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2024-12-09
Caro Macron, lei è tutto «liberté, egalité e Bce»
Emmanuel Macron (Ansa)
L’incenso di Notre-Dame ha infatti offuscato in queste ore la drammatica crisi del suo Paese, che tutti descrivono come «ostaggio dei populisti». Si capisce: questi orrendi populisti (la sinistra di Mélenchon e la destra della Le Pen) si sono permessi di vincere le elezioni, contro il suo parere peraltro, e ora pretendono anche di far valere i voti dei cittadini in Parlamento. Che cosa c’è di più antidemocratico? Per fortuna c’è lei, caro Macron Napoleon, che in virtù della sua solenne sconfitta elettorale, senza voti, di fatto contro la volontà del suo popolo, continua democraticamente a regnare in nome del potere divino che le è stato attribuito dall’Olimpo del denaro mondiale. Come dice il suo motto: liberté, egalité e Bce.
Lei del resto da sempre è vicino ai potenti. Da studente s’innamorò della professoressa, da giovane laureato scelse i Rothschild. Dopo l’esperienza nella banca d’affari si buttò in politica, e diventò subito presidente. Giovane, belloccio, spigliato, lei è una specie di Big Jim prestato alle istituzioni, il Cicciobello dell’Eliseo (cit. Travaglio). Da sempre si distingue per il suo amore per gli immigrati, purché siano a casa degli altri. Se l’Italia infatti prova a respingere qualche clandestino è «vomitevole». Ma lei a Ventimiglia usa le armi per chiudere i confini. E basta che una nave di migranti, anziché a Lampedusa, arrivi in Francia e lei impazzisce. Ha sempre fatto asse con la Germania, ha firmato patti (Aquisgrana) per fotterci, e poi s’è esaltato nel menar le mani in Ucraina. Fin dall’inizio infatti ha spinto per mandare armi, e anche soldati sul campo. Parlare di guerra fra gli stucchi di Versailles, evidentemente, la fa sentire assai macho. Quasi come restaurare (pardon: costruire) Notre-Dame.
Di lei si ricordano memorabili gaffe. Come quando in mezzo agli atleti paralimpici in carrozzella cominciò a cantare: «Chi non salta non è francese». O come quando, per un errore in inglese, definì la moglie del premier australiano «prelibata», manco fosse una crêpe suzette. Molti non hanno apprezzato la cerimonia inaugurale delle ultime Olimpiadi, tutta gender, con annesso sbertucciamento al cristianesimo e Ultima cena con drag queen. Ma indiscutibilmente la manifestazione è stata un successo. E questo deve avere accresciuto ancora di più la sua autostima: si sente re, imperatore, ora forse anche vescovo, magari persino santo (santo Macron, beato di Notre-Dame), che bisogno c’è di avere pure il consenso del popolo? Perciò s’incolla alla poltrona. Ma questa, se lo lasci dire, è una strada pericolosa. Lei arrivò al potere con lo slogan En Marche. Voleva marciare. Così, però, rischia solo di marcire.
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Riduci
Caro Emmanuel Macron, caro presidente della Francia, le scrivo questa cartolina per farle i complimenti: ha restaurato la cattedrale di Notre-Dame in «soli» cinque anni. Un miracolo, in pratica. E se qualcuno pensa che dopo cinque anni sia piuttosto normale riaprire una cattedrale, sicuramente è un populista: lei merita la gloria e l’onore che le hanno tributato 50 capi di Stato, nonché i giornali di tutto il mondo, leggendo i quali sembra che più che restaurarla lei la cattedrale l’abbia costruita. Con le sue mani. E con Brigitte come architetto. Una vera impresa monumentale, un successo senza pari, simbolo imperituro della gloria francese. Tanto che mi viene un dubbio: adesso che ha restaurato la cattedrale, ecco, non potrebbe far qualcosa, lì a Parigi, per restaurare anche la democrazia?L’incenso di Notre-Dame ha infatti offuscato in queste ore la drammatica crisi del suo Paese, che tutti descrivono come «ostaggio dei populisti». Si capisce: questi orrendi populisti (la sinistra di Mélenchon e la destra della Le Pen) si sono permessi di vincere le elezioni, contro il suo parere peraltro, e ora pretendono anche di far valere i voti dei cittadini in Parlamento. Che cosa c’è di più antidemocratico? Per fortuna c’è lei, caro Macron Napoleon, che in virtù della sua solenne sconfitta elettorale, senza voti, di fatto contro la volontà del suo popolo, continua democraticamente a regnare in nome del potere divino che le è stato attribuito dall’Olimpo del denaro mondiale. Come dice il suo motto: liberté, egalité e Bce.Lei del resto da sempre è vicino ai potenti. Da studente s’innamorò della professoressa, da giovane laureato scelse i Rothschild. Dopo l’esperienza nella banca d’affari si buttò in politica, e diventò subito presidente. Giovane, belloccio, spigliato, lei è una specie di Big Jim prestato alle istituzioni, il Cicciobello dell’Eliseo (cit. Travaglio). Da sempre si distingue per il suo amore per gli immigrati, purché siano a casa degli altri. Se l’Italia infatti prova a respingere qualche clandestino è «vomitevole». Ma lei a Ventimiglia usa le armi per chiudere i confini. E basta che una nave di migranti, anziché a Lampedusa, arrivi in Francia e lei impazzisce. Ha sempre fatto asse con la Germania, ha firmato patti (Aquisgrana) per fotterci, e poi s’è esaltato nel menar le mani in Ucraina. Fin dall’inizio infatti ha spinto per mandare armi, e anche soldati sul campo. Parlare di guerra fra gli stucchi di Versailles, evidentemente, la fa sentire assai macho. Quasi come restaurare (pardon: costruire) Notre-Dame.Di lei si ricordano memorabili gaffe. Come quando in mezzo agli atleti paralimpici in carrozzella cominciò a cantare: «Chi non salta non è francese». O come quando, per un errore in inglese, definì la moglie del premier australiano «prelibata», manco fosse una crêpe suzette. Molti non hanno apprezzato la cerimonia inaugurale delle ultime Olimpiadi, tutta gender, con annesso sbertucciamento al cristianesimo e Ultima cena con drag queen. Ma indiscutibilmente la manifestazione è stata un successo. E questo deve avere accresciuto ancora di più la sua autostima: si sente re, imperatore, ora forse anche vescovo, magari persino santo (santo Macron, beato di Notre-Dame), che bisogno c’è di avere pure il consenso del popolo? Perciò s’incolla alla poltrona. Ma questa, se lo lasci dire, è una strada pericolosa. Lei arrivò al potere con lo slogan En Marche. Voleva marciare. Così, però, rischia solo di marcire.
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Riduci
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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