2024-12-16
«Gruppo Ferruzzi espropriato dal connubio tra finanza e pm»
Carlo Sama (Imagoeconomica)
L’ex manager Carlo Sama: «Fu smembrato un colosso pioniere delle tecnologie green coniugate con lo sviluppo. Ora ci troviamo regole Ue che mettono le imprese in ginocchio».«Il nostro era un polo industriale da 50.000 miliardi, con decine di dipendenti in tutto il mondo: avevamo pronto un piano per salvarlo. Invece banche e procure ci hanno messo sul lettino della sala operatoria: siamo stati smembrati, e gli organi venduti all’estero. È stato un gigantesco esproprio, che ha danneggiato anche il Paese». Carlo Sama, manager del colosso agroalimentare Ferruzzi Montedison, ripercorre nel libro La caduta di un impero i fasti della multinazionale italiana travolta da Tangentopoli: «C’erano aziende messe molto peggio. Al tempo eravamo i pionieri delle tecnologie green coniugate con lo sviluppo. Oggi? Ci ritroviamo con regole europee ideologiche, che hanno messo l’industria in ginocchio».Per i più giovani: vogliamo ricordare cos’era il gruppo Ferruzzi?«Tutto iniziò a Ravenna con Serafino Ferruzzi, campione dell’agrindustria, nonché il più grande trader di cereali del mondo. Un uomo la cui fortuna fu scoperta dai media solo alla sua morte, quando precipitò con il suo aereo a Forlì. Possedeva un milione di ettari di terre agricole in tutto il mondo, era il più grande proprietario di silos in Europa, con la flotta cargo più importante del continente». Un’azienda che raggiunse l’apice con la gestione di Gardini. «Eravamo l’orgoglio italiano nel mondo. Una realtà inimmaginabile oggi. Leader nello zucchero, la soia, le plastiche, le assicurazioni, i farmaci, i fertilizzanti. Non solo. Con Gardini negli anni Ottanta avevamo immaginato una “chimica verde”, per ricavare energia dalle materie prime agricole. Un’intuizione che precorreva i tempi». Parla anche dei biocarburanti?«La Ferruzzi, che aveva i capitali per farlo, propose alla Commissione europea di realizzare diversi impianti di etanolo in Europa. L’etanolo poteva essere miscelato alla benzina, rendendola più pulita e, nello stesso tempo, l’Europa avrebbe potuto ridurre in parte la sua dipendenza dall’estero per il petrolio. Avremmo potuto fare un passo importante verso l’indipendenza energetica. Immaginate cosa sarebbe l’Italia se oggi ci fosse ancora Ferruzzi-Montedison». Trent’anni dopo, siamo alle prese con il Green deal europeo. «L’Europa si è data delle regole ambientali molto esigenti. È evidente che i dirigenti europei, negli ultimi anni, hanno strizzato l’occhio ai movimenti ambientalisti più estremi. Una scelta più tattica che strategica. Le regole green sono state scritte dai vari commissari europei al fine di mantenere consenso politico all’interno dei singoli Paesi di provenienza: non si sono affatto interessati allo sviluppo economico, o ai contraccolpi industriali derivanti dalle loro scelte. È stato un gigantesco errore di valutazione, che ha portato all’indebolimento estremo del tessuto produttivo europeo, e alla distruzione di competitività e posti di lavoro. L’automotive è in ginocchio, ed è incredibile pensare che un colosso come Volkswagen sia ridotto alla canna del gas. Nelle stanze del potere europeo pensavano di tener testa alla Cina: è accaduto il contrario. Sarà la Cina a seppellire noi».Addirittura?«Ho visto sul giornale la pubblicità dell’auto elettrica cinese. Noi europei impallidiamo di fronte a certa tecnologia, inarrivabile. Il problema dell’auto elettrica non è solo il costo, ma anche - come diceva Marchionne - l’impatto ambientale in tutto il suo ciclo di vita. Senza contare che in Europa non abbiamo infrastrutture per produrla, non ci sono investimenti sulle stazioni di ricarica e non possiamo colmare queste lacune dalla sera alla mattina. Per questo penso che la mobilità in auto elettrica sia null’altro che un sogno effimero». Si discute molto sull’opportunità di rendere più flessibile il Green deal. I parametri da rispettare sulla decarbonizzazione vanno rivisti in fretta? «Assolutamente sì, servono regole meno ideologiche e più pratiche. Non possiamo essere rigidi con i cittadini europei e lassisti con il resto del mondo, che comunque vada continuerà a sbattersene delle regole europee. Occorre insomma ristabilire un principio di concorrenza, che oggi è sbilanciata a favore dell’estero, mentre gli europei ne escono vessati».E la tutela dell’ambiente?