2023-03-21
Berna alla fine nazionalizza il credito. Si chiude l’assalto lanciato da Obama
Barack Obama (Getty images)
Il governo federale mette una toppa alla crisi bancaria, ma sacrifica la trasparenza e il mercato. Così la Svizzera resta in un angolo come pianificato dall’ex presidente. Ora non sarà più un Paese neutrale.Con la nazionalizzazione di fatto di Credit Suisse si chiude la guerra scatenata da Barack Obama alla Svizzera e al network dei paradisi fiscali. Allora come oggi fatti e decisioni furono scatenati dal rialzo improvviso dei tassi di interesse da parte delle banche centrali. Nel 2008, per la precisione a settembre, gli Usa affrontarono il crac di Lehman Brothers, una tempesta così violenta che spinse la Casa Bianca a cambiare l’ordine mondiale dei flussi finanziari, compresi quelli carsici legati alle attività criminali e all’evasione fiscale. Nel 2009 durante un meeting a Città del Messico nacque l’idea delle liste nere e grigie e si lanciò il progetto del club di Parigi fautore della lotta alla finanza offshore. In quell’occasione Obama condannò ufficialmente le isole Cayman, primo target a essere messo nel mirino dall’amministrazione dem. Denunciò il fatto che Ugland House, un piccolo palazzo, ospitasse addirittura la sede di 18.857 società offshore. In quell’occasione il presidente Usa fece una omissione. Nel Delaware esisteva (oggi ha cambiato sede e numeri di caselle postali, ma non la massa di attività fiscali) un palazzo di 16 piani dove erano registrate quasi 60.000 società. Tutte Llc e intestate a non residenti. Il Delaware, patria di Joe Biden, con 900.000 abitanti ancora oggi ha quasi 1 milione di società. Lo strabismo politico dei democratici oltre che interessante è utile per comprendere che cosa è accaduto nel corso degli ultimi 14 anni e come il nuovo ciclo abbia impattato sulle banche svizzere. Credit Suisse in primis. Forte della sua posizione all’Ocse. Obama è prima riuscito a imporre la liste di proscrizione con la conseguenza di veicolare via Panama un flusso di denaro destinato all’immobiliare Usa. Il passo successivo fu far avvicinare un dipendente dell’Fbi a un ex direttore Ubs con una valigetta piena di contanti. Non appena diede il consenso all’apertura di un conto cifrato fu arrestato. Per evitare il carcere parlò e aprì una falla nel sistema. Una falla che costò a Ubs 780 milioni di dollari e la consegna a Obama di una lista di 4.500 clienti americani. Tutti potenziali evasori.A giugno 2013 erano ben tredici le banche svizzere, comprese Credit Suisse e Julius Baer, indagate dall’Irs (Internal Revenue Service) per aver aiutato cittadini americani ad evadere le tasse. All’epoca l’obiettivo degli istituti era portare avanti una trattativa con l’obiettivo di pagare patteggiare. Il no della Camera Bassa svizzera aprì uno scenario completamente diverso. Di guerra fredda. Il partito conservatore non voleva chiudere un accordo con gli Usa. Avrebbe significato spalancare le porte agli oltre 2.200 miliardi di asset allocati nei forzieri elvetici (cifre fornite il 31.12 2012 dal Boston Consulting group, ndr). Col rischio di vederli fuggire. Così le singole banche sono rimaste da sole a trattare. Risultato? A maggio del 2014 Credit Suisse ammette il reato di favoreggiamento nell’evasione fiscale e paga una multa di 2,6 miliardi di dollari. Cifra enorme e segno di debolezza. Con il risultato successivo di spalancare le porte al Fatca. Sigla esotica che sta per Foreign account tax compliance act , tradotto l’accordo firmato da oltre 100 nazioni (Italia compresa) che consente all’amministrazione finanziaria a stelle e strisce di ricevere in automatico ogni informazione relativa a cittadini e società statunitensi che operano all’estero, ma anche su cittadini stranieri che hanno redditi assimilati negli Usa. La firma da parte della Svizzera è stata dunque una svolta storica, considerando che man mano la Confederazione elvetica ha dovuto cambiare strategia lasciandosi per sempre alle spalle il segreto bancario. In questa guerra all’ultimo dollaro, Credit Suisse ci ha messo del suo. Nel 2016, l’istituto finisce in un’inchiesta italiana. Paga all’Agenzia delle entrate 100 milioni ma si salva dalle grinfie della Procura ambrosiana. Le accuse erano aver aiutato migliaia di clienti italiani ad aprire polizze alle Bahamas via Panama aggirando il fisco per una cifra vicina ai 14 miliardi di euro. Misteriosamente la lista dei clienti fu trovata negli uffici milanesi e finì nelle mani dell’Erario. A oggi in molti si chiedono perché non fosse custodita solo a Lugano e un numero di clienti rimasto in mezzo al guado, e dunque indagati, si fece l’idea di una sorta di patteggiamento. Ipotesi interessante ma mai provata, fatto sta che da quell’episodio la banca ha avuto una serie di colpi di maledizione. Dallo scandalo dei pedinamenti del 2020, alle perdite miliardarie a seguito del crac di Greensill capital e del fondo Archegos capital management. Fino alle questioni vaticane (rapporti tenuti da ex manager Credit Suisse), agli scandali dello scorso anno e all’ingresso frettoloso dei capitali sauditi, visti chiaramente come ancora di salvezza. La scelta del governo svizzero di domenica sera non aiuta. Aver chiesto la fusione con Ubs senza una due diligence e senza alcuna assemblea manda un segnale preciso ai mercati. Quello che c’è dentro Credit Suisse resta nel forziere e non va aperto, a costo di violare tutte le leggi del mercato. Ecco perché con la creazione del bancone unico svizzero si chiude il cerchio aperto da Obama. Ora la Svizzera deve capire che posto vuole assumere nel mondo, dovrà trovare alleanze o specializzazioni. Può essere voglia delocalizzarsi in Asia e intercettare capitali non occidentali. In ogni caso non sarà più l’isola neutrale buona per tutte le sponde.
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