2021-12-28
Il caso tedesco è una bufala pro lockdown
I media celebrano la discesa dei contagi in Germania dopo la stretta per i non vaccinati come prova dell’efficacia delle limitazioni. In realtà, i divieti sono più blandi dei nostri e i malati erano già diminuiti. Ma, pur di giustificare nuove restrizioni, si diffondono bugie.Una bufala è una bufala e resta tale anche se la scrivi cento volte su cento testate diverse. In Germania non c’è stato alcun lockdown che abbia consentito di invertire la curva dei contagi, come invece ha riportato ieri la quasi totalità della stampa italiana. Semplicemente, di fronte a una quantità allarmante di positivi, i Land più colpiti hanno introdotto alcune limitazioni più blande di quelle già in vigore da noi. In pratica, è stato istituito l’obbligo del 3G, cioè di un certificato di vaccinazione, oppure di uno di guarigione o di un tampone eseguito nelle ultime 24-48 ore per poter accedere a ristoranti, teatri e palestre. Niente di tutto ciò è richiesto per poter entrare in fabbrica o in ufficio. Qualche governo regionale ha imposto il 2G, ovvero l’ingresso consentito solo a chi sia in grado di dimostrare di aver ricevuto almeno la seconda dose oppure di aver avuto il Covid e di esserne guarito. Secondo la stragrande maggioranza dei giornali italiani, ciò dimostrerebbe che rinchiudere in casa i non vaccinati (cosa che non è avvenuta), come qualche presunto esperto sta suggerendo di fare nel nostro Paese per abbassare la curva dei contagi, consentirebbe di impedire la diffusione del virus. In realtà, chi conosce la situazione e non si limita ai titoli dei quotidiani, sa benissimo che non esiste alcuna correlazione scientificamente dimostrata tra le misure adottate in Germania e l’andamento dell’epidemia. Prova ne sia che ad Amburgo, città-stato nel nord del Paese, i divieti di cui oggi si parla sono in vigore dalla fine di agosto (giustificati dall’accusa che il 95% dei contagiati fosse no vax, affermazione falsa per cui di recente il sindaco ha chiesto scusa), ma ciò non ha impedito che nei mesi successivi il Covid si diffondesse e che nella settimana fra il 13 e il 26 di dicembre si registrassero quasi 13.000 contagi su una popolazione dell’area metropolitana che è superiore ai cinque milioni. Del resto, che l’abbassamento dei contagi abbia poco a che fare con gli interventi delle autorità, ma l’andamento sia più legato alla stagionalità, lo dimostra il fatto che la curva era in discesa già a fine novembre, prima del finto lockdown. Ma ne è prova anche il fatto che in Romania, Paese con un basso tasso di vaccinazione che non ha adottato le misure della Germania, il flusso dei positivi è comunque in discesa, dopo un periodo di forte crescita. Insomma, a differenza di quanto riportato, il «modello tedesco», come è già stato classificato dalla stampa, insegna poco o nulla, e non c’è molto da imparare neanche da altri Paesi che fino a ieri erano portati in palmo di mano, a cominciare da Israele o dall’Irlanda, dove dopo un periodo di relativa tranquillità e di livelli di immunizzazione elevati, i positivi sono tornati ad aumentare.Una bufala è una bufala e resta tale anche se a spacciarla è un professore con un fior di curriculum. Abbiamo già avuto modo di raccontare quella diffusa da Matteo Bassetti su contagi e vaccinati in California o quella propalata da Franco Locatelli a proposito dei ricoveri in terapia intensiva sotto i 59 anni o, ancora, quella pronunciata da Fabrizio Pregliasco sulla bassa contagiosità di chi è positivo nonostante il vaccino. Ieri, sul Corriere della Sera, Sergio Abrignani, forse nel tentativo di innescare una guerra tra immunizzati e non, ha accreditato l’idea che più dell’80% delle terapie intensive sia occupato da persone che non hanno ricevuto alcuna dose. In realtà, a guardare i dati diffusi dall’Istituto superiore di sanità non sembrerebbe. Su quasi 1.200 ricoverati, il 63% era rappresentato da persone non vaccinate, ma il resto dei degenti aveva completato la terapia vaccinale. Nella fretta di addossare ogni colpa ai non vaccinati, dunque Abrignani ha un po’ ecceduto con le percentuali. Cosa che per la verità ha fatto anche il presidente del Consiglio nella conferenza stampa di fine anno, quando ha risposto che i decessi per Covid si registrano quasi tutti fra coloro che hanno rifiutato l’iniezione. È vero che in percentuale, considerando il numero di persone vaccinate, fra i renitenti alla puntura si ha un numero di decessi molto elevato (722), ma in numeri assoluti ci sono anche centinaia di persone che avevano fatto prima, seconda e perfino terza dose (42 con una sola, 991 con due o tre). Si diceva: una bufala è una bufala e prima o poi non passa inosservata. In Gran Bretagna, di recente, il capo della sanità è stato accusato di aver diffuso statistiche fuorvianti sui ricoveri, sopravvalutando il rischio Omicron per spingere verso restrizioni più severe. Ma nel Regno unito la stampa fa il proprio mestiere, mica quello dei politici o dei tecnici. Infatti, invece di riprodurre a testate unificate ogni notizia, verificano le fonti e se le dichiarazioni non corrispondono al vero ne chiedono conto. Il che non significa essere pro o no vax, significa non spacciare per vero ciò che è falso.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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