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2022-03-30
Armi, da Draghi ultimatum a Conte: «O si rispettano gli impegni o a casa»
Giuseppe Conte (Imagoeconomica)
La crisi di governo diventa una prospettiva concreta dopo l’incontro di ieri tra il premier Mario Draghi e il leader del M5s, Giuseppe Conte. Al termine di un’ora e mezza di colloquio, Draghi è talmente infuriato per il voltafaccia di Conte sull’aumento delle spese militari al 2% che decide di recarsi dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, per riferire del contenuto del colloquio con Giuseppi. Inevitabile per il premier informare il presidente della Repubblica che la principale forza di maggioranza in parlamento, il M5s, ha confermato il cambio di rotta e la contrarietà all’aumento delle spese militari. Facile immaginare la preoccupazione di Mattarella per la instabilità della maggioranza in una fase così delicata. L’irritazione di Draghi per la tigna con la quale Conte sta mantenendo la posizione propagandistica del «no» all’aumento al 2% delle spese militari, dopo che appena due settimane fa il M5s aveva votato a favore dell’ordine del giorno che prevedeva l’aumento stesso, è inevitabile. A quanto filtra da Palazzo Chigi, Draghi avrebbe fatto presente a Conte che «il governo intende rispettare e ribadire con decisione gli impegni Nato sull’aumento delle spese militari al 2% del Pil. Non possono essere messi in discussione gli impegni assunti, in un momento così delicato alle porte dell’Europa. Se ciò avvenisse», avrebbe aggiunto Draghi, «verrebbe meno il patto che tiene in piedi la maggioranza». Parole dure come pietre, che segnalano che la pazienza del presidente del Consiglio è finita. «I piani concordati», avrebbe sottolineato Draghi a Conte, «e seguiti dai vari governi che si sono succeduti, prevedono entro il 2024 un continuo progressivo aumento degli investimenti. Il bilancio della difesa nel 2018 era sostanzialmente uguale al 2008. Nel 2018 si registravano circa 21 miliardi, nel 2021 24,6 miliardi con un aumento del 17 per cento: questi sono i dati del ministero della Difesa nei governi Conte. Tra il 2021 e il 2022 il bilancio della Difesa sale invece a 26 miliardi: un aumento del 5,6 per cento».
I dati spiattellati in faccia a Conte da parte di Draghi sono un altro indice del fatto che la temperatura tra il premier e il suo predecessore è incandescente. Gli sviluppi di questa clamorosa rottura sono imprevedibili: Conte potrebbe approfittarne per sfilarsi dalla maggioranza, o farsi sbattere all’opposizione, lucrando poi elettoralmente sulla crisi, urlando ai suoi elettori di aver tenuto fermo il punto del «no» all’aumento delle spese militari senza badare alle poltrone ministeriali (che tra l’altro sono occupare per lo più da esponenti del M5s non a lui fedeli). Un’altra ipotesi che circola è quella di una spaccatura definitiva del M5s, con Luigi Di Maio che resta in maggioranza con i parlamentari a lui vicini. Da non escludere che Conte, di fronte alla durezza di Draghi, faccia un passo indietro. A Mattarella, Draghi potrebbe aver ventilato la necessità di un rimpasto di governo, per sostituire i ministri pentastellati. Dal Quirinale, si limitano a confermare che Draghi ha informato il presidente della Repubblica sui temi legati alle spese militari e sulle posizioni all’interno della maggioranza riguardo a queste decisioni. La situazione dunque precipita: secondo fonti del Nazareno, il segretario del Pd, Enrico Letta, segue con preoccupazione lo scontro tra il premier Draghi e il leader M5s Conte. Già ieri pomeriggio, mentre Conte tentava di spiegare a Draghi i motivi del voltafaccia dei pentastellati, in Commissione congiunta Esteri e Difesa del Senato, mentre si discuteva del dl Ucraina, era già andata in scena la bagarre più totale.
