Arsenale in cantina e giri sospetti. L’indagine mai iniziata sulle nuove Br

La storia che state per leggere vi sembrerà sicuramente paradossale, nell'Italia dove il garantismo è morto e in cui i telefoni finiscono sotto controllo al minimo sospetto, e spesso per le ipotesi di reato più stravaganti. Eppure (a parte i nomi, che sono di fantasia) è una storia vera. Da una parte ci sono investigatori che segnalano una pista interessante e preoccupante, che parte da un deposito di armi rubate e ombreggia un ritorno di terrorismo rosso. E dall'altra c'è una magistratura che invece stabilisce non debbano esserci né intercettazioni, né pedinamenti, né approfondimenti. Nulla.
La nostra strana storia comincia con tre carabinieri, impegnati in un'operazione antidroga. È l'11 settembre 2018, e i tre sono in borghese su un'auto civetta che si muove lenta per le vie di Casal Bruciato, periferia est di Roma. Non è un quartiere facile, Casal Bruciato: hashish ed ecstasy girano a quintali, ogni tanto c'è chi spara e capita anche il morto. I carabinieri passano davanti a un bar, ritrovo abituale di spacciatori e tossici. E qui notano un uomo con la maglietta rossa che scende da una Ford Fiesta e si mette a parlare con un tizio calvo e barbuto.
Qualcosa in loro insospettisce i militari. Così lasciano l'auto, si dividono e si appostano poco distante. Ma i due sconosciuti sono all'erta: si accorgono di essere osservati e di colpo, senza nemmeno salutarsi, si separano. Il barbuto svanisce nei vicoli, così i carabinieri si concentrano sull'altro. Quando sta per risalire in auto, lo circondano e lo perquisiscono. Poi controllano la Fiesta. Non trovano la droga, ma un lungo coltello a serramanico. L'uomo, che intanto è stato identificato in Giovanni A., un cinquantenne disoccupato e senza precedenti penali, è stranamente agitato. Continua a guardarsi attorno, come temesse di veder arrivare qualcuno. I militari scoprono che un mese prima è già stato fermato per un controllo ed era in compagnia di due spacciatori. Decidono quindi di perquisirgli la casa, che è lì vicino. Qui, da un balcone, saltano fuori altri cinque lunghi coltelli, un pugnale e due baionette.
Quando i carabinieri scendono in cantina per chiudere la perquisizione, man mano che aprono porte Giovanni A. diventa sempre più nervoso. I carabinieri ne capiscono il perché quando, in un'ultima stanzetta, scovano un arsenale. Cinque pistole: due grosse Beretta, una calibro 9 «parabellum» e una calibro 9 a canna corta; una Browning calibro 7,65; una Glock calibro 9 per 21; e, ciliegina sulla torta, una Beretta calibro 22 con matricola abrasa.
Tutte le pistole sono oliate e funzionanti, sono cariche, hanno il colpo in canna e perfino il cane alzato. Nella cantina vengono recuperati anche oltre 60 proiettili. Pistole, coltelli e munizioni vengono sequestrati, mentre Giovanni A. viene arrestato per detenzione illecita di armi, un reato per il quale il codice prevede fino a 12 mesi di reclusione.
Nel loro rapporto, però, i carabinieri segnalano ben altro. Ed è proprio qui che la nostra storia diventa interessante (e paradossale). Perché, entrando nel condominio, gli investigatori hanno notato un terzo uomo: sostava sul ciglio della strada in sella a una Honda con il motore acceso. Sembrava stesse aspettando qualcuno. Alla vista del gruppo, proprio mentre Giovanni A. valicava il portone tra i militari in borghese, il motociclista ha sgommato e s'è allontanato di gran carriera. Un comportamento così anomalo che subito sono state condotte verifiche sulla sua targa, e si è scoperto che si tratta di Davide U., un cinquantenne pregiudicato per reati minori.
Dalle sue note giudiziarie emerge però un'altra sorpresa, che ai carabinieri fa drizzare le antenne (e i capelli). Una ventina d'anni fa, infatti, Davide U. è stato indagato nell'inchiesta romana sulle nuove Brigate rosse e per l'omicidio del professor Massimo D'Antona, il giuslavorista ucciso il 20 maggio 1999 a colpi di pistola. A suo tempo, Davide U. è stato scagionato. Ma la nuova ipotesi di un collegamento con Giovanni A., e soprattutto con l'arsenale nascosto in cantina, spingono i carabinieri a chiedere alla magistratura il via libera urgente a un'indagine. Tanto più che tre delle pistole sequestrate risultano rubate tra il 2007 e il 2010, e nella rubrica del cellulare di Giovanni A. sono annotati due soli numeri, intestati formalmente a un ucraino e a un egiziano. Insomma, le stranezze sono tante. Troppe.
Ipotizzando che la cantina di Casal Bruciato possa essere qualcosa di più di un deposito d'armi che «scottano» per la loro provenienza furtiva, sei mesi fa i carabinieri vorrebbero mettere sotto controllo Davide U., per capire se davvero abbia qualcosa a che fare con il fermato e con le pistole. Magari per scoprire con sollievo di tutti che la pista è del tutto infondata, proprio com'era stato vent'anni fa per quella relativa all'omicidio D'Antona. L'ipotesi opposta, è evidente, è invece molto preoccupante: perché se i carabinieri hanno visto giusto, a Roma potrebbe esserci una cellula «dormiente» delle nuove Br.
È così? Oppure sono solo coincidenze? Purtroppo non lo sapremo mai. Perché a sorpresa, mentre in Italia si intercettano tutti, perfino i calciatori sospettati di avere venduto una partita, ai carabinieri la magistratura romana ha risposto picche, non rilevando alcuna necessità di indagini. Così il 12 marzo 2019 sono trascorsi i sei mesi della custodia cautelare di Giovanni A., e il fermato ora può tornare in libertà. Mentre Davide U. chissà dov'è.






