2024-03-16
Prima del disastro, calmate l’esagitato dell’Eliseo
Emmanuel Macron (Getty Images)
«Dobbiamo essere pronti a questa escalation», ha detto intervistato dalla tv francese, «e noi siamo pronti a questa escalation». Per chi non avesse inteso, monsieur le président ha ribadito il concetto una seconda volta, aggiungendo di essere pronto a prendere decisioni che non facciano vincere la Russia. Certo, Macron è in campagna elettorale e visto che in patria le sue quotazioni sono al minimo, spera di rifarsi in Europa, agitando lo spauracchio di una vittoria di Putin su Kiev. Fosse così si potrebbe anche chiudere un occhio, lasciando che l’uomo che sognava di rappresentare il rinascimento transalpino si bruci con le sue stesse mani o, come in questo caso, con le sue stesse parole. Ma purtroppo la fregola di guadagnare visibilità anche con posizione estreme, unita alla voglia di mostrare il petto pur di apparire macho, rischia di fare brutti scherzi, soprattutto se non si ha a che fare con i gilet gialli o i ferrovieri, ma con un dittatore che ha a disposizione parecchie bombe atomiche e ogni tanto minaccia di farne uso qualora si trovasse in difficoltà. Ciò a cui stiamo assistendo da un paio d’anni non è un videogioco, e nemmeno un kolossal dove il bene deve trionfare sul male. Per due anni ci hanno raccontato che l’Ucraina non può essere lasciata sola e che aiutandola si difende il principio che nessuno può essere aggredito e che la libertà di un Paese è sacra. Peccato che il mondo sia pieno di Paesi che fanno la guerra ad altri e di regimi che limitano la libertà dei propri cittadini. Non sta scritto da nessuna parte che il bene possa sempre trionfare sul male: né a suon di miliardi, né dall’alto di una presupposta superiorità morale e democratica. Perciò non è il caso di scherzare, né di sfruttare ciò che sta succedendo in Ucraina (che l’Europa ha illuso e a cui un domani non escludo che possa voltare le spalle) per regolare i propri conti interni o accreditarsi nella Ue in vista delle prossime elezioni. Oggi nessuno sa dire quale sia la contabilità delle vittime in una guerra che va avanti da due anni. Si parla di almeno mezzo milione di morti, 350.000 dei quali sarebbero russi e il resto ucraini. Se le cifre fossero vere, parliamo di oltre 6.000 caduti al mese, ovvero 200 al giorno. Provate a immaginare quanti soldati europei potrebbero tornare cadaveri qualora entrassimo in guerra. Dieci, venti, cinquanta o cento. E dopo di che interrogatevi sugli impatti che tutto ciò avrebbe sull’opinione pubblica. L’America scappò dal Vietnam perché dopo anni di guerra il Paese non era più in grado di sopportare le bare che rientravano dal fronte. Quella lunga scia di morti, ripresa dalle telecamere, non era più accettabile per la maggioranza degli americani. Perché questa è la differenza fra una democrazia e un regime: la prima non può nascondere le vittime e non può ignorare il sentimento dei cittadini, mentre il secondo può fingere che i morti non ci siano e imbavagliare l’informazione. Dunque, Putin può usare i giovani russi, prelevati dalle lande più disperse del Paese, e obbligarli a combattere. Ma l’Europa no. Può sopportare un tributo di sangue fino a che le missioni militari sono camuffate dietro le operazioni di peace keeping, e comunque con un numero contenuto di vittime.
Perciò è importante contenere l’eccitazione di politici come Macron, i quali magari pensano che la loro industria bellica, in caso di conflitto, potrebbe guadagnare e qualche vantaggio potrebbero trarne anche loro, risorgendo nei sondaggi dopo mesi di caduta libera. Oggi parlare di guerra appare solo una mossa disperata. E bene ha fatto, per una volta, Sergio Mattarella a citare la Costituzione italiana, che ripudia la guerra. Così come è stato sensato l’intervento di Antonio Tajani, il quale da ministro degli Esteri, ma anche da esponente del Ppe, ha ricordato che inviare truppe europee in Ucraina significa scatenare la terza guerra mondiale. Dopo di che sia Mattarella sia il segretario di Forza Italia devono porsi il problema di come calmare l’esagitato inquilino dell’Eliseo al quale noi italiani siamo legati da un trattato di collaborazione reciproca e con il quale finora si è guidata la Ue.
