Ha la soddisfazione di chi ha attraversato una fase creativa, Alessandro Greco. Il conduttore che Raffaella Carrà chiamava «figlioccio» è in attesa di novità televisive che dovrebbero arrivare in gennaio. Format ideati da lui, e altri che gli sono stati proposti. Ma non ci anticipa ancora niente. Intanto, un paio di settimane fa si è conquistato il 10% di share su Rai 1 con il Meraviglioso Modugno show a Polignano a Mare.
Non male, in una seconda serata e con i palinsesti in crisi di ascolti.
«Tanta soddisfazione, sì, 125.000 spettatori in più della scorsa edizione. Per me salire su un palco è - e ne sono grato - assistere a un accadimento speciale tra il pubblico e me».
Sono state tutte in discesa, fin qui, la vita e la carriera?
«In discesa proprio no, ma sono pieno di riconoscenza».
Oltre alla tv tanti anni di radio…
«Quattordici per la precisione, a Rtl102.5. Di solito si arriva alla tv grazie alla radio ma il mio percorso è stato inverso. Poi, una separazione non consensuale, in vista di nuovi progetti».
Tra i quali c’è stato anche Cook40, su Rai 2.
«Una sfida al tempo, un programma dedicato a chi ama cucinare ma non ha mai abbastanza tempo per farlo».
Lei lo sa fare? E di tempo ne ha?
«Me lo prendo, perché l’enogastronomia è una delle mie più grandi passioni. Abito in Valdarno, tra Arezzo e Firenze, e in questo buen retiro che ho scelto da parecchi anni ho scoperto la bellezza di invitare parenti e amici, fare per loro la spesa in modo accurato e abbinando i giusti vini. In fin dei conti è una forma d’amore».
In principio della sua carriera fu Raffaella?
«All’inizio-inizio c’era un ragazzino con fratelli più grandi di 9 e 10 anni, che un po’ si sentiva solo e ha cercato di colmare il vuoto con canzoni e barzellette, con il suo modo particolare di comunicare. Chi era intorno a me mostrava interesse e gioia, e non mi sono più fermato. Ci furono anni in cui costringevo la famiglia ad ascoltarmi nel recitare di continuo la poesia di Totò ‘A livella, che avevo imparato a memoria, e non so come mai, perché non è un testo facile, ma mi piaceva».
Poi?
«Poi anni di quella che chiamano gavetta e per me fu già carriera. Prima le piccolissime tv private, poi gli spettacoli itineranti nelle piazze di tutta Italia. Dagli eventi artistici a quelli che non lo erano. Ricordo una serata di stage per acconciatori. Decine e decine di eventi in giro per l’Italia, da Pasqua all’autunno. Mi sono fatto il mazzo, ma forse non si può scrivere così e veda lei, forse è meglio che lo definiamo la mia palestra artistica. Qualcuno cominciò a notarmi…».
E avvenne il grande salto?
«Lo ricordo come fosse ieri. Era 1997, a Cinecittà, incontrai Raffaella Carrà a un provino per un programma che era appena diventato un format di successo in Francia. Una volta capito che avevo 25 anni, mi chiese: “Ma da dove vieni fuori?”. Le raccontai degli spettacoli nelle piazze. E lei, sgamata e dal palato fine disse soltanto: “Ho capito tutto”. Si innamorò così, del mio essere persona e artista, ho un enorme debito di riconoscenza e di stima per lei che gratuitamente fece tanto per me. E iniziò l’avventura meravigliosa di Furore. Se penso che oggi i provini si fanno solo nel mondo della recitazione, e che le possibilità che ebbi io sono precluse a molti…».
Per la tv non se ne fanno più?
«Diciamo che l’aspetto meritocratico e attitudinale conta zero, oggi. Le motivazioni sono sempre altre».
Andò da bene subito, Furore?
“Subito (e gli scappa un «porca miseria!», ndr). Di questi tempi mi porterebbero in processione per quegli ascolti lì. Ottimi dalla prima edizione e fino al 2002, quando andavamo in onda da un palazzetto dello sport alle porte di Napoli, indimenticabile. Nonostante falliti tentativi di imitazione, resta un programma unico, che ogni tanto scorgo a pezzetti in altri format. Era un meccanismo coinvolgente, che creava un’alchimia che non si può nemmeno spiegare».
Con la Carrà poi proseguì il sodalizio artistico.
«Sì, con Carràmba. Che sorpresa e pure con un’altra trasmissione, Il gran concerto, in cui lei era capoprogetto, con un pubblico solo di ragazzi per far loro conoscere l’incanto della musica classica. Un vero gioiellino, che ha ricevuto molti premi e che poi, infatti, ci hanno fatto chiudere perché a furia di tagli del budget…».
