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2022-03-23
In Aula Draghi più falco di Zelensky che glissa sulle armi e la no fly zone
Ansa
Alla fine il discorso bellicoso lo fa Mario Draghi, e quello moderato Volodymyr Zelensky: capovolgendo i pronostici della vigilia, l’intervento di ieri del presidente ucraino al Parlamento italiano in seduta congiunta è all’insegna della moderazione, considerati i precedenti, mentre i toni del nostro premier sono assai battaglieri. Sarà perché poco prima di collegarsi con Montecitorio ha parlato al telefono con papa Francesco, che pochi giorni fa ha definito «uno scandalo terribile» la spesa per le armi, fatto sta che Zelensky, per la prima volta in questo suo tour virtuale di discorsi a vari parlamenti occidentali non chiede più armi, non chiede la no fly zone sull’Ucraina, insomma si trasforma, o tenta di farlo, da «falco» a «colomba».
«Caro popolo italiano», esordisce Zelensky, «oggi ho parlato con Sua Santità papa Francesco e lui ha detto parole molto importanti: “Capisco che voi desiderate la pace, capisco che dovete difendervi, i militari difendono i civili, difendono la propria patria, ognuno la difende”. E io ho risposto che il nostro popolo è diventato l’esercito, quando ha visto che male porta con sé il nemico, quanta devastazione lascia dietro di sé e quanto spargimento di sangue vuole vedere. La guerra continua», aggiunge Zelensky, «i missili russi, l’aviazione, l’artiglieria non smettono di uccidere. Le città ucraine vengono distrutte, alcune sono completamente distrutte, come Mariupol, sulla costa del mare d’Azov, dove c’erano circa mezzo milione di persone come nella vostra città di Genova dove sono stato. A Mariupol non c’è più niente, solo rovine. Immaginate una Genova completamente bruciata dopo tre intere settimane di assedio, di bombardamenti, di spari che non smettono neanche un minuto. Immaginate la vostra Genova dalla quale scappano le persone a piedi, con le macchine, con i pullman, per arrivare dove è più sicuro. Questo è stato fatto in Europa per l’ultima volta dai nazisti», sottolinea il leader ucraino, «quando stavano occupando altri Paesi». In realtà, più che immaginare, basta ricordare: Genova ha subito pesanti bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. Lo ricorda a Zelensky il sindaco del capoluogo ligure, Marco Bucci: «Capisco che lui abbia citato Genova», dice Bucci, «certamente noi non vogliamo immaginare Genova bombardata, da un certo punto di vista possiamo considerare quasi un complimento il fatto che abbia citato noi, e ribadiamo che la nostra città vuole solo la pace. Genova ha già subito bombardamenti, e molti, nella storia», ricorda Bucci, «durante la seconda guerra mondiale è stato terribile e assolutamente non possiamo immaginare che si ripeta qualcosa di simile».
«Signori, popolo italiano», prosegue Zelensky, «bisogna fare il possibile per garantire la pace. La guerra è stata organizzata per decine di anni da una sola persona, guadagnando tantissimi soldi sull’esportazione di petrolio e gas, utilizzando questi soldi per la guerra e non solo contro l’Ucraina perché il loro obiettivo è l’Europa: è influenzare le vostre vite, avere il controllo sulla vostra politica, distruggere i vostri valori, la democrazia, i diritti dell’uomo, la libertà. L’Ucraina è il cancello per l’esercito russo e loro vogliono entrare in Europa: ma la barbarie non deve entrare». Zelensky sottolinea che l’Ucraina «è sempre stato uno dei principali esportatori a livello globale, ma come possiamo seminare sotto l’artiglieria russa? Non sappiamo come avremo i raccolti e se possiamo esportare. Non possiamo esportare il mais, l’olio, il frumento e altri prodotti. Tutti quanti gli oligarchi russi», dice ancora il leader di Kiev, «utilizzano l’Italia come luogo per le loro vacanze: non dovete essere il luogo che accoglie queste persone, dobbiamo bloccare e congelare tutti i loro immobili, i loro conti, i loro yacht da Scheherazade fino ai più piccoli dobbiamo congelare tutti i beni di tutti quanti, di tutti quelli che in Russia hanno la forza di decidere. Dobbiamo usare le sanzioni per la pace, dovete sostenere anche l’embargo contro le navi russe che entrano nei vostri porti e non dovete assolutamente permettere eccezioni per qualsiasi banca russa».