Il governo, infatti, ha accolto l’ordine del giorno presentato da Fratelli d’Italia che riprende esattamente quello approvato alla Camera, con il «sì» del M5s, prima della conversione di Conte sulla via del pacifismo, che prevede l’aumento al 2% delle spese militari entro il 2024. Il partito di Giorgia Meloni non ha chiesto di mettere l’odg in votazione «perché per noi», ha spiegato la senatrice di Fdi Isabella Rauti all’Adnkronos, «l’obiettivo è stato raggiunto». Ma c’è dell’altro: «Il nostro odg», ha spiegato il capogruppo di Fdi al Senato, Luca Ciriani, «che peraltro ricalca sia quello approvato alla Camera che le parole di Draghi, ora che è stato accolto dal governo fa parte integrante del testo, e quindi vedremo cosa farà il M5s in aula sulla inevitabile fiducia, viste le divisioni nella maggioranza». Alla Verità, Ciriani ha sottolineato anche che «non venti anni fa, ma pochi giorni fa, alla Camera, il M5s ha votato a favore di un identico ordine del giorno. Ricordiamo che quando Conte è stato presidente del Consiglio ha rispettato sempre gli impegni con la Nato. È difficile», ha aggiunto Ciriani, «spiegare che quello che valeva allora oggi non vale più».
Già domani il dl Ucraina dovrebbe approdare in aula al Senato. Conte, al termine del colloquio con Draghi, ha commentato così la situazione: «In commissione», ha detto Conte, «c’era un ordine del giorno per il 2%, ma non c’è stato il voto, che il M5s chiedeva. Abbiamo discusso di questo con Draghi, e ci sono valutazioni diverse. Io ho rappresentato la posizione del M5s in modo molto franco. Gli italiani adesso hanno altre priorità. Nel Def ragionevolmente non ci sarà scritto qualcosa del genere», ha aggiunto Conte, «ma questo non toglie che è una prospettiva che dobbiamo affrontare. Il problema può essere procrastinato ma dobbiamo affrontarlo dal punto di vista politico».
Il superflop del candidato Giuseppi
Non è semplice essere (ri)eletti alla guida del M5s con il 94% dei voti eppure uscire politicamente e numericamente sconfitti dalla consultazione: Giuseppe Conte, però, ci è riuscito, e del resto l’ex premier e il suo guru della comunicazione Rocco Casalino hanno dimostrato in passato di essere capaci di qualunque impresa. La votazione online tra gli iscritti che si è svolta domenica e lunedì scorso, infatti, si è conclusa con la convalida della elezione di Conte alla guida del M5s, con il 94% di «sì».
La convalida si è resa necessaria dopo che il Tribunale di Napoli, lo scorso 7 febbraio, ha sospeso in via cautelare le due delibere votate online rispettivamente il 3 e il 6 agosto 2021, che portarono alla modifica dello statuto e alla elezione di Conte a leader dei pentastellati, accogliendo il ricorso di alcuni attivisti. L’8 marzo, inoltre, il Tribunale di Napoli ha rigettato l’istanza avanzata dal Movimento 5 stelle per la revoca dell’ordinanza di sospensione dello Statuto e della nomina di Conte. Giuseppi è andato avanti per la sua strada, riconvocando gli iscritti, e già si annunciano nuovi ricorsi.
Al di là della querelle legale, in ogni caso, veniamo ai numeri: alla votazione del 6 agosto 2021, avevano partecipato al voto 67.064 iscritti, mentre l’altro ieri i votanti sono stati 59.047. Anche le preferenze espresse a favore della leadership di Conte si sono ridotte: l’altro ieri sono state 55.618, a fronte di 62.242 nella precedente occasione. Conte, infine, ha ottenuto un numero di voti inferiore al 50% del totale degli aventi diritto, che sono 130.570. Dunque, è fallito miseramente il tentativo di alzare l’attenzione degli iscritti utilizzando in maniera propagandistica il «no» all’aumento delle spese militari al 2%.
Un Conte dimezzato quello che finge compiacimento per il risultato: «C’è molta soddisfazione per questa votazione», commenta Giuseppi, «perché si trattava di ripetere una votazione che c’era già stata. Per quanto riguarda il numero complessivo dei votanti, il record c’è stato con 70.000 votanti per la decisione se partecipare o meno al governo Draghi. L’altro ieri abbiamo raggiunto i quasi 60.000 iscritti», aggiunge, «e per una ripetizione di voto direi che si tratta di un fatto significativo visto che in genere le nostre votazioni oscillano sui 30.000 votanti».
