazionisti. Sembra quasi che nella Chiesa funzioni come in politica: il vertice cambia, ma il Deep state rimane identico e continua a portare avanti la propria agenda. E infatti ieri Avvenire ha dedicato il titolone di prima pagina alle parole di don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana. Secondo il sacerdote, ridurre da dieci a cinque anni il periodo necessario per ottenere la cittadinanza «rappresenta una misura necessaria per stare al passo coi tempi». Capito? Bisogna seguire l’onda, adeguarsi all’epoca, anche se qualcuno diceva che i cristiani sono «nel mondo ma non del mondo». Per altro, per adattarsi ai tempi la Chiesa dovrebbe semplicemente scomparire, ma sorvoliamo. Don Marco è convintissimo: «La cittadinanza contribuirebbe a superare discriminazioni e barriere culturali facilitando l’integrazione nei quartieri, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. Riconoscerla alle persone che vivono e lavorano nei nostri territori da un ragionevole periodo di tempo, come sono i cinque anni di residenza continuativa e regolare previsti dal referendum, sarebbe un atto di giustizia verso chi contribuisce al bene comune». In realtà non esiste alcuna discriminazione: i figli degli stranieri hanno gli stessi diritti di tutti gli altri, né l’istruzione né le cure sono ad essi negati. Lo stesso direttore della Caritas, senza rendersene conto, contribuisce a smontare la bugia secondo cui ottenere la cittadinanza in Italia è praticamente impossibile. «C’è effettivamente molta disinformazione e veri e propri pregiudizi», dice con l’aria di chi la sa lunga. «Ad esempio, un luogo comune è che la cittadinanza si ottenga soprattutto per matrimonio con un italiano. Invece i dati sulle acquisizioni attestano che il matrimonio è la modalità più residuale: il 45% dei nuovi cittadini la ottiene attraverso la residenza da oltre 10 anni, dimostrando un reddito, l’assenza di condanne, la continuità del soggiorno. Ottenuta la cittadinanza», continua don Marco, «i genitori possono trasmetterla ai figli e sono i provvedimenti di estensione della cittadinanza da genitore a figlio a prevalere sulle altre modalità (46%)». Questi dati dimostrano che gli stranieri - al netto delle rogne burocratiche che affliggono su altre questioni anche gli autoctoni - possono serenamente diventare italiani con le attuali regole, e infatti ogni anno vengono rilasciate decine di migliaia di nuove cittadinanze. Ma don Pagniello, a prescindere da tutto, appare granitico nella sua convinzione: «Parlare di cittadinanza con la stessa accezione di inizio Novecento significa non essere immersi nel nostro tempo. Ci troviamo in un mondo profondamente interconnesso e anche gli stili di vita hanno abbattuto molte barriere che un tempo definivano le appartenenze. La cittadinanza non può più basarsi solo sulla difesa dei confini o su una visione chiusa e identitaria». Ma certo, basta con l’identità, insopportabile residuo del passato. Meglio essere inclusivi e aperti. Anche perché la cittadinanza facile «potrebbe rappresentare anche una risposta concreta alla crisi demografica. Lo ius sanguinis è stato finora il criterio dominante, ma non sempre ha rispecchiato la reale partecipazione delle persone alla comunità. Ed è su questa, invece, che dobbiamo puntare». Questo è il messaggio della Chiesa «aperta» di oggi: bisogna stare al passo, conformarsi, bersi senza protestare tutte le tesi progressiste e mostrarsi inclusivi. A quanto pare, fra i prelati sono ancora in troppi a pensare che il nome del pontefice sia Elly.
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