Un’ingiustizia?
«Non so come altro si possa chiamare».
Partecipò poi anche a La Talpa, con sua moglie Beatrice Bocci, sui canali Mediaset. È un tipo da reality? Lo rifarebbe?
«Era un reality-game, una sorta di gioco con prove estreme e non di quei reality che tolgono dignità alle persone pur di fare un picco d’ascolto. Feci in modo di uscire prima della fine, perché trovai che mancasse qualsiasi contenuto artistico nel programma. Sentire di essere in tv senza dare un contributo, era insopportabile per me. Ma era un programma diverso da quelli che lo hanno seguito. E mi risulta che il gruppo di Maria De Filippi lo voglia riproporre sfruttando le interazioni social, un’idea che può funzionare».
Torno all’ingiustizia: le è capitato spesso di provare questa sensazione?
«Anche in altri ambiti della vita, ovviamente, ma sul lavoro gliene potrei citare a decine, di episodi. Non sa quante volte il programma era già stato approvato per me. Mi veniva proposto perché ero ritenuto il conduttore ideale, oppure mi chiedevano di avvicendarmi a qualcun altro e poi…».
Non se ne faceva nulla?
«A volte lo scoprivo quando questi programmi erano già in onda».
La scavalcavano raccomandati?
«Nel mondo dello spettacolo ma anche in altri ambiti, ci sono le segnalazioni, che hanno una base positiva perché considerano capacità e attitudini, e poi le raccomandazioni. Che si dice che sono roba da Prima Repubblica, ma mi sa invece che fanno parte del nostro Dna, le abbiamo nelle vene. Detta in modo elegante, c’è chi ha la tendenza ad accomodare le cose, ecco, e se non si accomodano da sole, le forza».
Porta rancore?
«Zero».
Si considera immune?
«Credo sia grazie alla fede in Dio, che mi fa gustare le gioie e le conquiste e non guardare al negativo. Grato per un’altra giornata da vivere: io mi sveglio così. Da soli, di fronte a cose anche ben più gravi di queste che le ho raccontato, non ce la si fa».
Questo suo professarsi cattolico potrebbe averla penalizzata nella carriera?
«Nel mondo la testimonianza di fede è vista da alcuni come noiosa, melensa, da altri come integralista. Ma non posso rinunciarci. Perché non è un corso di Zumba o di ricamo, ma un incontro che ha coinvolto tutta la mia persona. Certo, cerco sempre di essere delicato e discreto, ma il fatto che sono persona conosciuta mi agevola nel rendere testimonianza».
Una fede nata in famiglia?
«Si andava a messa alla domenica, sì, ma l’incontro personale con la fede è avvenuto in età più matura, anche grazie all’incontro con mia moglie. Per citare padre Raniero Cantalamessa, un conto è frequentare Gesù personaggio, un conto è seguirlo come persona».
Quando lei incontrò Beatrice era già sposata, con una figlia, e avete raccontato in un libro - Ho scelto Gesù (Rai Libri) - il percorso che avete intrapreso. Da credente praticante, che idea si è fatto di tutto il parlare dello spot Esselunga?
«Chiacchiere da paese, da mentalità ristretta. Con tutti i guai dell’Italia, con tutti i problemi che ci sono, c’è chi si concentra su una cosa così strumentalmente».
La pubblicità le è piaciuta?
«Il creativo che l’ha ideata è stato bravo e sicuramente lo eleveranno di grado, per tutto questo chiacchiericcio. Sì, mi è piaciuta. Una cosa normale come la pesca, un piccolo episodio di quotidianità, la purezza degli occhi di una bambina. Se poi mi sta chiedendo se mi auguro meno separazioni e divorzi, sì, certo che me lo auguro. Perché augurare una ferita, un dolore, un sentimento di sconfitta alle persone? Però dire che quello è uno spot anti divorzio, proprio no».
Momenti difficili, nella vostra vita insieme dal 1997, ce ne sono stati?
«Capitano a tutti, ci mancherebbe. Per fattori esterni alla coppia e alla famiglia, o anche interni, per difficoltà relazionali. Si superano con quella che io chiamo “Cristoterapia”: preghiera, messa appena possibile, richiesta d’aiuto, cammino quotidiano serio di sequela. La fede non è un regalo per perfettini, ma medicina per bisognosi e peccatori».
La ritroveremo da gennaio in tv?
«Al netto della mia fede, un po’ di scaramanzia me la concederà e quindi non le anticipo niente. Da appassionato di cucina, però, posso dirle che c’è molto che bolle in pentola».