2024-08-13
«Caro Celentano, forse è ora di fare pace»
Don Backy e Adriano Celentano (Getty Images)
Il cantautore Don Backy che animò lo storico Clan del Molleggiato: «Non vedo Adriano dal 1974, dopo una lunga diatriba in tribunale perché non fui pagato per i miei dischi. Ma oggi, a quasi 85 anni, è il momento di ricomporre. E a chiedermelo sono anche migliaia di fan».Un’amicizia può finire, si sa. Non è mai detta, tuttavia, l’ultima parola. Anche perché se per qualche motivo è deflagrata, difficilmente collassa nell’indifferenza. Don Backy, al secolo Aldo Caponi, classe 1939, il prossimo 21 agosto compie 85 anni. Ha scritto e musicato brani entrati nella storia del pop. A una delle sue canzoni più ispirate, Casa bianca, è legata la rottura dei rapporti con Adriano Celentano, classe 1938. Quando il Molleggiato, nel 1967, firmò la prefazione di un suo romanzo «fuori dagli schemi», Io che miro il tondo (Feltrinelli), ora ripubblicato, erano ancora amici. Entrambi credenti, dal 1974 non si sono più rivolti la parola. In questa conversazione, Don Backy, pur non trattenendo qualche frecciata, apre una porta per un possibile disgelo. Nato in Toscana, a Santa Croce sull’Arno. «La mia infanzia l’ho trascorsa fino a 15 anni a Castellammare di Stabia. Siamo toscani da sette generazioni. Mio padre si era spostato per lavoro. Si occupava di cuoio perché a Santa Croce sull’Arno ci sono le concerie. Noi della famiglia l’abbiamo seguito. Avevo due anni. Poi rientrammo».È nata in quel periodo la sua passione per la musica?«Sì, intorno ai 16-17 anni. Fin allora canticchiavo e non ci pensavo nemmeno lontanamente. Poi, una sera, nel 1956, siamo andati a vedere il primo film sul rock ’n’ roll, Senza tregua il rock ’n’ roll con Bill Haley che cantava Rock around the clock. A quel punto è scattata la molla». A quanti anni compose la sua prima canzone?«Il mio primo brano ufficiale, che racconta una storia vera, è del 1960, La storia di Frankie Ballan».Storia d’amore di un suo amico che finiva male... «Stiamo parlando di ragazzini. Scappò di casa, con la ragazza: a quei tempi non era una cosa semplice. Per esigenze metriche o poetiche venne fuori che lei non lo amasse, ma in realtà lo amava. Doveva finire in modo un po’ drammatico».Fu la canzone che fece pervenire a Celentano. «La mandai al fratello di Adriano, Alessandro Celentano. Mi ero autoprodotto il disco. Sul retro c’era Mi manchi tu. Lo ricevette Detto Mariano. Adriano l’ascoltò al telefono, rimase un po’ colpito. Poi Milena, sua fidanzata dell’epoca, gli disse “chiamalo!” e quello fu il carico da undici». E così approdò a Milano. Il clan esisteva già? «Certo, il clan era già formato, da Adriano, Ricky Gianco e Guidone (Guido Crapanzano, ndr). Io fui il quarto. Quando arrivai io, nel marzo 1962, l’etichetta si chiamò “Clan”. Rimase sempre con quattro componenti effettivi. Quando, dopo un anno e mezzo, uscirono Ricky Gianco e Guidone, subentrarono Milena, la ragazza del clan, e Gino Santercole, nipote di Adriano. Hanno inciso anche altri cantanti come Pilade (Lorenzo Pilat, ndr), Ico Cerutti…». Qualcuno ha detto che Celentano, nel clan, fosse un po’ dispotico...«Non lo è mai stato, tutto sommato. Questa è una chiacchiera che mette in giro Ricky Gianco... Eravamo ragazzi di vent’anni, ci piaceva suonare e cantare. Adriano mi accolse benissimo, tant’è che i primi due mesi ho vissuto a casa sua. Dormivo nel divano del suo studio. Poi ebbe l’idea di farmi pagare un anticipo di royalties e quindi andai a stare in albergo, poi in una pensione vicino al clan e quindi, con Detto Mariano, a casa di Jack La Cayenne, 15.000 lire a testa al mese. Questa è stata la nostra bohème». Come nasce lo pseudonimo Don Backy?«Viene fuori da Cocco Bacillo, il primo pensiero di Adriano: Cocco per lo sceriffo di Jacovitti, Bacillo perché avevo il raffreddore. Poi Daniele Bacillo, poi Dan Baci. Da Dan diventò Don, perché ammiravo gli Everly Brothers e uno dei due fratelli si chiamava Don Everly. Da lì Don Backy». Dopo gli inizi, mutarono le dinamiche nel gruppo?«Sì, perché le persone cambiano. Si era tutti amici fraterni, poi ci si sposa, si hanno dei figli, quello che capitò ad Adriano, che doveva stare molto a casa. La bohème era finita. Detto Mariano e i ragazzi che frequentavano il clan, Teo Teocoli, Ico Cerutti, Pilade, mi elessero a colui che, artisticamente parlando, lo mandava avanti». Sanremo 1968. Per regolamento del festival non poteva firmare due brani, Canzone, cantata da Celentano e Casa bianca, interpretata dalla Vanoni. «Esatto. I problemi nacquero da qui e dal fatto che non mi pagassero i miei effettivi dischi venduti. Pur di presentare Casa bianca, la fecero firmare da un certo Eligio La Valle, un prestanome insomma...». Chi fu a chiamare La Valle?