Conte in sostanza esce col ciuffo assai ammaccato da questa votazione: aveva detto che non si sarebbe accontentato di un 50,1% dei voti e che in caso di un risultato deludente avrebbe lasciato il partito, e come abbiamo dimostrato numeri alla mano al 50,1% dei consensi rispetto agli iscritti non si è nemmeno avvicinato, ma la coerenza non fa parte del bagaglio politico del duo Conte-Casalino. Intanto, i big del M5s, ai quali è ben chiara la disfatta in termini numerico di Giuseppi, rilasciano dichiarazioni di circostanza: «Con la nuova elezione di Giuseppe Conte come presidente M5s», commenta il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, «il M5s fa un altro passo deciso in avanti. Complimenti anche a Laura Bottici, eletta componente del Comitato di garanzia, e a Danilo Toninelli, Fabiana Dadone e Barbara Floridia, eletti componenti del Collegio dei probiviri. Rimaniamo concentrati sulla guerra in Ucraina e i suoi effetti drammatici. L’Italia», aggiunge Di Maio, «lavora costantemente per mettere fine alle ostilità e tutelare gli italiani dalle conseguenze di questa atroce guerra». «L’elezione di Conte», sottolinea il presidente della Camera, Roberto Fico, «è una bella notizia rispetto alle questioni interne del movimento, poi politicamente si può parlare di tutto».
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Il governo non intende mettere in discussione la decisione sull’aumento delle spese militari al 2% del Pil. Imprevedibili gli sviluppi della rottura. E il premier, infuriato per il voltafaccia grillino, va da Sergio Mattarella.Il leader del M5s esce con il ciuffo ammaccato dalla ripetizione del voto tra gli iscritti. Era l’unico in corsa, ha raccolto il 94% dei favori, ma meno partecipanti e preferenze.Lo speciale contiene due articoli.La crisi di governo diventa una prospettiva concreta dopo l’incontro di ieri tra il premier Mario Draghi e il leader del M5s, Giuseppe Conte. Al termine di un’ora e mezza di colloquio, Draghi è talmente infuriato per il voltafaccia di Conte sull’aumento delle spese militari al 2% che decide di recarsi dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, per riferire del contenuto del colloquio con Giuseppi. Inevitabile per il premier informare il presidente della Repubblica che la principale forza di maggioranza in parlamento, il M5s, ha confermato il cambio di rotta e la contrarietà all’aumento delle spese militari. Facile immaginare la preoccupazione di Mattarella per la instabilità della maggioranza in una fase così delicata. L’irritazione di Draghi per la tigna con la quale Conte sta mantenendo la posizione propagandistica del «no» all’aumento al 2% delle spese militari, dopo che appena due settimane fa il M5s aveva votato a favore dell’ordine del giorno che prevedeva l’aumento stesso, è inevitabile. A quanto filtra da Palazzo Chigi, Draghi avrebbe fatto presente a Conte che «il governo intende rispettare e ribadire con decisione gli impegni Nato sull’aumento delle spese militari al 2% del Pil. Non possono essere messi in discussione gli impegni assunti, in un momento così delicato alle porte dell’Europa. Se ciò avvenisse», avrebbe aggiunto Draghi, «verrebbe meno il patto che tiene in piedi la maggioranza». Parole dure come pietre, che segnalano che la pazienza del presidente del Consiglio è finita. «I piani concordati», avrebbe sottolineato Draghi a Conte, «e seguiti dai vari governi che si sono succeduti, prevedono entro il 2024 un continuo progressivo aumento degli investimenti. Il bilancio della difesa nel 2018 era sostanzialmente uguale al 2008. Nel 2018 si registravano circa 21 miliardi, nel 2021 24,6 miliardi con un aumento del 17 per cento: questi sono i dati del ministero della Difesa nei governi Conte. Tra il 2021 e il 2022 il bilancio della Difesa sale invece a 26 miliardi: un aumento del 5,6 per cento».I dati spiattellati in faccia a Conte da parte di Draghi sono un altro indice del fatto che la temperatura tra il premier e il suo predecessore è incandescente. Gli sviluppi di questa clamorosa rottura sono imprevedibili: Conte potrebbe approfittarne per sfilarsi dalla maggioranza, o farsi sbattere all’opposizione, lucrando poi