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2023-07-23
Bonaccini battezza la sua corrente. Malumori e bordate contro il segretario
Stefano Bonaccini (Ansa)
Il Grande Vecchio Romano Prodi acclamato come un papa. La nuova corrente che si spaccia per semplice ritrovo di «amici». Ex ministri, deputati, sindaci, consiglieri regionali e comunali pronti a sudare due giorni in un centro congressi pur di stringersi intorno al loro leader. Sullo sfondo, neppure tanto nascosto, l’obiettivo di logorare il segretario Schlein. Cesena ospita l’assemblea «Energia popolare», organizzata da Stefano Bonaccini e dalla sua area riformista, ed è subito parodia della vecchia Democrazia cristiana. Tutti avanti insieme per la riscossa contro «le destre», ma in una palude di distinguo e vecchie ruggini. Con Bonaccini che rilancia il campo largo, anzi larghissimo, con M5s, Terzo Polo e Verdi-Sinistra, ma fa sapere ai futuri alleati: «Senza di noi non andreste da nessuna parte».
In una marea di buonismi e promesse di reciproca collaborazione, la verità scappa detta all’avvocato Matteo Biffoni, ex deputato e oggi sindaco di Prato: «Cara segretaria è vero, forse non ti abbiamo vista arrivare… adesso però aspettiamo di vedere gli elettori». La corrente Bonaccini, pardon, area Bonaccini, si aspettava che l’effetto donna «più o meno chic più o meno nuova» portasse almeno una bella risalita nei sondaggi, invece si fatica sempre a tenere quota 20%. Il presidente dell’Emilia Romagna, però, indossa i guanti di velluto. Ci tiene a dire che «Energia popolare» non è una corrente, ma intanto in una platea di amministratori locali schiera Piero Fassino, Piero De Luca, Gianni Cuperlo, Pina Picierno, Stefania Pezzopane, Virginio Merola, Lorenzo Guerini, Graziano Delrio, Simona Malpezzi, Emanuele Fiano e Simone Uggetti, l’ex sindaco di Lodi uscito pulito da una brutta inchiesta per corruzione. Ma soprattutto, ieri a mezzogiorno, alla Fiera di Cesena arriva Prodi, che aveva appoggiato Schlein e ora forse chissà.
L’ex premier lamenta che nel Pd si sia smesso di «riflettere sull’idea che vogliamo costruire» e punta il dito sulla navigazione a giorno. «Riconosciamo prima di tutto gli errori compiuti», chiede Prodi, «quando, spinto dalle circostanze, il Pd ha inseguito gli obiettivi di breve periodo: le legge elettorale, la riforma della Rai, il finanziamento pubblico ai partiti, alcune riforme istituzionali». Prodi spiega che prima di «allargare» bisogna avere delle idee nuove e proprie. E sembra quasi una critica alla Schlein, che da quando ha vinto le primarie è sembrata schiava dei suoi clichè.
Allargamento è la parola magica anche per il padrone di casa, che ringrazia Prodi come un nuovo nume e lancia l’esca a destra, al centro e a sinistra, pur di vincere: «Noi da soli non bastiamo. Agli amici di Stelle e Terzo Polo, per non dire di Verdi e Sinistra, dico che sappiamo benissimo che non possiamo imporre strategie solo perché siamo più grandi, ma sappiano anche loro che se vogliamo battere la destra, senza di noi non andreste (sic) da nessuna parte». Una considerazione non proprio amichevole, nei confronti dei futuri compagni di strada.
Bonaccini sta bene attento a non dissotterrare l’ascia di guerra contro il segretario che lo ha battuto solo grazie alle discusse primarie allargate ai non iscritti. Ripete più volte concetti come «guai a dividerci tra noi». Afferma esplicitamente che «noi non vogliamo indebolire la segretaria» e «questa non è una corrente». Anche Graziano Delrio, ex prodiano ed ex renziano, assicura che «siamo tutti attaccati alla stessa corda e non si taglia la corda al capo cordata, ma spesso da sotto vedi se il capo cordata sta prendendo la via sbagliata». Chissà se Elly Schlein ha gradito la metafora, esposta con garbo ma abbastanza cruda nella sostanza. L’ex ministro Guerini è più diretto. Dopo essersi lamentato degli attacchi della segreteria a Matteo Renzi e ai renziani, fa notare che si rischia di «far cadere tutto l’albero tagliando le radici». Quello che non piace a chi sale sul palco di «Energia popolare» è un partito che parli solo di diritti Lgbt, di salario minimo ed emergenza climatica. L’ex sindaco di Bologna Merola contesta la linea politica: «Ora bisogna aprire una discussione vera e convocare un’assemblea programmatica. Lì porteremo le nostre proposte e poi quel programma va approvato dagli iscritti, gli iscritti devono votare. Non vorrei che proprio il popolo degli iscritti diventasse una sorta di bad company». E già, il popolo degli scritti. Anche a Cesena si capisce che la ferita dell’elezione del segretario non è sanata e che c’è tutto un partito dei circoli e dei notabili locali che sospetta di esser stato «scippato» dalle primarie aperte.