Sanzioni e pace: Zelensky non fa cenno a armi e terze guerre mondiali, ma chiede piuttosto di sequestrare lo Scheherazade, il megayacht attualmente ormeggiato nel porto di Marina di Carrara, lungo 140 metri, con due eliporti, cinema e piscina che secondo alcuni apparterrebbe a Vladimir Putin. Standing ovation d’ordinanza dei parlamentari, poi prende la parola Draghi e i toni verso la Russia e Putin sono quelli del «falco»: «L’arroganza del governo russo», dice il presidente del Consiglio, «si è scontrata con la dignità del popolo ucraino, che è riuscito a frenare le mire espansionistiche di Mosca e a imporre costi altissimi all’esercito invasore. La resistenza di Mariupol, Kharkiv, Odessa, e di tutti i luoghi su cui si abbatte la ferocia del presidente Putin, è eroica». Draghi ricorda «l’accoglienza dei rifugiati, oltre 60.000 dall’inizio della guerra, la maggior parte dei quali donne e minori. Perché davanti all’inciviltà l’Italia non intende girarsi dall’altra parte. Le sanzioni che abbiamo concordato insieme ai nostri partner europei e del G7 hanno l’obiettivo di indurre il governo russo a cessare le ostilità e a sedersi con serietà, soprattutto con sincerità, al tavolo dei negoziati. Allo stesso tempo, vogliamo disegnare un percorso di maggiore vicinanza dell’Ucraina all’Europa. Nelle scorse settimane», argomenta Draghi, «è stato sottolineato come il processo di ingresso nell’Unione europea sia lungo, fatto di riforme necessarie a garantire un’integrazione funzionante. Voglio dire al presidente Zelensky che l’Italia è al fianco dell’Ucraina in questo processo. L’Italia vuole l’Ucraina nell’Unione europea». Percorso lungo, sottolinea Draghi, che ricorda la necessità di riforme. «Di fronte ai massacri», sottolinea ancora il premier, «dobbiamo rispondere con gli aiuti, anche militari, alla resistenza».
Gazzarra per il forfait di Petrocelli
È stata una risposta un po’ pigra, quella del Parlamento italiano, al discorso in videoconferenza del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Non si può parlare di flop, ma i navigatori esperti del Transatlantico, una volta entrati in tribuna, hanno constatato che il colpo d’occhio dell’Aula era illusorio: se è vero che l’emiciclo risultava quasi pieno, è anche vero che si trattava di una seduta comune (come accade, per intenderci, per l’elezione del presidente della Repubblica) e che quindi era stato allestito per accogliere quasi 1.000 persone. Il che significa che al pieno dei banchi si sarebbe dovuto aggiungere quello delle tribune che li sovrastano, che invece sono rimaste vuote, eccezion fatta, ovviamente, per quella riservata ai giornalisti.
Al netto delle assenze politiche, dunque, non sono mancati i «furbetti» che, approfittando del fatto che si trattasse di una seduta informale e come tale non inserita nell’ordine del giorno (quindi senza registrazione delle presenze), non si sono fatti vivi all’appuntamento. Il numero totale dei parlamentari mancanti, secondo una stima sommaria, ammonterebbe a circa 350. Tra questi, era stata annunciata ed è stata confermata la defezione degli esponenti di Alternativa, che hanno parlato di «spettacolarizzazione della guerra», mentre i parlamentari del movimento Italexit, fondato da Gianluigi Paragone, hanno motivato la loro assenza con il fatto che, a loro avviso, il leader ucraino «non è un ambasciatore di pace». Chi ha fatto più rumore, però, è stato il presidente della commissione Esteri del Senato, il grillino Vito Petrocelli, da giorni nell’occhio del ciclone per le sue posizioni filo Putin: dopo aver disertato il discorso di Zelensky, nel pomeriggio ha di fatto annunciato il suo passaggio all’opposizione, affermando di non voler più votare la fiducia a un governo «cobelligerante» aggiungendo di non avere però intenzione di abbandonare la poltrona. Una situazione che promette sviluppi, visto che da una parte sta montando il pressing dei partiti di maggioranza per ottenerne le dimissioni e, dall’altra, Petrocelli si è posto alla testa di una fronda interna, reclamando una «discussione nel Movimento». Per il leader, Giuseppe Conte, però, con le sue dischiarazioin già «si pone fuori dal M5s».
