2021-06-11
La caccia agli asintomatici: un’opzione sconosciuta alla task force di Speranza
Roberto Speranza (Ansa-iStock)
Secondo i verbali, i consulenti scelti per combattere la pandemia hanno sottovalutato il tema, anche se ricercatori internazionali ne avevano già evidenziato l'importanza.Tamponi agli asintomatici? Sì, no, forse. Tra i contenuti spiazzanti dei verbali della task force anti Covid istituita nel gennaio 2020 dal ministro della Salute Roberto Speranza, resi noti solo martedì dopo oltre un anno di pressioni, emergono riscontri su un dilemma che, come noto, ha tenuto banco per mesi nel dibattito italiano e non solo: la contagiosità delle persone positive al virus ma asintomatiche. Un tema cruciale per isolare la catena del contagio, ma che gli esperti chiamati ad organizzare la risposta italiana alla pandemia hanno a lungo sottovalutato, pur avendo riscontri che andavano in senso opposto.La prova viene dal verbale del 24 febbraio del Comitato tecnico scientifico. Al termine della seduta di quel giorno, «il Cts evidenzia che in assenza di sintomi il test non è giustificato, in quanto non fornisce un'informazione indicativa ai fini clinici ai sensi delle definizioni di “caso"». Questa posizione, precisa il verbale, riguarda il quinto punto trattato nella riunione, ossia quello della «valutazione dei casi nei quali è opportuno eseguire tamponi». Insomma, il 24 febbraio il Cts riteneva che i tamponi ai possibili positivi asintomatici fossero «non giustificati». Per forza, si dirà, dato che allora non si aveva notizia della contagiosità degli asintomatici, quindi non si poteva immaginare che i test sarebbero stati utili. E invece le cose non stanno proprio così, e ora spieghiamo perché.Tanto per cominciare perché proprio il 24 febbraio l'Oms diffondeva il Report of the WHO-China Joint Mission on Coronavirus Disease 2019 (Covid-19), un documento in cui, a pagina 21, si esortava a «espandere immediatamente la sorveglianza» attraverso screening che includessero persone anche solo reduci da una «recente esposizione» al virus. Quindi mentre il Cts riteneva non «opportuno eseguire tamponi» prudenziali, l'Oms esortava a fare precisamente l'opposto. Non è finita. Scorrendo i verbali della task force, ci si imbatte in un passaggio molto interessante riguardante proprio i tamponi agli asintomatici. Sembra che sull'argomento gli esperti non fossero proprio tutti completamente ignari del comportamento da tenere, anzi. Lo si apprende leggendo le carte del 12 febbraio. Quel giorno uno dei componenti della task force definisce «gravissimo» il fatto di «non notificare pazienti positivi asintomatici», dal momento che «ciò renderebbe inattendibili tutte le valutazioni sulla diffusione del virus». A proferire queste parole, attenzione, non è uno qualsiasi, ma Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero della Salute. Dunque già nella prima metà di febbraio qualcuno aveva fatto presente a Speranza (e al governo guidato da Giuseppe Conte) la necessità di tamponare gli asintomatici, opzione che sarebbe stato «gravissimo» non attivare. Chissà, magari se fosse seguito il consiglio, alcuni pazienti positivi sarebbero stati individuati prima che il virus di manifestasse prepotentemente a Codogno. E magari si sarebbe potuta evitare almeno una parte del caos seguito alla comparsa dei primi contagiati italiani. Va detto che i verbali della task force, e quelli del 12 febbraio non fanno eccezione, sono assai scarni. Ma ci sono ottime ragioni per immaginare che Ruocco, nella sua esortazione a conteggiare anche i positivi asintomatici al virus, non parlasse affatto sulla base di sensazioni, bensì basandosi su evidenze ben note in quei giorni agli addetti ai lavori. In effetti, già il 30 gennaio 2020 il New England Journal of Medicine - non un giornaletto, ma una delle più autorevoli pubblicazioni di medicina generale del pianeta - riportava una lettera a firma di un team di studiosi tedeschi che documentava e descriveva un caso di trasmissione del coronavirus da parte di un paziente asintomatico; l'intervento si concludeva richiamando l'attenzione proprio su questo, e cioè sul «fatto che le persone asintomatiche siano potenziali fonti di infezione». La conferma che quelle considerazioni non fossero avventate giunse dopo poche ore sulle pagine di Novel Coronavirus(2019-nCoV) Situation Report - 12, resoconto sulla situazione che l'Oms diffuse in data 1° febbraio 2020, in cui si dava esplicitamente conto del fatto che, «dei 132 casi di coronavirus identificati al di fuori della Cina, sette» risultavano essere «asintomatici». Ma se quei sette erano «asintomatici» come diamine potevano essere stati scoperti? Sottoponendoli a dei controlli benché non mostrassero sintomi, ovvio.Questo significa che già una decina di giorni prima che Ruocco - senza, ahinoi, successo - suonasse il campanello d'allarme in seno alla task force, i rischi legati alla circolazione e alla contagiosità dei pazienti asintomatici erano conosciuti, perfino documentati. Eppure ancora il 24 febbraio, come abbiamo visto, il Cts non solo faceva finta di nulla, ma si pronunciava negativamente sull'opportunità di effettuare tamponi agli asintomatici. Con tanti saluti al principio di precauzione e a ciò che la letteratura medica e gli stessi piani alti del ministero sapevano. Se questa era la cabina di regia che doveva pilotarne la gestione italiana, non ci si può meravigliare del fatto che la prima ondata pandemica sia andata com'è andata.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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