«Gli ambientalisti devono mettersi l’anima in pace: l’unica strada per noi, consiste nel nucleare moderno e sicuro, possibilmente sotto l’egida di una ricerca europea che garantisca sicurezza. Finora, invece, l’unica cosa davvero “atomica” che si è vista in Italia è stata l’ipocrisia. Ci lamentiamo perché siamo deficitari in materia energetica, però abbiamo venduto Edison ai francesi, dai quali paradossalmente acquistiamo energia. Tutto nel disinteresse totale della politica e con buona pace dei progetti industriali del Paese». Però il gruppo Ferruzzi nei primi anni Novanta era anche fortemente indebitato, in conseguenza delle scommesse azzardate di Gardini. «Il gruppo era industrialmente sano. Il margine operativo, nel 1992, era di 2.300 miliardi di lire. Certo, l’azienda aveva problemi di natura finanziaria, ma avevamo predisposto un grande piano di ristrutturazione con Goldman Sachs, per ripianare i debiti dismettendo le attività non strategiche. Invece, dalla sera alla mattina, furono bloccati i conti correnti delle società del Gruppo Ferruzzi, come fossimo in default. E furono bloccati non dalla magistratura o dalla Banca d’Italia, ma in forza di un ordine illegittimo impartito da Enrico Cuccia agli amministratori delegati delle tre banche che erano sotto il suo controllo: Comit, Banca di Roma e Credito Italiano».E poi?«In virtù di quel blocco, nessun pagamento era più possibile, neppure gli stipendi ai dipendenti, né in Italia né all’estero. Ma la cosa più grave è che furono bloccati i conti di società, italiane ed estere, che erano in attivo, e per le quali nessun blocco si poteva giustificare. Poi l’azienda venne fatta a pezzi. È stato il più grande esproprio della storia del Paese». Architettato da chi?«Non voglio parlare di complotto. Più probabilmente, vi fu un accordo non scritto tra i due poteri forti dell’epoca, Mediobanca e la procura di Milano. Due poteri che si annusarono, ma non si dichiararono guerra. Un connubio tra il sistema finanziario e il sistema giudiziario. Le indagini dei magistrati furono utilizzate da Cuccia per screditare i Ferruzzi davanti all’opinione pubblica, e giustificare l’esproprio».E le altre realtà industriali?«Dopo che Cesare Romiti andò in procura a fare qualche piccola ammissione sulle tangenti, la Fiat uscì dal raggio d’azione delle procure. E da quel momento i grandi giornali si misero al servizio dei pm. Lo tsunami di Mani Pulite gettò sul banco degli imputati la preda più vulnerabile a disposizione, il gruppo Ferruzzi, che non aveva mai fatto parte del “salotto buono” della finanza. La vicenda Enimont, la narrazione della “madre di tutte le tangenti”, distrassero gli italiani dai problemi giudiziari e dalla crisi strutturale dei grandi gruppi del capitalismo italiano, a cominciare da Fiat, per non parlare dei moribondi gruppi De Benedetti e Pirelli».Anche lei è finito nel turbinio degli arresti, condannato a tre anni - scontati ai servizi sociali - ma assolto dalle accuse di falso in bilancio nelle aziende di famiglia. Cosa ricorda di Tangentopoli?«Per le accuse non c’era uno straccio di elemento. Tutto era basato sulla delazione: confessioni estorte dai magistrati con il metodo del carcere preventivo, che aveva il potere di far raccontare anche ciò che non si sapeva. Ricordo persone venute da me piangendo disperatamente, in cerca di qualcosa da poter dare in pasto ai giudici per non finire in cella. Il carcere preventivo è stato qualcosa di atroce, una gogna ma anche un sistema di tortura. Aveva ragione Borrelli, quando, anni dopo, disse: “Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”».E oggi?«Ho la coscienza a posto. Gardini era un grande imprenditore e il suo tentativo di inseguire un sogno come Enimont era basato non su interessi personali, ma sulla volontà di creare valore per il gruppo e per il Paese. Ma Gardini non aveva fatto i conti con i suoi nemici, e con quella sua anima da pokerista pronto a vincere ad ogni costo. Col rischio di perdere tutto».
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