I capi di partito quali Enrico Letta, Matteo Salvini, Matteo Renzi e Giorgia Meloni erano tutti presenti e molte sono state le manifestazioni di solidarietà al presidente e al popolo ucraino: oltre alle due standing ovation tributate a Zelensky all’inizio e alla fine del suo discorso (il conteggio arride però al premier Mario Draghi, che ha parlato dopo di lui e ha incassato dieci applausi), molti parlamentari sono giunti a Montecitorio indossando spille, nastrini o coccarde recanti i colori dell’Ucraina. C’è anche chi ha fatto di più, come Forza Italia, i cui esponenti hanno sistemato la bandiera giallo-blu dell’Ucraina sui loro banchi o come la senatrice altoatesina Julia Unterberger, che si è presentata come bandiera umana, indossando una giacca gialla e una sciarpa blu. Una menzione a parte meritano i parlamentari del Pd, o meglio le parlamentari, arrivate alla Camera con un nastro rosso al braccio che voleva porre l’accento sul dramma degli stupri di guerra, ma che ha rischiato di diventare un boomerang ed è stato frettolosamente messo da parte. A seduta iniziata, infatti, si è sparsa la voce che il nastro scarlatto potesse essere confuso con un similare orpello propagandistico russo e che quindi fosse opportuno eclissarlo.
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Il presidente chiede solo embarghi e il sequestro dello yacht dello zar. Il paragone con Genova, però, stizzisce il sindaco: «Noi già bombardati». I toni bellicisti li usa il premier: «Cremlino arrogante, giusti gli aiuti militari».Il grillino Vito Petrocelli molla il governo: «Vuole il conflitto». Per Giuseppe Conte è fuori, i partiti: «Si dimetta». Ma lui rimane in commissione Esteri. Gaffe delle piddine sul nastro rosso per le ucraine.Lo speciale contiene due articoli. Alla fine il discorso bellicoso lo fa Mario Draghi, e quello moderato Volodymyr Zelensky: capovolgendo i pronostici della vigilia, l’intervento di ieri del presidente ucraino al Parlamento italiano in seduta congiunta è all’insegna della moderazione, considerati i precedenti, mentre i toni del nostro premier sono assai battaglieri. Sarà perché poco prima di collegarsi con Montecitorio ha parlato al telefono con papa Francesco, che pochi giorni fa ha definito «uno scandalo terribile» la spesa per le armi, fatto sta che Zelensky, per la prima volta in questo suo tour virtuale di discorsi a vari parlamenti occidentali non chiede più armi, non chiede la no fly zone sull’Ucraina, insomma si trasforma, o tenta di farlo, da «falco» a «colomba». «Caro popolo italiano», esordisce Zelensky, «oggi ho parlato con Sua Santità papa Francesco e lui ha detto parole molto importanti: “Capisco che voi desiderate la pace, capisco che dovete difendervi, i militari difendono i civili, difendono la propria patria, ognuno la difende”. E io ho risposto che il nostro popolo è diventato l’esercito, quando ha visto che male porta con sé il nemico, quanta devastazione lascia dietro di sé e quanto spargimento di sangue vuole vedere. La guerra continua», aggiunge Zelensky, «i missili russi, l’aviazione, l’artiglieria non smettono di uccidere. Le città ucraine vengono distrutte, alcune sono completamente distrutte, come Mariupol, sulla costa del mare d’Azov, dove c’erano circa mezzo milione di persone come nella vostra città di Genova dove sono stato. A Mariupol non c’è più niente, solo rovine. Immaginate una Genova completamente bruciata dopo tre intere settimane di assedio, di bombardamenti, di spari che non smettono neanche un minuto. Immaginate la vostra Genova dalla quale scappano le persone a piedi, con le macchine, con i pullman, per arrivare dove è più sicuro. Questo è stato fatto in Europa per l’ultima volta dai nazisti», sottolinea il leader ucraino, «quando stavano occupando altri Paesi». In realtà, più che immaginare, basta ricordare: Genova ha subito pesanti bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. Lo