2022-08-23
Fan campagna elettorale pure sulla giovane uccisa
L’attentato alla figlia di Aleksandr Dugin (per cui Mosca accusa Kiev) usato per bastonare i presunti fascisti italiani. Ormai la linea culturale dei progressisti italici si riassume nel vilipendio di cadavere. E forse non potrebbe essere altrimenti, dato che sono i principali rappresentanti di una cultura morente. Saltuariamente, tuttavia, un filo di pudore non guasterebbe, soprattutto se di mezzo ci sono attentati e omicidi. A quanto risulta, nemmeno il fatto che sia stata uccisa una giovane donna - Darya Dugina, trentenne - ha impedito ai brillanti sinistrorsi di banchettare sulle disgrazie altrui. Sull’assassinio dell’attivista figlia del filosofo russo Aleksandr Dugin di ombre ce ne sono ancora tante, ma ugualmente le migliori penne della stampa liberal si sono lanciate in analisi elevatissime. Vogliono fare mostra, i nostri eroi, di aver capito tutto, ma riescono solo a dimostrare di non aver compreso niente, e di non sapere neppure di che cosa stiano parlando. Non c’è mezzo editorialista (se si esclude Mara Morini sul Domani) che abbia dato prova di avere sfogliato almeno una volta in vita sua un libro di Dugin, figuriamoci se sono stati in grado di leggere qualche articolo della povera Darya. Prendiamo Ezio Mauro. Prima, con spietato cinismo, ha sorvolato sull’attentato che ha incenerito la ragazza, trattandolo come un fatto politico. Poi (di nuovo, senza esibire un grammo di compassione per un padre a cui hanno brutalmente strappato la figlia) si è messo a spiegare come Dugin sia «l’ideologo di Putin», «l’anima del potere putiniano». Ora, ripetiamolo per l’ennesima volta: Dugin non è e non ha mai dichiarato di essere il Rasputin di Putin o il suo consigliere. Anzi, lo ha anche ripetutamente criticato, così come negli ultimi tempi ha espresso in numerosi articoli (alcuni dei quali raccolti nel libro Spasibo Russia realizzato da Maurizio Murelli grazie anche al lavoro di Lorenzo Maria Pacini) le sue perplessità sui limiti e le debolezze della Russia attuale. Dugin non è nemmeno una sorta di eminenza grigia dietro a Dmitri Medvedev, come Mauro sembra suggerire: anche di recente, il filosofo ha utilizzato parole non troppo lusinghiere per descrivere l’ex presidente della Federazione Russa, presentandolo più o meno come un globalista che fa appello all’orgoglio russo solo per ritagliarsi uno spazio politico di rilievo. Ma troppe e troppo scontate sono le castronerie proferite dai luminari della Penisola per smentirle tutte. Anna Zafesova, per dire, sulla Stampa cucina un minestrone in cui galleggiano metallari, rune celtiche, SS, templari e altre amenità al fine di dipingere il «sacerdote del putinismo» come un aspirante genocida che vuole distruggere l’Ucraina e tutto l’Occidente. In fondo, tutti i degradanti articoli usciti ieri hanno un retrogusto comune. Sono poco o nulla interessati a Dugin, all’omicidio di sua figlia e alle ricadute che potrebbe avere sulla crisi ucraina. In compenso sono molto attenti a utilizzare l’attentato in chiave elettorale italiana. Già: perfino la morte di Darya diventa l’occasione per allestire il consueto circo sulle «trame con la destra italiana», come le definisce Jacopo Iacoboni sulla Stampa. Del resto, chiarisce Rosalba Castelletti su Repubblica, è dai pulpiti duginiani che «partono le tesi alt-right, Qanon, suprematiste, complottiste, sovraniste e no vax rilanciate ad esempio in Italia da siti come Imolaoggi o come Visione Tv». Ora, a parte che Dugin ha dedicato un intero capitolo del suo libro sul Grande Reset a demolire Qanon, mentre nella Quarta teoria politica inveisce a ripetizione contro il razzismo e il suprematismo, davvero qui il problema è Imolaoggi? Le preoccupazioni dei media italiani sono sostanzialmente due. La prima è quella di ribadire che l’attentato che ha ucciso Darya Dugina non ha matrice ucraina (come facciano a stabilirlo con certezza non si sa). La seconda è quella di snocciolare episodici incontri, spesso risalenti a un’era politica fa, tra Aleksandr Dugin e alcuni esponenti italiani. Ovviamente il solito Matteo Salvini - scomodando Gianluca Savoini, il che non guasta mai - per arrivare fino a Giorgia Meloni, che Dugin ha addirittura citato in una intervista. Nel mezzo c’è il più classico dei calderoni parafascisti: CasaPound, Diego Fusaro, Simone Di Stefano e pure Mario Adinolfi, giusto per infamarne uno nuovo. Che poi alcuni dei movimenti tirati in ballo siano in aspra polemica con Dugin non conta: qui bisogna cogliere l’occasione per dare al russo del nazista in modo che possano essere accusati di nazismo anche i suoi presunti amici italiani. Sembra che sia del tutto sdoganata l’idea che al pensatore sgradito si possa serenamente ammazzare una figlia, che agli intellettuali «nemici» possa capitare ogni disgrazia, anche la più terribile. Dugin, che è uomo di pensiero e di scrittura e non un generale, un miliziano o un assassino seriale, viene trattato come un demonio sovranista. Viene dato per scontato che egli meriti niente di meno che la morte, e lo stesso vale per la vittima, la giovane e patriottica Darya. Per mesi Repubblica e soci ci hanno proposto interviste agli eroici combattenti nazionalisti ucraini, teorizzando che la lettura di Kant li avesse purificati da ogni eventuale macchia e dal passato nazistoide. Ma per il presunto guru di Putin la pena dev’essere capitale, e c’è anche qualche imbecille che festeggia sui social, rettile fra gli sciacalli. È un orrore, questo, tipico della guerra moderna, totale e ideologica, in cui pure il rispetto del nemico viene a mancare, perché subentrano la demonizzazione e l’odio senza quartiere. Un odio che viene esteso a un intero universo culturale, compresi coloro che non nutrono alcuna simpatia per Putin. È triste constatarlo, ma alla fine - per quanti sforzi si facciano onde evitare i luoghi comuni e dare fiducia a chi ha una diversa visione del mondo - la mente progressista funziona sempre in identico modo: chi non sta con noi è fascista, e l’unico fascista buono è un fascista morto.
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