2020-08-21
Bannon in manette e indagini fiscali. Due spallate a Trump a tre mesi dal voto
I procuratori dem scatenati: lo stratega è accusato di frode. Continuano gli accertamenti sull'organizzazione del tycoon.Una bufera giudiziaria si è abbattuta ieri dalla Grande Mela su Donald Trump e alcuni suoi alleati. Steve Bannon è stato arrestato, con l'accusa -mossagli dalla procuratrice ad interim per il distretto meridionale di New York, la democratica Audrey Strauss - di frode in relazione alla sua campagna di raccolta fondi online «We Build the Wall». Insieme all'ex stratega del presidente, sono finiti in manette alcuni suoi soci: Timothy Shea; il veterano della guerra in Iraq, Brian Kolfage; e Andrew Badolato. L'iniziativa, avviata formalmente nel gennaio del 2019, aveva lo scopo di reperire finanziamenti per la realizzazione di alcune parti del muro al confine con il Messico: si stima che, nel corso del tempo, siano stati raccolti in totale circa 25 milioni di dollari. Il sito della Cnbc aveva riportato in un primo momento che Timothy Shea fosse l'attuale direttore della Drug Enforcement Administration. Nelle ore successive si è tuttavia corretto, dichiarando si tratti di un caso di omonimia.Secondo la Strauss, «gli imputati hanno truffato centinaia di migliaia di donatori, traendo vantaggio nel finanziare un muro di confine per raccogliere milioni di dollari, con la falsa scusa che tutti quei soldi sarebbero stati spesi per la costruzione». «Pur assicurando ripetutamente ai donatori che Brian Kolfage, il fondatore e volto pubblico di «We Build the Wall», non sarebbe stato pagato un centesimo, gli imputati hanno segretamente tramato per passare centinaia di migliaia di dollari a Kolfage, che ha usato per finanziare il suo lussuoso stile di vita», ha aggiunto la procuratrice. In particolare, i quattro imputati sono formalmente accusati di frode telematica e riciclaggio di denaro, rischiando ciascuno fino a 20 anni di carcere per ogni capo di imputazione. La vicenda è prevedibilmente destinata a produrre delle ripercussioni politiche. Da una parte, Trump ha preso le distanze, affermando di non aver mai gradito il progetto. «Non mi piaceva […] Penso sia una cosa molto triste per il signor Bannon», ha dichiarato. Dall'altra, i democratici sono andati all'attacco. Il deputato Mark Pocan ha twittato: «Gli imbroglioni si circondano di imbroglioni», mentre la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, ha commentato: «Il monumento all'odio di Trump al confine è sempre stato una grande truffa per alimentare le fiamme del fanatismo e aiutare i suoi amici a diventare ricchi». Insomma, questa faccenda rischia di polarizzare ancora di più un dibattito politico-elettorale già di per sé abbastanza infuocato. Colpire Bannon significa d'altronde colpire uno dei simboli del trumpismo della prima ora. È pur vero che il diretto interessato ha lasciato il proprio incarico nello staff presidenziale ad agosto del 2017, quindi ben prima che l'iniziativa «We Build the Wall» prendesse il via (e del resto le incriminazioni di ieri non sembrano mostrare appigli per eventuali coinvolgimenti penali della Casa Bianca). Resta tuttavia il fatto che l'ex stratega continui ad essere un punto di riferimento politico e ideologico agli occhi di alcune galassie che sostengono Trump: un elemento che - come abbiamo visto - espone adesso il presidente agli attacchi dei suoi avversari. D'altronde, questioni politiche sembrano riguardare anche la figura di Shea. Non solo a maggio fu riportato che costui sarebbe stato nominato amministratore ad interim della Drug Enforcement Administration, ma - sempre nello stesso mese - fu proprio lui, da procuratore, a ritirare le accuse del Dipartimento di Giustizia contro l'ex consigliere di Trump, Mike Flynn. Una mossa che irritò non poco i democratici. Va da sé che la solidità delle accuse contro Bannon andrà valutata nelle prossime settimane. Resta però il forte sospetto che i procuratori di New York stiano agendo secondo logiche non del tutto estranee alle dinamiche elettorali attualmente in corso. A inizio agosto, il procuratore distrettuale di Manhattan, Cyrus Vance jr, ha del resto lasciato intendere di stare indagando sulla Trump Organization per sospetta frode bancaria. Vale forse la pena di sottolineare che - come la Strauss - anche Vance sia un democratico, figlio -tra l'altro- del segretario di Stato di Jimmy Carter. Ed è in questo contesto che, sempre ieri, un giudice del distretto meridionale di New York, Victor Marrero, ha guarda caso dato ragione proprio a Vance nella sua richiesta di ottenere la dichiarazione dei redditi di Trump: richiesta a cui il diretto interessato si era sempre opposto. Secondo il togato (nominato da Bill Clinton nel 1999), il presidente non sarebbe riuscito infatti a dimostrare che la procura stesse cercando di imporgli un onere ingiusto. Tutto questo, senza poi dimenticare che la stessa Strauss abbia in passato lavorato su casi legati all'inquilino della Casa Bianca e che sia divenuta procuratrice ad interim del distretto meridionale di New York dopo che, lo scorso giugno, Trump ha silurato il suo predecessore, Geoffrey Berman. Insomma, a meno di tre mesi dalle elezioni presidenziali del prossimo novembre, la Grande Mela è diventata l'epicentro di terremoti giudiziari che vedono coinvolti il presidente e alcuni ambienti a lui più o meno vicini. Sarà un caso, per carità. Ma qualche sospetto di politicizzazione onestamente viene.