elettoralmente sulla crisi, urlando ai suoi elettori di aver tenuto fermo il punto del «no» all’aumento delle spese militari senza badare alle poltrone ministeriali (che tra l’altro sono occupare per lo più da esponenti del M5s non a lui fedeli). Un’altra ipotesi che circola è quella di una spaccatura definitiva del M5s, con Luigi Di Maio che resta in maggioranza con i parlamentari a lui vicini. Da non escludere che Conte, di fronte alla durezza di Draghi, faccia un passo indietro. A Mattarella, Draghi potrebbe aver ventilato la necessità di un rimpasto di governo, per sostituire i ministri pentastellati. Dal Quirinale, si limitano a confermare che Draghi ha informato il presidente della Repubblica sui temi legati alle spese militari e sulle posizioni all’interno della maggioranza riguardo a queste decisioni. La situazione dunque precipita: secondo fonti del Nazareno, il segretario del Pd, Enrico Letta, segue con preoccupazione lo scontro tra il premier Draghi e il leader M5s Conte. Già ieri pomeriggio, mentre Conte tentava di spiegare a Draghi i motivi del voltafaccia dei pentastellati, in Commissione congiunta Esteri e Difesa del Senato, mentre si discuteva del dl Ucraina, era già andata in scena la bagarre più totale.Il governo, infatti, ha accolto l’ordine del giorno presentato da Fratelli d’Italia che riprende esattamente quello approvato alla Camera, con il «sì» del M5s, prima della conversione di Conte sulla via del pacifismo, che prevede l’aumento al 2% delle spese militari entro il 2024. Il partito di Giorgia Meloni non ha chiesto di mettere l’odg in votazione «perché per noi», ha spiegato la senatrice di Fdi Isabella Rauti all’Adnkronos, «l’obiettivo è stato raggiunto». Ma c’è dell’altro: «Il nostro odg», ha spiegato il capogruppo di Fdi al Senato, Luca Ciriani, «che peraltro ricalca sia quello approvato alla Camera che le parole di Draghi, ora che è stato accolto dal governo fa parte integrante del testo, e quindi vedremo cosa farà il M5s in aula sulla inevitabile fiducia, viste le divisioni nella maggioranza». Alla Verità, Ciriani ha sottolineato anche che «non venti anni fa, ma pochi giorni fa, alla Camera, il M5s ha votato a favore di un identico ordine del giorno. Ricordiamo che quando Conte è stato presidente del Consiglio ha rispettato sempre gli impegni con la Nato. È difficile», ha aggiunto Ciriani, «spiegare che quello che valeva allora oggi non vale più».Già domani il dl Ucraina dovrebbe approdare in aula al Senato. Conte, al termine del colloquio con Draghi, ha commentato così la situazione: «In commissione», ha detto Conte, «c’era un ordine del giorno per il 2%, ma non c’è stato il voto, che il M5s chiedeva. Abbiamo discusso di questo con Draghi, e ci sono valutazioni diverse. Io ho rappresentato la posizione del M5s in modo molto franco. Gli italiani adesso hanno altre priorità. Nel Def ragionevolmente non ci sarà scritto qualcosa del genere», ha aggiunto Conte, «ma questo non toglie che è una prospettiva che dobbiamo affrontare. Il problema può essere procrastinato ma dobbiamo affrontarlo dal punto di vista politico».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/armi-draghi-ultimatum-conte-2657060544.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-superflop-del-candidato-giuseppi" data-post-id="2657060544" data-published-at="1648589966" data-use-pagination="False"> Il superflop del candidato Giuseppi Non è semplice essere (ri)eletti alla guida del M5s con il 94% dei voti eppure uscire politicamente e numericamente sconfitti dalla consultazione: Giuseppe Conte, però, ci è riuscito, e del resto l’ex premier e il suo guru della comunicazione Rocco Casalino hanno dimostrato in passato di essere capaci di qualunque impresa. La votazione online tra gli iscritti che si è svolta domenica e lunedì scorso, infatti, si è conclusa con la convalida della elezione di Conte alla guida del M5s, con il 94% di «sì». La convalida si è resa necessaria dopo che il Tribunale di Napoli, lo scorso 7 febbraio, ha sospeso in via cautelare le due delibere votate online rispettivamente il 3 e il 6 agosto 2021, che portarono alla modifica dello statuto e alla elezione di Conte a leader dei