ricorda a Zelensky il sindaco del capoluogo ligure, Marco Bucci: «Capisco che lui abbia citato Genova», dice Bucci, «certamente noi non vogliamo immaginare Genova bombardata, da un certo punto di vista possiamo considerare quasi un complimento il fatto che abbia citato noi, e ribadiamo che la nostra città vuole solo la pace. Genova ha già subito bombardamenti, e molti, nella storia», ricorda Bucci, «durante la seconda guerra mondiale è stato terribile e assolutamente non possiamo immaginare che si ripeta qualcosa di simile». «Signori, popolo italiano», prosegue Zelensky, «bisogna fare il possibile per garantire la pace. La guerra è stata organizzata per decine di anni da una sola persona, guadagnando tantissimi soldi sull’esportazione di petrolio e gas, utilizzando questi soldi per la guerra e non solo contro l’Ucraina perché il loro obiettivo è l’Europa: è influenzare le vostre vite, avere il controllo sulla vostra politica, distruggere i vostri valori, la democrazia, i diritti dell’uomo, la libertà. L’Ucraina è il cancello per l’esercito russo e loro vogliono entrare in Europa: ma la barbarie non deve entrare». Zelensky sottolinea che l’Ucraina «è sempre stato uno dei principali esportatori a livello globale, ma come possiamo seminare sotto l’artiglieria russa? Non sappiamo come avremo i raccolti e se possiamo esportare. Non possiamo esportare il mais, l’olio, il frumento e altri prodotti. Tutti quanti gli oligarchi russi», dice ancora il leader di Kiev, «utilizzano l’Italia come luogo per le loro vacanze: non dovete essere il luogo che accoglie queste persone, dobbiamo bloccare e congelare tutti i loro immobili, i loro conti, i loro yacht da Scheherazade fino ai più piccoli dobbiamo congelare tutti i beni di tutti quanti, di tutti quelli che in Russia hanno la forza di decidere. Dobbiamo usare le sanzioni per la pace, dovete sostenere anche l’embargo contro le navi russe che entrano nei vostri porti e non dovete assolutamente permettere eccezioni per qualsiasi banca russa». Sanzioni e pace: Zelensky non fa cenno a armi e terze guerre mondiali, ma chiede piuttosto di sequestrare lo Scheherazade, il megayacht attualmente ormeggiato nel porto di Marina di Carrara, lungo 140 metri, con due eliporti, cinema e piscina che secondo alcuni apparterrebbe a Vladimir Putin. Standing ovation d’ordinanza dei parlamentari, poi prende la parola Draghi e i toni verso la Russia e Putin sono quelli del «falco»: «L’arroganza del governo russo», dice il presidente del Consiglio, «si è scontrata con la dignità del popolo ucraino, che è riuscito a frenare le mire espansionistiche di Mosca e a imporre costi altissimi all’esercito invasore. La resistenza di Mariupol, Kharkiv, Odessa, e di tutti i luoghi su cui si abbatte la ferocia del presidente Putin, è eroica». Draghi ricorda «l’accoglienza dei rifugiati, oltre 60.000 dall’inizio della guerra, la maggior parte dei quali donne e minori. Perché davanti all’inciviltà l’Italia non intende girarsi dall’altra parte. Le sanzioni che abbiamo concordato insieme ai nostri partner europei e del G7 hanno l’obiettivo di indurre il governo russo a cessare le ostilità e a sedersi con serietà, soprattutto con sincerità, al tavolo dei negoziati. Allo stesso tempo, vogliamo disegnare un percorso di maggiore vicinanza dell’Ucraina all’Europa. Nelle scorse settimane», argomenta Draghi, «è stato sottolineato come il processo di ingresso nell’Unione europea sia lungo, fatto di riforme necessarie a garantire un’integrazione funzionante. Voglio dire al presidente Zelensky che l’Italia è al fianco dell’Ucraina in questo processo. L’Italia vuole l’Ucraina nell’Unione europea». Percorso lungo, sottolinea Draghi, che ricorda la necessità di riforme. «Di fronte ai massacri», sottolinea ancora il premier, «dobbiamo rispondere con gli aiuti, anche militari, alla resistenza». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aula-draghi-zelensky-discorso-2657019552.