Schlein a Cesena si accontenta del fatto che Bonaccini non le abbia dichiarato guerra, ma chissà se la presenza di Prodi, l’uomo-Pantheon, l’ha fatta riflettere sui rischi che corre. Nel Pd, sono in tanti a pensarla come il sindaco di Prato e a dire che i risultati non stanno arrivando. Ieri, il segretario del Pd si è comunque buttato a pesce sulla mezza apertura di Giorgia Meloni, che sul salario minimo si è detta «laica», e si è dichiarata disponibile «anche a un incontro domattina con lei e il governo». Ma intanto la riunione del correntone di Bonaccini è una campana che suona e le chiede risultati. Almeno uno.
Soldi ai partiti, capriola di Patuanelli
Dimenticati anni di battaglie di Beppe Grillo e dei suoi elettori, anni di Vaffaday e di proclami per una politica francescana, una politica sublime perché senza soldi. Finita la lotta del M5s alla casta, il tonno, dentro la scatoletta-Parlamento, è stato mangiato e quindi si cambia idea e cade l’ultimo tabù: finita l’era della restituzione in piazza dei soldi del finanziamento pubblico ai cittadini da parte dei pentastellati. Infatti, secondo il senatore Stefano Patuanelli, ex ministro dello Sviluppo economico del Conte II e delle Politiche Agricole con Draghi, oggi capogruppo del M5s in Senato, «è necessario reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti». Lo ha detto in un colloquio con un giornalista del Corriere della sera, in attesa di entrare in uno studio televisivo, ben consapevole delle polemiche che le sue parole avrebbero innescato, visto che il Movimento si è sempre considerato padre morale dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti (arrivata nel 2013 con il governo Letta). Una giravolta che Patuanelli dice dettata «dall’esperienza». Ma il primo a dirsi assolutamente contrario a dare soldi pubblici alle forze politiche è stato il suo leader Giuseppe Conte, che ha specificato: «Il nostro Stefano Patuanelli ha espresso una sua opinione, del tutto personale». Tanto che lo stesso senatore ha dovuto mettere una toppa alla sua «riflessione meditata a lungo»: «Oggi non sarei disponibile a firmare una legge per la reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti in questo Paese, perché anche la reazione al mio ragionamento dimostra che questa classe dirigente politica non è pronta. Conte ha fatto bene a confermare la linea storica del Movimento, la mia uscita è stata del tutto accidentale, casuale, ma convinta, anche se all’apparenza contraddice la nostra linea storica». Patuanelli sosteneva infatti: «È vero che in passato la mole di risorse pubbliche fu tale da tutelare anche chi non ne aveva diritto. Ed è altrettanto vero che i soldi dei contribuenti vennero gestiti spesso in modo improprio e a volte in modo illegale, consentendo anche casi di arricchimento personale». Aggiungendo: «Su questo il Movimento ha avuto un ruolo fondamentale, perché ha contribuito a scardinare il sistema legato ai costi della politica. Ma sull’onda dell’indignazione e cavalcando la (giusta) protesta popolare, insieme all’acqua sporca venne gettato anche il bambino. Si confusero i costi della politica con i costi della democrazia». Un salto mortale per il politico triestino, che sottolinea come i partiti siano costantemente a caccia di soldi per sopravvivere: «Tutti gli eletti compartecipano alle spese delle forze di appartenenza con le trattenute sui loro stipendi da parlamentari. Persino i seggi hanno un costo: so che il Pd chiede 50.000 euro a chi lo conquista» rivela il capogruppo 5 Stelle. «Il rischio è che faccia politica solo chi se lo può permettere». E allora Patuanelli suggerisce di fare come nel Parlamento europeo, «che finanzia i gruppi e controlla l’uso dei fondi attraverso funzionari della struttura estranei ai partiti». Niente da fare per Conte: «Il M5S è la dimostrazione vivente che si può fare politica senza imporre costi ai cittadini. E che si può fare politica senza svendere le proprie battaglie, mettendosi in alcuni casi al libro paga di grandi lobby o addirittura di Stati esteri, come fa qualche noto parlamentare. Il M5s continua a mantenere un’altra idea di politica, testimoniata dai fatti: tra rimborsi elettorali ed indennità degli eletti abbiamo rinunciato ad oltre 100 milioni».