«Non lo so chi fu. Forse gli esponenti clanini. Mi telefonarono. Ero a teatro con Gian Maria Volonté. Risposi: “Non v’azzardate”. Volevano che firmassi come autore delle parole ma io non andai, pensando: “Ma questo chi è?”. Lo chiamarono lo stesso, e fu fatta la mia firma falsa. Celentano sa come sono andate esattamente le cose ed ecco qua la sua grande religiosità e bontà d’animo». Ha percepito diritti per Casa bianca?«Per la musica no». E per le parole?«Per le parole sì, perché La Valle riconobbe che erano mie, io non gliele avrei mai date. L’ho visto solo una volta nel 1973-74. Si pretendeva che testo e musica le avessi scritte insieme con lui. Non l’ho fatto e giuro su mio figlio che la canzone è completamente mia».Maurizio Soldini, per il film Pane e tulipani, la chiamò a cantarla. Aurelio Grimaldi, in Le buttane, la riprende in una scena di alta poesia in una vigilia di Natale a Palermo. «(sorride) Le mie canzoni le hanno scelte per un sacco di film. Nel nuovo film di Gianni Pellegrini Il segreto dell’armonia, ce ne sono 5-6». «Era tanto tempo fa / Ero bimbo e di dolore / Io piangevo nel mio cuore». Un trauma infantile in questa storia? «Un trauma superato. Era la casa dei miei nonni paterni a Santa Croce, prima che partissimo per la Campania. Quando mia madre mi ci portava per dormire - i suoceri non c’erano più - era vuota, senza mobili. Mi faceva un certo effetto e non ci volevo andare. Da lì una metafora della nostra gioventù. Non ci vorremmo mai entrare e, una volta entrati, non ne vorremmo mai uscire. La Valle non immaginava nemmeno di cosa si trattasse, e mi ha sottratto la musica della canzone forse più vera che abbia mai scritto». Dopo la querela come reagì Adriano? «A un avvocato disse: “Se mi chiamano a testimoniare dirò che non mi ricordo niente”. A quel punto che lo chiamavano a fare?».E dunque come andò a finire?«Nel 1974 Celentano venne a transare. Firmò un assegno, di una buona cifra, ma di un quarto di quello che mi avevano sottratto e avrebbero dovuto darmi. Io volevo chiudere e ritirai la querela. Lui mi disse: “Quando me li ridai questi?”». Cosa rimprovera, complessivamente, al Molleggiato?«Ognuno ha una coscienza e farà i conti con quella. Se ritiene di aver avuto ragione per come si è comportato, avrà avuto ragione. Se ritiene di aver avuto torto, è sciocco aver conservato quest’acrimonia fino ad oggi. Ebbi un’offerta di 30 milioni dalla Rca, ero primo in classifica con varie canzoni. Rinunciai pur di restare al clan». Lo lasciò nel 1968. «Non sono mai corso dietro ai soldi, volevo soltanto i miei. Nessuna preventiva idea di abbandonarlo. Era la mia casa. Promisi di rinnovare il contratto per 5 anni con il clan, senza avere un soldo, se non la promessa che i dischi mi sarebbero stati pagati. Questo non accadde e andai via». Fece la canzone Come Adriano: «Questo ragazzo della via Gluck no, non si può imitare, / non puoi toccare chi sta più su...». Embrionale polemica? «Ma questa canzone non era polemica, era una dedica vera, che sentivo. È del 1966. Eravamo ancora amici. È vero che Celentano non si può imitare». Dopo il contenzioso legale, vi siete più parlati? «No. L’ultima volta l’ho visto nel 1974, in quell’aula di tribunale».Tentativi di riconciliazione? «No, ma da parte mia sono qui che aspetto qualsiasi tipo di proposta, vediamo. Io posso dare solo la mia disponibilità, visto oltretutto che ho ragione. In vari libri ho raccontato la verità e nessuno mi ha querelato. So per certo che Adriano ha il primo. Perché non si fa vivo?». E se si facesse vivo, facendo un primo passo verso una pacificazione? «Ma non c’è nemmeno bisogno che dica “ho sbagliato”, tanto lo sa che ha sbagliato. Basta che mi proponga di chiudere questa situazione e di passare questi ultimi anni in pace. I cinque anni più importanti della sua storia artistica sono stati quelli del clan. Perché non ne parla mai, oltre a dire che faceva l’orologiaio e abitava in via Gluck?».Beh, ma adesso insiste lei! «Migliaia di fan aspettano che facciamo pace. A ogni mio concerto, molti dicono: “Ma quand’è che fate pace con Celentano, lo aspettiamo tutti”».Ha composto evergreen come L’immensità e Pregherò. Mantiene l’afflato religioso?