2024-03-22
Per i giudici i boss controllavano l’azienda barese dei trasporti
L’Amtab assumeva come lavoratori interinali persone indicate dai clan: «Erano convinti di poterne disporre a loro piacimento».Più si scava nei documenti dell’inchiesta sugli intrecci tra mafia e politica con scambio elettorale e compravendita di voti in salsa barese e più saltano fuori le inquietanti rappresentazioni che i magistrati che hanno radiografato l’Amtab, l’azienda pubblica dei trasporti, hanno offerto ai giudici del Tribunale che l’hanno mandata in amministrazione giudiziaria. Il Viminale ha deciso di vederci chiaro e, per accertare quanto si sia diramato quello che i magistrati della Procura antimafia definiscono «un diffuso sistema di collusioni», il ministro Matteo Piantedosi ha nominato una commissione d’accesso. Gli inquirenti ritengono di aver «rilevato un effettivo asservimento di alcuni settori della vita amministrativa dell’ente (l’Amtab, ndr) alle esigenze del clan Parisi». Il problema sta tutto qui: «La gravità del fenomeno investigato appare ancor più rilevante se si considera che l’infiltrazione all’interno della più grande azienda municipalizzata della Puglia ha beneficiato di una tolleranza di fatto da parte dei suoi amministratori, che avrebbero dovuto predisporre un effettivo sistema di controlli piuttosto che assecondare gli interessi di una delle più potenti consorterie criminali della provincia di Bari». In sostanza, e questo è il punto che sembra richiamare più di tutti l’attenzione del ministero dell’Interno, i tentacoli della mala si sarebbero mossi indisturbati nella municipalizzata dei trasporti. Per gli uomini della banda Parisi l’Amtab era un fiore all’occhiello che, «oltre a rappresentare un personale tornaconto economico per gli esponenti del clan», afferma chi indaga, «si è rivelato un utile strumento per affermare prestigio e potere». Per loro, stando agli atti dell’inchiesta, la municipalizzata era diventata un «ufficio di collocamento» per amici e congiunti di affiliati. Compresi «parenti o soggetti legati» al capobastone Savino Parisi. E, così, Tommaso Parisi, il figlio del boss, secondo i giudici che hanno disposto l’amministrazione controllata dell’ente, sembra essere stato in grado di «disporre dell’Amtab, a proprio piacimento, al punto che non si preoccupava minimamente delle volontà/disposizioni del presidente del consigliere e in generale delle persone che, a differenza sua, hanno un ruolo ufficiale e formale nella società». La prova? Il responsabile dell’Area sosta si sarebbe talmente preoccupato per la reazione di uno degli uomini infiltrati da non riuscire a dormire e sarebbe arrivato ad anticipare che «piuttosto di trovarsi in situazioni analoghe l’anno seguente avrebbe rinunciato all’incarico». E se da una parte i reclutatori del clan si sarebbero mossi per incamerare assunzioni di persone che poi avrebbero ricambiato con il proprio voto, dall’altra emergono le interferenze di Giacomo Olivieri, avvocato ed ex consigliere regionale, ovvero l’uomo chiave dei presunti accordi con i mafiosi per portare in consiglio comunale, tramite l’ipotizzata compravendita di elettori, la candidata prescelta, Maria Carmen Lorusso (finita ai domiciliari), consigliere comunale eletto con il centrodestra e poi passato al centrosinistra a sostegno del sindaco dem Antonio Decaro (il quale, come ha svelato ieri La Verità, pur non essendo coinvolto nelle indagini viene citato spesso, insieme al governatore Michele Emiliano, nelle intercettazioni, ndr), anche nell’istituto di credito più radicato sul territorio pugliese: la Banca popolare di Bari. Secondo l’accusa, Olivieri avrebbe «fatto ricorso alla iniziale benevolenza di figure dirigenziali» della Banca popolare di Bari, «per ottenere l’erogazione di mutui e finanziamenti di ingente importo», al punto «da porre in essere condotte estorsive di cui sono state vittime alcune figure verticistiche della banca». Ed ecco uno degli episodi ricostruiti dall’accusa: quando l’istituto gli chiede la restituzione di un prestito da oltre 1 milione di euro, per non pagare Olivieri minaccia di diffondere un dossier, prospettando uno «scandalo mediatico». Il momento era molto delicato. Sia per Gianvito Giannelli che era in procinto di essere eletto presidente del consiglio d’amministrazione della banca, sia per lo stesso Olivieri che stava cercando di ottenere una linea di credito con un’altro istituto. Gli investigatori registrano una telefonata nella quale l’ex consigliere regionale afferma: «Non ci vediamo più se notificano il precetto... sarà guerra! Sarà guerra!». E, così, Giannelli si sarebbe sentito costretto «a non adempiere al mandato ricevuto dalla Cerved spa» per recuperare il credito. «Mi fanno un precetto?... gli faccio un culo a scimmia! Mediaticamente! [...] gli vado a vedere posizione per posizione, collegamento per collegamento, azione per azione... c’ho tutto il dossier!». L’intercettazione precede di soli due giorni l’assemblea dei soci per la nomina del nuovo cda. L’azione di Olivieri, stando alle accuse, colpisce nel segno: «Ad assemblea dei soci ultimata la banca invia una mail nella quale manifestava l’intenzione di esercitare l’opzione di riacquisto della posizione». La motivazione accampata dalla Popolare di Bari? «Un disguido». Il prosieguo delle azioni legali sarebbe quindi stato sospeso e Olivieri a quel punto si è ritrovato anche un’accusa di estorsione.
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