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Veleni e frecciate dirette a Elly Schlein nell’evento coi fedelissimi del governatore dem. Che rilancia il campo largo al Terzo Polo.Stefano Patuanelli rompe l’ultimo tabù dei 5s: «Torni il finanziamento pubblico alla politica». Giuseppe Conte lo smentisce e l’ex ministro fa peggio: «Questa classe dirigente non è pronta».Lo speciale contiene due articoli.Il Grande Vecchio Romano Prodi acclamato come un papa. La nuova corrente che si spaccia per semplice ritrovo di «amici». Ex ministri, deputati, sindaci, consiglieri regionali e comunali pronti a sudare due giorni in un centro congressi pur di stringersi intorno al loro leader. Sullo sfondo, neppure tanto nascosto, l’obiettivo di logorare il segretario Schlein. Cesena ospita l’assemblea «Energia popolare», organizzata da Stefano Bonaccini e dalla sua area riformista, ed è subito parodia della vecchia Democrazia cristiana. Tutti avanti insieme per la riscossa contro «le destre», ma in una palude di distinguo e vecchie ruggini. Con Bonaccini che rilancia il campo largo, anzi larghissimo, con M5s, Terzo Polo e Verdi-Sinistra, ma fa sapere ai futuri alleati: «Senza di noi non andreste da nessuna parte».In una marea di buonismi e promesse di reciproca collaborazione, la verità scappa detta all’avvocato Matteo Biffoni, ex deputato e oggi sindaco di Prato: «Cara segretaria è vero, forse non ti abbiamo vista arrivare… adesso però aspettiamo di vedere gli elettori». La corrente Bonaccini, pardon, area Bonaccini, si aspettava che l’effetto donna «più o meno chic più o meno nuova» portasse almeno una bella risalita nei sondaggi, invece si fatica sempre a tenere quota 20%. Il presidente dell’Emilia Romagna, però, indossa i guanti di velluto. Ci tiene a dire che «Energia popolare» non è una corrente, ma intanto in una platea di amministratori locali schiera Piero Fassino, Piero De Luca, Gianni Cuperlo, Pina Picierno, Stefania Pezzopane, Virginio Merola, Lorenzo Guerini, Graziano Delrio, Simona Malpezzi, Emanuele Fiano e Simone Uggetti, l’ex sindaco di Lodi uscito pulito da una brutta inchiesta per corruzione. Ma soprattutto, ieri a mezzogiorno, alla Fiera di Cesena arriva Prodi, che aveva appoggiato Schlein e ora forse chissà.L’ex premier lamenta che nel Pd si sia smesso di «riflettere sull’idea che vogliamo costruire» e punta il dito sulla navigazione a giorno. «Riconosciamo prima di tutto gli errori compiuti», chiede Prodi, «quando, spinto dalle circostanze, il Pd ha inseguito gli obiettivi di breve periodo: le legge elettorale, la riforma della Rai, il finanziamento pubblico ai partiti, alcune riforme istituzionali». Prodi spiega che prima di «allargare» bisogna avere delle idee nuove e proprie. E sembra quasi una critica alla Schlein, che da quando ha vinto le primarie è sembrata schiava dei suoi clichè. Allargamento è la parola magica anche per il padrone di casa, che ringrazia Prodi come un nuovo nume e lancia l’esca a destra, al centro e a sinistra, pur di vincere: «Noi da soli non bastiamo. Agli amici di Stelle e Terzo Polo, per non dire di Verdi e Sinistra, dico che sappiamo benissimo che non possiamo imporre strategie solo perché siamo più grandi, ma sappiano anche loro che se vogliamo battere la destra, senza di noi non andreste (sic) da nessuna parte». Una considerazione non proprio amichevole, nei confronti dei futuri compagni di strada. Bonaccini sta bene attento a non dissotterrare l’ascia di guerra contro il segretario che lo ha battuto solo grazie alle discusse primarie allargate ai non iscritti. Ripete più volte concetti come «guai a dividerci tra noi». Afferma esplicitamente che «noi non vogliamo indebolire la segretaria» e «questa non è una corrente». Anche Graziano Delrio, ex prodiano ed ex renziano, assicura che «siamo tutti attaccati alla stessa corda e non si taglia la corda al capo cordata, ma spesso da sotto vedi se il capo cordata sta prendendo la via sbagliata». Chissà se Elly Schlein ha gradito la metafora, esposta con garbo ma abbastanza cruda nella sostanza. L’ex ministro Guerini è più diretto. Dopo essersi lamentato degli attacchi della segreteria a Matteo Renzi e ai renziani, fa notare che si rischia di «far cadere tutto l’albero tagliando le radici». Quello che non piace a chi sale sul palco di «Energia popolare» è un partito che parli solo di diritti Lgbt, di salario minimo ed emergenza climatica. L’ex sindaco di Bologna Merola contesta la linea