«Ormai sono secolarizzato, un cattolico-cristiano per abitudine, diciamo». L’ha perso o no? «Un po’ forse l’ho perso, perché mi guardo allo specchio, mi faccio delle domande, e mi do risposte che non collimano con ciò che mi vorrebbe insegnare la Chiesa. Insomma sono cristiano e cattolico a modo mio». Crede in Dio?«Credo in un’entità superiore, ma non gli voglio dare un nome, mi sembrerebbe irrispettoso». Supponga di incontrare Adriano per strada. «Se lo incontrassi casualmente camminando, andrei avanti per la mia strada, a meno che lui non avesse l’umiltà di dire “ciao Don Backy, vogliamo parlare un pochetto io e te?”. Se mi chiedesse un incontro, più che volentieri, così parliamo, lui dice le sue e io le mie». Se magari trovaste il modo per fare un costruttivo passo reciproco, potreste forse ritrovarvi in Paradiso...«Non credo. Nel Paradiso lui ha detto che ha un posto accanto a Dio Padre e ha già dei progetti, per cui non ci vedremmo. Credo che, almeno al primo colpo, io non andrò in Paradiso e farò qualche milione di anni di Purgatorio».
Mahmoud Abu Mazen (Getty Images)
(Guardia di Finanza)
I Finanzieri del Comando Provinciale di Varese, nell’ambito di un’attività mirata al contrasto delle indebite erogazioni di risorse pubbliche, hanno individuato tre società controllate da imprenditori spagnoli che hanno richiesto e ottenuto indebitamente oltre 5 milioni di euro di incentivi per la produzione di energia solare da fonti rinnovabili.
L’indagine, condotta dalla Compagnia di Gallarate, è stata avviata attraverso l’analisi delle società operanti nel settore dell’energia elettrica all’interno della circoscrizione del Reparto, che ha scoperto la presenza di numerose imprese con capitale sociale esiguo ma proprietarie di importanti impianti fotovoltaici situati principalmente nelle regioni del Centro e Sud Italia, amministrate da soggetti stranieri domiciliati ma non effettivamente residenti sul territorio nazionale.
Sulla base di tali elementi sono state esaminate le posizioni delle società anche mediante l’esame dei conti correnti bancari. Dall’esito degli accertamenti, è emerso un flusso finanziario in entrata proveniente dal Gestore dei Servizi Energetici (GSE), ente pubblico responsabile dell’erogazione degli incentivi alla produzione di energia elettrica. Tuttavia, le somme erogate venivano immediatamente trasferite tramite bonifici verso l’estero, in particolare verso la Spagna, senza alcuna giustificazione commerciale plausibile.
In seguito sono state esaminate le modalità di autorizzazione, costruzione e incentivazione dei parchi fotovoltaici realizzati dalle società, con la complicità di un soggetto italiano da cui è emerso che le stesse avevano richiesto ad un Comune marchigiano tre diverse autorizzazioni, dichiarando falsamente l’installazione di tre piccoli impianti fotovoltaici. Tale artificio ha consentito di ottenere dal GSE maggiori incentivi. In questi casi, infatti, il Gestore pubblico concede incentivi superiori ai piccoli produttori di energia per compensare i maggiori costi sostenuti rispetto agli impianti di maggiore dimensione, i quali sono inoltre obbligati a ottenere l’Autorizzazione Unica Ambientale rilasciata dalla Provincia. In realtà, nel caso oggetto d’indagine, si trattava di un unico impianto fotovoltaico collegato alla stessa centralina elettrica e protetto da un’unica recinzione.
La situazione è stata segnalata alla Procura della Repubblica di Roma, competente per i reati relativi all’indebita erogazione di incentivi pubblici, per richiedere il sequestro urgente delle somme illecitamente riscosse, considerati anche gli ingenti trasferimenti verso l’estero. Il Pubblico Ministero titolare delle indagini ha disposto il blocco dei conti correnti utilizzati per l’accredito delle somme da parte del GSE e il vincolo su tutti i beni nella disponibilità degli indagati fino alla concorrenza di oltre 5 milioni di euro.
L’attività della Guardia di Finanza è stata svolta a tutela del corretto impiego dei fondi pubblici al fine di aiutare la crescita produttiva e occupazionale. In particolare, l’intervento ispettivo ha permesso un risparmio pari a ulteriori circa 3 milioni di euro che sarebbero stati erogati dal GSE fino al 2031 alle imprese oggetto d’indagine.
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Viktor Orbán e Giorgia Meloni a Roma (Ansa)
Giorgia Meloni (Getty Images)