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="gazzarra-per-il-forfait-di-petrocelli" data-post-id="2657019552" data-published-at="1647991484" data-use-pagination="False"> Gazzarra per il forfait di Petrocelli È stata una risposta un po’ pigra, quella del Parlamento italiano, al discorso in videoconferenza del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Non si può parlare di flop, ma i navigatori esperti del Transatlantico, una volta entrati in tribuna, hanno constatato che il colpo d’occhio dell’Aula era illusorio: se è vero che l’emiciclo risultava quasi pieno, è anche vero che si trattava di una seduta comune (come accade, per intenderci, per l’elezione del presidente della Repubblica) e che quindi era stato allestito per accogliere quasi 1.000 persone. Il che significa che al pieno dei banchi si sarebbe dovuto aggiungere quello delle tribune che li sovrastano, che invece sono rimaste vuote, eccezion fatta, ovviamente, per quella riservata ai giornalisti. Al netto delle assenze politiche, dunque, non sono mancati i «furbetti» che, approfittando del fatto che si trattasse di una seduta informale e come tale non inserita nell’ordine del giorno (quindi senza registrazione delle presenze), non si sono fatti vivi all’appuntamento. Il numero totale dei parlamentari mancanti, secondo una stima sommaria, ammonterebbe a circa 350. Tra questi, era stata annunciata ed è stata confermata la defezione degli esponenti di Alternativa, che hanno parlato di «spettacolarizzazione della guerra», mentre i parlamentari del movimento Italexit, fondato da Gianluigi Paragone, hanno motivato la loro assenza con il fatto che, a loro avviso, il leader ucraino «non è un ambasciatore di pace». Chi ha fatto più rumore, però, è stato il presidente della commissione Esteri del Senato, il grillino Vito Petrocelli, da giorni nell’occhio del ciclone per le sue posizioni filo Putin: dopo aver disertato il discorso di Zelensky, nel pomeriggio ha di fatto annunciato il suo passaggio all’opposizione, affermando di non voler più votare la fiducia a un governo «cobelligerante» aggiungendo di non avere però intenzione di abbandonare la poltrona. Una situazione che promette sviluppi, visto che da una parte sta montando il pressing dei partiti di maggioranza per ottenerne le dimissioni e, dall’altra, Petrocelli si è posto alla testa di una fronda interna, reclamando una «discussione nel Movimento». Per il leader, Giuseppe Conte, però, con le sue dischiarazioin già «si pone fuori dal M5s». I capi di partito quali Enrico Letta, Matteo Salvini, Matteo Renzi e Giorgia Meloni erano tutti presenti e molte sono state le manifestazioni di solidarietà al presidente e al popolo ucraino: oltre alle due standing ovation tributate a Zelensky all’inizio e alla fine del suo discorso (il conteggio arride però al premier Mario Draghi, che ha parlato dopo di lui e ha incassato dieci applausi), molti parlamentari sono giunti a Montecitorio indossando spille, nastrini o coccarde recanti i colori dell’Ucraina. C’è anche chi ha fatto di più, come Forza Italia, i cui esponenti hanno sistemato la bandiera giallo-blu dell’Ucraina sui loro banchi o come la senatrice altoatesina Julia Unterberger, che si è presentata come bandiera umana, indossando una giacca gialla e una sciarpa blu. Una menzione a parte meritano i parlamentari del Pd, o meglio le parlamentari, arrivate alla Camera con un nastro rosso al braccio che voleva porre l’accento sul dramma degli stupri di guerra, ma che ha rischiato di diventare un boomerang ed è stato frettolosamente messo da parte. A seduta iniziata, infatti, si è sparsa la voce che il nastro scarlatto potesse essere confuso con un similare orpello propagandistico russo e che quindi fosse opportuno eclissarlo.
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
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