2022-06-08
BoJo ha retto il colpo. Per vincere deve abbassare le tasse
Superato il voto di sfiducia, i nemici interni non molleranno. Contro il rischio tracollo alle suppletive serve coraggio fiscale.No, decisamente Boris Johnson non si trova in una situazione confortante, nonostante che l’altra sera abbia numericamente avuto la meglio nel voto di fiducia interno ai parlamentari del suo partito (211 voti a favore, 148 contro). Secondo le attuali regole, la mancata sfiducia metterebbe in salvo il premier per almeno un anno, anche se i parlamentari ribelli minacciano di chiedere un cambio delle norme, per poter presentare un’altra sfiducia prima di giugno 2023. Ma la storia politica britannica parla chiaro: dopo analoghi voti – pur con esito positivo per il leader – altre tre figure del mondo conservatore si ritrovarono indebolite, e, dopo un certo tempo, finirono per dimettersi: a ritroso, accadde a Theresa May (che aveva avuto un sostegno del 63% dei suoi colleghi, mentre Johnson si è fermato al 61%), a John Major, e perfino alla gigantesca Margaret Thatcher.E così ieri la lettura dei giornali britannici è stata un calvario per Johnson, e per ragioni tutt’affatto diverse dall’odio antropologico e dall’ostilità pregiudiziale che trasuda dai mainstream media italiani, che lo detestano a causa di Brexit e delle sue posizioni liberali sul Covid, già prima della guerra russo-ucraina. In Uk, invece, a criticarlo pesantemente sono stati pure i giornali di orientamento conservatore, e senza motivi di risentimento personale. Ecco la prima pagina del Telegraph: «La vittoria svuotata lacera il partito». Durissimo il commento di Sherelle Jacobs, che ha parlato di «tragedia» divenuta «farsa» e ha aggiunto: «Johnson può essere sopravvissuto al voto di fiducia, ma la sua prospettiva appare cupa». Molto pesante anche l’editoriale non firmato: «Il primo ministro rimane gravemente ferito». Altrettanto severo il Times. Ecco il titolo di prima di ieri: «Un Johnson ferito sopravvive con difficoltà al voto di fiducia». Editoriale non firmato che ha evocato una «vittoria di Pirro». E commento ancora più significativo di William Hague, che fu leader dei conservatori, e che senza tanti giri di parole ha consigliato a Johnson di cercare una «via d’uscita onorevole». Hague ha insistito sul fatto che stavolta la ribellione non sia stata guidata «da una fazione organizzata o da un candidato rivale» ma sia stata «più spontanea: una più larga perdita di fiducia» estesa trasversalmente a componenti culturali diverse interne al partito.E qui occorre fare chiarezza. Certo, su Johnson ha pesato la vicenda del partygate: in Uk, un lawmaker non può essere un lawbreaker. E peraltro i cittadini britannici non tollerano l’idea che i politici consentano a se stessi ciò che hanno vietato a loro: sia pure per un tempo infinitamente più breve rispetto alle restrizioni imposte in Italia, anche in Uk ci sono state famiglie costrette a non partecipare ai funerali di un congiunto, oppure nozze rinviate, oppure feste di compleanno annullate. Un taxpayer britannico che abbia subito queste limitazioni non è disposto a perdonare un leader politico che abbia fatto eccezione per se stesso, neanche per un brindisi a Downing Street. Il paradosso è dunque che Johnson, il meno chiusurista di tutti i leader occidentali, rischia di pagare care proprio quelle limitatissime chiusure che lui stesso fece di tutto per ridurre al minimo.Ma – ecco il punto – la vicenda partygate è stata usata nel suo partito come strumento per polemizzare contro il cuore della politica di Johnson, e cioè l’economia. Come sulla Verità abbiamo scritto da mesi, stava e sta qui il punto debole di Johnson: aver stravinto le elezioni con uno splendido manifesto elettorale a favore di un taglio di tasse, ma non averle ridotte. Peggio: aver adottato una linea per molti versi dirigista, interventista. La realtà è che Johnson si è trovato di fronte a un rebus: da un lato, aveva fatto il pieno del tradizionale voto conservatore; dall’altro, aveva recuperato anche un significativo voto di delusi di sinistra. Il premier ha cercato di immaginare un mix programmatico per rivolgersi a tutte queste componenti, ma, così facendo, ha scontentato proprio la parte thatcheriana, quella che voleva meno tasse, e che (correttamente) immaginava Brexit come la chiave di volta per una sterzata anti-tasse e anti-burocrazia. E così ecco il secondo paradosso: l’indiscusso campione di Brexit non è riuscito a realizzare politiche in linea con quella conquista.E ora? Nel suo discorso prima del voto di fiducia, Johnson ha promesso un taglio di tasse. Ma adesso tutto è più difficile. A giugno ci sono due suppletive a rischio: se andassero male, i suoi avversari avrebbero altro materiale per sostenere che BoJo non sia più un asset (cioè una risorsa positiva) ma una liability (cioè un peso), elettoralmente parlando.Fossimo nei panni dei conservatori, però, ci penseremmo due volte: Johnson è comunque la macchina da voti più potente a disposizione dei Tories, e al momento non si vedono figure capaci di conciliare carisma personale e linea politica thatcheriana. Forse rimettere Johnson sui binari «low tax» e far correre lui potrebbe ancora essere la carta migliore.Se invece Johnson non ce la farà, per una eventuale sostituzione, suggeriremmo di annotare non tanto il nome di Jeremy Hunt, quanto quelli della ministra degli Esteri Liz Truss, oppure del ministro della Difesa Ben Wallace, oppure di Tom Tugendhat (veterano di guerra in Iraq e Afghanistan e presidente della commissione Esteri): tutte leadership saldamente atlantiste, perché la posizione sulla guerra non è in discussione da parte di nessuno.
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