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C’è qualcuno in Europa che fa il tifo per la guerra. Ne abbiamo scritto giorni fa, quando il premier polacco Donald Tusk, uno dei beniamini di Bruxelles, ha parlato di situazione prebellica, quasi che i Paesi della Ue si dovessero preparare a un conflitto. Al primo ministro di Varsavia, nelle stesse ore si era aggiunto Emmanuel Macron, che all’improvviso aveva proposto l’invio di soldati francesi in Ucraina. Ieri però, l’inquilino dell’Eliseo è tornato a rincarare la dose, quasi non vedesse l’ora di spedire truppe europee al fronte.«Dobbiamo essere pronti a questa escalation», ha detto intervistato dalla tv francese, «e noi siamo pronti a questa escalation». Per chi non avesse inteso, monsieur le président ha ribadito il concetto una seconda volta, aggiungendo di essere pronto a prendere decisioni che non facciano vincere la Russia. Certo, Macron è in campagna elettorale e visto che in patria le sue quotazioni sono al minimo, spera di rifarsi in Europa, agitando lo spauracchio di una vittoria di Putin su Kiev. Fosse così si potrebbe anche chiudere un occhio, lasciando che l’uomo che sognava di rappresentare il rinascimento transalpino si bruci con le sue stesse mani o, come in questo caso, con le sue stesse parole. Ma purtroppo la fregola di guadagnare visibilità anche con posizione estreme, unita alla voglia di mostrare il petto pur di apparire macho, rischia di fare brutti scherzi, soprattutto se non si ha a che fare con i gilet gialli o i ferrovieri, ma con un dittatore che ha a disposizione parecchie bombe atomiche e ogni tanto minaccia di farne uso qualora si trovasse in difficoltà. Ciò a cui stiamo assistendo da un paio d’anni non è un videogioco, e nemmeno un kolossal dove il bene deve trionfare sul male. Per due anni ci hanno raccontato che l’Ucraina non può essere lasciata sola e che aiutandola si difende il principio che nessuno può essere aggredito e che la libertà di un Paese è sacra. Peccato che il mondo sia pieno di Paesi che fanno la guerra ad altri e di regimi che limitano la libertà dei propri cittadini. Non sta scritto da nessuna parte che il bene possa sempre trionfare sul male: né a suon di miliardi, né dall’alto di una presupposta superiorità morale e democratica. Perciò non è il caso di scherzare, né di sfruttare ciò che sta succedendo in Ucraina (che l’Europa ha illuso e a cui un domani non escludo che possa voltare le spalle) per regolare i propri conti interni o accreditarsi nella Ue in vista delle prossime elezioni. Oggi nessuno sa dire quale sia la contabilità delle vittime in una guerra che va avanti da due anni. Si parla di almeno mezzo milione di morti, 350.000 dei quali sarebbero russi e il resto ucraini. Se le cifre fossero vere, parliamo di oltre 6.000 caduti al mese, ovvero 200 al giorno. Provate a immaginare quanti soldati europei potrebbero tornare cadaveri qualora entrassimo in guerra. Dieci, venti, cinquanta o cento. E dopo di che interrogatevi sugli impatti che tutto ciò avrebbe sull’opinione pubblica. L’America scappò dal Vietnam perché dopo anni di guerra il Paese non era più in grado di sopportare le bare che rientravano dal fronte. Quella lunga scia di morti, ripresa dalle telecamere, non era più accettabile per la maggioranza degli americani. Perché questa è la differenza fra una democrazia e un regime: la prima non può nascondere le vittime e non può ignorare il sentimento dei cittadini, mentre il secondo può fingere che i morti non ci siano e imbavagliare l’informazione. Dunque, Putin può usare i giovani russi, prelevati dalle lande più disperse del Paese, e obbligarli a combattere. Ma l’Europa no. Può sopportare un tributo di sangue fino a che le missioni militari sono camuffate dietro le operazioni di peace keeping, e comunque con un numero contenuto di vittime.Perciò è importante contenere l’eccitazione di politici come Macron, i quali magari pensano che la loro industria bellica, in caso di conflitto, potrebbe guadagnare e qualche vantaggio potrebbero trarne anche loro, risorgendo nei sondaggi dopo mesi di caduta libera. Oggi parlare di guerra appare solo una mossa disperata. E bene ha fatto, per una volta, Sergio Mattarella a citare la Costituzione italiana, che ripudia la guerra. Così come è stato sensato l’intervento di Antonio Tajani, il quale da ministro degli Esteri, ma anche da esponente del Ppe, ha ricordato che inviare truppe europee in Ucraina significa scatenare la terza guerra mondiale. Dopo di che sia Mattarella sia il segretario di Forza Italia devono porsi il problema di come calmare l’esagitato inquilino dell’Eliseo al quale noi italiani siamo legati da un trattato di collaborazione reciproca e con il quale finora si è guidata la Ue.
Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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L’obiettivo è evitare la delocalizzazione della produzione e contrastare l’effetto dei costi energetici elevati sulla competitività europea. La misura riguarda principalmente i settori dell’acciaio, della chimica e dell’automotive, fortemente influenzati dalle bollette elettriche, che in Germania risultano quasi tre volte superiori rispetto agli Stati Uniti. Le autorità tedesche hanno già avviato le trattative con la Commissione Europea per ottenere la compatibilità con le norme sugli aiuti di Stato. Per la Slovacchia, strettamente integrata nelle filiere tedesche, la mossa può rappresentare una sfida competitiva: se le imprese tedesche recuperano tranquillità sui costi dell’energia, le aziende slovacche del comparto manifatturiero esportatrici potrebbero trovarsi a dover far fronte a maggiori pressioni sui costi. Lo stesso potrebbe accadere in Italia.
Prima della Germania il Regno Unito, dove un “price cap” è stato stabilito nel 2019 dall’allora governo May. Dal gennaio 2019 l’Ofgem (l’equivalente della nostra Arera) applica un tetto alla spesa massima dei consumatori di trimestre in trimestre. Ma attenzione: non a tutti i clienti, bensì solo ai sottoscrittori delle “standard variable tariffs”, cioè delle tariffe a prezzo variabile molto basilari, dedicate ai clienti meno abituati a cercare tariffe sul mercato libero, e per questo da anni con lo stesso operatore che a volte approfitta di questo immobilismo applicando prezzi piuttosto elevati.
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