2022-03-31
Bruce Willis si ritira per afasia: con lui perde la voce anche l’eroe tradizionale
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La malattia dell’attore assume il carattere di un simbolico addio a una certa idea del maschio alfa, magari pieno di difetti ma comunque coraggioso e risoluto. Al suo posto, ci resta al massimo Will Smith, che difende la moglie ma poi scoppia in lacrime.Il fatto che Bruce Willis sia stato colto da afasia, tanto da dover abbandonare le scene, è a suo modo un evento simbolico che cattura lo spirito del tempo: l’eroe tradizionale, che è anche un maschio bianco di potere quasi settantenne, perde la parola, resta muto, non ha più nulla da dire. L’ex marito di Demi Moore è in effetti l’ultimo macho di Hollywood, l’incarnazione del maschio alfa, dell’uomo «che non deve chiedere mai», l’eroe imperfetto ma sempre al posto giusto e con la battuta pronta così tipico della cinematografia americana.Prendiamo il personaggio di John McLane, protagonista dei cinque film della serie Die Hard: a ben vedere è un tipo di eroe tipicamente americano, all’opposto delle caratteristiche british che per esempio rendono così caratteristico il personaggio di James Bond. McLane non è un agente segreto, non ha abilità o addestramenti particolari, né usa armi sofisticatissime. È un buon detective, ma sulla base di una sensibilità affinata per strada. Non è elegante, ma sboccato, trasandato, irriverente. Sa però sempre quello che va fatto, è coraggioso, altruista, risolve le situazioni con maniere spicce, sa dare pugni, sa sparare. Ha una vita familiare incasinata, ma in fondo piace sempre alle donne in quanto maschio risoluto.Il personaggio finisce per essere replicato quasi identico in quella piccola perla del cinema d’azione che è L’ultimo boyscout, in cui Willis è Joseph Hallenbeck, un ex agente dei servizi segreti caduto in disgrazia e riciclatosi come detective privato, pur essendo a un passo dall'alcolismo e, di nuovo, con rapporti familiari disastrosi.Una tale predisposizione a incarnare l’eroe pop non poteva non solleticare il palato del re della riappropriazione postmoderna della cultura popolare: Quentin Tarantino. È così che Willis finisce in Pulp Fiction con il ruolo di Butch Coolidge, pugile corrotto, assoldato dal boss Marcellu Wallace per vendere un incontro, che però invece stravince, fregando il malavitoso, che ovviamente gliela giura. Sotto le sapienti mani di Tarantino, il carattere testosteronico del personaggio esplode in modo così eccessivo da risultare volutamente ironico, con il fotogramma di lui con la maglia sporca di sangue e la spada giapponese in mano a fare da manifesto per tutta un’estetica. L’ironia è del resto un tratto tipico del personaggio, che lo distanzia dai superuomini più seriosi alla Chuck Norris, ma non ne mette comunque in discussione la virilità (si tratta di una ironia confermativa, non decostruttiva, rispetto a una certa idea dell’eroe). Rispetto alle icone piatte, tutte d’un pezzo, Willis interpreta protagonisti pieni di problemi e limiti, che però non danno luogo a fragilità. E proprio su questa base venata di autoironia, Bruce Willis non poteva mancare in quell’esperimento ultra-macho, nostalgico ma senza prendersi sul serio, che è stato I mercenari - The Expendables, un film capace di mettere uno accanto all’altro Sylvester Stallone, Jason Statham, Mickey Rourke, Dolph Lundgren e Arnold Schwarzenegger. Il suo ritiro dalle scene, conseguente alla sua difficoltà di esprimersi, priva della voce anche un pezzo di immaginario. E allora ci resta solo il Will Smith dalla mano svelta visto alla notte degli Oscar. Ma siamo varie categorie sotto il livello del buon Bruce: già cornificato e umiliato in diretta tv in passato, Smith ridacchia alla battuta sulla moglie di Chris Rock, poi incrocia lo sguardo arcigno di lei, quindi assesta al comico quello schiaffo bizzarro e un po’ farlocco, e in seguito piange al microfono. Non è certo così che l’avrebbe risolta di John McLane.