pentastellati, accogliendo il ricorso di alcuni attivisti. L’8 marzo, inoltre, il Tribunale di Napoli ha rigettato l’istanza avanzata dal Movimento 5 stelle per la revoca dell’ordinanza di sospensione dello Statuto e della nomina di Conte. Giuseppi è andato avanti per la sua strada, riconvocando gli iscritti, e già si annunciano nuovi ricorsi. Al di là della querelle legale, in ogni caso, veniamo ai numeri: alla votazione del 6 agosto 2021, avevano partecipato al voto 67.064 iscritti, mentre l’altro ieri i votanti sono stati 59.047. Anche le preferenze espresse a favore della leadership di Conte si sono ridotte: l’altro ieri sono state 55.618, a fronte di 62.242 nella precedente occasione. Conte, infine, ha ottenuto un numero di voti inferiore al 50% del totale degli aventi diritto, che sono 130.570. Dunque, è fallito miseramente il tentativo di alzare l’attenzione degli iscritti utilizzando in maniera propagandistica il «no» all’aumento delle spese militari al 2%. Un Conte dimezzato quello che finge compiacimento per il risultato: «C’è molta soddisfazione per questa votazione», commenta Giuseppi, «perché si trattava di ripetere una votazione che c’era già stata. Per quanto riguarda il numero complessivo dei votanti, il record c’è stato con 70.000 votanti per la decisione se partecipare o meno al governo Draghi. L’altro ieri abbiamo raggiunto i quasi 60.000 iscritti», aggiunge, «e per una ripetizione di voto direi che si tratta di un fatto significativo visto che in genere le nostre votazioni oscillano sui 30.000 votanti». Conte in sostanza esce col ciuffo assai ammaccato da questa votazione: aveva detto che non si sarebbe accontentato di un 50,1% dei voti e che in caso di un risultato deludente avrebbe lasciato il partito, e come abbiamo dimostrato numeri alla mano al 50,1% dei consensi rispetto agli iscritti non si è nemmeno avvicinato, ma la coerenza non fa parte del bagaglio politico del duo Conte-Casalino. Intanto, i big del M5s, ai quali è ben chiara la disfatta in termini numerico di Giuseppi, rilasciano dichiarazioni di circostanza: «Con la nuova elezione di Giuseppe Conte come presidente M5s», commenta il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, «il M5s fa un altro passo deciso in avanti. Complimenti anche a Laura Bottici, eletta componente del Comitato di garanzia, e a Danilo Toninelli, Fabiana Dadone e Barbara Floridia, eletti componenti del Collegio dei probiviri. Rimaniamo concentrati sulla guerra in Ucraina e i suoi effetti drammatici. L’Italia», aggiunge Di Maio, «lavora costantemente per mettere fine alle ostilità e tutelare gli italiani dalle conseguenze di questa atroce guerra». «L’elezione di Conte», sottolinea il presidente della Camera, Roberto Fico, «è una bella notizia rispetto alle questioni interne del movimento, poi politicamente si può parlare di tutto».
Per l’Ucraina nel 2026 si prospettava un buco di bilancio di 72 miliardi di euro. La Ue poteva (solo teoricamente) scegliere se coprire quel buco utilizzando i fondi russi sequestrati per la gran parte presso la società depositaria belga Euroclear oppure ricorrere, via bilancio Ue, alle tasche dei contribuenti.
La scelta è stata a favore di quest’ultima soluzione, con l’essenziale distinguo che qualsiasi conseguenza finanziaria, a partire dal pagamento degli interessi, di tale scelta non ricadrà sui contribuenti ungheresi, cechi e slovacchi.
È questa l’estrema sintesi della «non soluzione» adottata ormai all’alba di venerdì dal Consiglio europeo, con l’aggravante che, da ieri, la Ue non è più a 27 ma a 24. Perché Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca hanno fermamente rifiutato di dover subire le conseguenze finanziarie derivanti dagli oneri per interessi (certi) e capitale (quasi certo) di questa scelta. Quindi avanti a 24, perché l’articolo 20 del Trattato consente la cosiddetta «cooperazione rafforzata», quando un gruppo di almeno nove Stati membri intende avanzare in modo più integrato in ambiti di competenza non esclusiva dell’UE. Solo quando Viktor Orbán, Andrej Babiš e Robert Fico hanno dato semaforo verde a questa soluzione, il Consiglio è uscito da uno stallo che cominciava a diventare imbarazzante.