politica: «Ora bisogna aprire una discussione vera e convocare un’assemblea programmatica. Lì porteremo le nostre proposte e poi quel programma va approvato dagli iscritti, gli iscritti devono votare. Non vorrei che proprio il popolo degli iscritti diventasse una sorta di bad company». E già, il popolo degli scritti. Anche a Cesena si capisce che la ferita dell’elezione del segretario non è sanata e che c’è tutto un partito dei circoli e dei notabili locali che sospetta di esser stato «scippato» dalle primarie aperte. Schlein a Cesena si accontenta del fatto che Bonaccini non le abbia dichiarato guerra, ma chissà se la presenza di Prodi, l’uomo-Pantheon, l’ha fatta riflettere sui rischi che corre. Nel Pd, sono in tanti a pensarla come il sindaco di Prato e a dire che i risultati non stanno arrivando. Ieri, il segretario del Pd si è comunque buttato a pesce sulla mezza apertura di Giorgia Meloni, che sul salario minimo si è detta «laica», e si è dichiarata disponibile «anche a un incontro domattina con lei e il governo». Ma intanto la riunione del correntone di Bonaccini è una campana che suona e le chiede risultati. 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Infatti, secondo il senatore Stefano Patuanelli, ex ministro dello Sviluppo economico del Conte II e delle Politiche Agricole con Draghi, oggi capogruppo del M5s in Senato, «è necessario reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti». Lo ha detto in un colloquio con un giornalista del Corriere della sera, in attesa di entrare in uno studio televisivo, ben consapevole delle polemiche che le sue parole avrebbero innescato, visto che il Movimento si è sempre considerato padre morale dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti (arrivata nel 2013 con il governo Letta). Una giravolta che Patuanelli dice dettata «dall’esperienza». Ma il primo a dirsi assolutamente contrario a dare soldi pubblici alle forze politiche è stato il suo leader Giuseppe Conte, che ha specificato: «Il nostro Stefano Patuanelli ha espresso una sua opinione, del tutto personale». Tanto che lo stesso senatore ha dovuto mettere una toppa alla sua «riflessione meditata a lungo»: «Oggi non sarei disponibile a firmare una legge per la reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti in questo Paese, perché anche la reazione al mio ragionamento dimostra che questa classe dirigente politica non è pronta. Conte ha fatto bene a confermare la linea storica del Movimento, la mia uscita è stata del tutto accidentale, casuale, ma convinta, anche se all’apparenza contraddice la nostra linea storica». Patuanelli sosteneva infatti: «È vero che in passato la mole di risorse pubbliche fu tale da tutelare anche chi non ne aveva diritto. Ed è altrettanto vero che i soldi dei contribuenti vennero gestiti spesso in modo improprio e a volte in modo illegale, consentendo anche casi di arricchimento personale». Aggiungendo: «Su questo il Movimento ha avuto un ruolo fondamentale, perché ha contribuito a scardinare il sistema legato ai costi della politica. Ma sull’onda dell’indignazione e cavalcando la (giusta) protesta popolare, insieme all’acqua sporca venne gettato anche il bambino. Si confusero i costi della politica con i costi della democrazia». Un salto mortale per il politico triestino, che sottolinea come i partiti siano costantemente a caccia di soldi per sopravvivere: «Tutti gli eletti compartecipano alle spese delle forze di appartenenza con le trattenute sui loro stipendi da parlamentari. Persino i seggi hanno un costo: so che il Pd chiede 50.000 euro a chi lo conquista» rivela il capogruppo 5 Stelle. «Il rischio è che faccia politica solo chi se lo può permettere». E allora Patuanelli suggerisce di fare come nel Parlamento europeo, «che finanzia i gruppi e controlla l’uso dei fondi attraverso funzionari della struttura estranei ai partiti». Niente da fare per Conte: «Il M5S è la dimostrazione vivente che si può fare politica senza imporre costi ai cittadini. E che si può fare politica senza svendere le proprie battaglie, mettendosi in alcuni casi al libro paga di grandi lobby o addirittura di Stati esteri, come fa qualche noto parlamentare. Il M5s continua a mantenere un’altra idea di politica, testimoniata dai fatti: tra rimborsi elettorali ed indennità degli eletti abbiamo rinunciato ad oltre 100 milioni».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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