Ma si tratta di un minimo comune denominatore trovato all’ultimo, quando il piano A, strombazzato ai quattro venti da mesi, se non proprio dal marzo 2022, quando fu attuato il sequestro delle attività finanziarie russe, è miseramente fallito. La nota opposizione del Belgio e del suo premier, Bart De Wever, si è presto rivelata una posizione non isolata. Infatti c’erano già da tempo, ma covavano sottotraccia, le perplessità di due pesi massimi della Ue come Italia e Francia. Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron hanno avuto gioco relativamente facile nello smontare il castello di carte e artifici legali di dubbia solidità montato da Ursula von der Leyen. Tanto che su Politico.Eu sono state diverse le voci trapelate dall’interno del summit che hanno esplicitamente accusato la Commissione di non aver fornito sufficiente chiarezza sugli aspetti legali controversi dell’operazione basata sull’utilizzo dei fondi russi, al punto che il fronte dei dubbiosi si è rapidamente allargato e De Wever si è sentito in una botte di ferro nel continuare a fare il «poliziotto cattivo».
La soluzione adottata, a favore della quale è subito partito uno «spin» mediatico anche da parte di chi avrebbe dovuto scappare a nascondersi per il fallimento, come la Von der Leyen, ha comunque numerosi punti di vulnerabilità, su cui rischia ancora di inciampare seriamente.
Partiamo dal primo passaggio, quello dell’emissione obbligazionaria dedicata sui mercati da parte della Commissione, che potrebbe essere accolta con poco entusiasmo dagli investitori. Perché quei fondi andranno, poi, prestati all’Ucraina le cui probabilità di rimborso sono praticamente pari a zero. Infatti, nessuno ritiene probabile che la Russia pagherà mai riparazioni di guerra. Quindi gli interessi e il capitale resteranno a carico del bilancio Ue e, in ultima istanza, dei contribuenti di 24 Stati membri su 27. E gli investitori non hanno certo dimenticato quanto pubblicato il 7 dicembre sul Financial Times, estratto testualmente dalla proposta di regolamento della Commissione, che spingeva per la soluzione alternativa dell’utilizzo dei fondi russi: «La capacità della Ue e dei suoi Stati membri di fornire finanziamenti aggiuntivi all’Ucraina è attualmente limitata e non corrisponde all’entità del fabbisogno».
Invece, alla ventiquattresima ora, questa è diventata la soluzione. Lo spazio di manovra di bilancio che qualche settimana fa non esisteva, ieri si è materializzato per miracolo. Perché era l’ultima spiaggia prima del fallimento. Ma questo gli investitori lo sanno e lo faranno pesare, col rischio di aumentare la tensione in tutto il mercato dei titoli governativi, già teso per altri motivi. La foglia di fico, peraltro presente nel documento separato approvato da 25 Paesi, secondo cui i fondi russi «rimarranno bloccati e l’Unione si riserva il diritto di utilizzarli per rimborsare il prestito, in piena conformità del diritto dell’Ue e internazionale», lascia davvero il tempo che trova. Se la Commissione, in quattro anni di tentativi, non ha convinto nessuno circa l’utilizzo legittimo di quei fondi, cosa induce a pensare che riesca a farlo in futuro? Con l’ulteriore difficoltà che è ormai noto che quei fondi sono stati già «opzionati» come merce di scambio per chiudere il negoziato con Mosca promosso da Washington.
Poi c’è l’aspetto degli equilibri di finanza pubblica. I Parlamenti di Germania, Francia, Spagna e, in misura minore, l’Italia stanno cercando di definire da settimane le rispettive leggi di bilancio. Tra accese discussioni su tagli di spesa e aumenti di imposte, che talvolta valgono solo qualche manciata di milioni.
Quei parlamentari e i rispettivi elettori ora scoprono che, nel giro di poche ore, la Commissione - la cui maggior parte delle entrate deriva dai contributi degli Stati membri - ha trovato spazio di bilancio per coprire un prestito (nella sostanza, un sussidio) di 90 miliardi all’Ucraina, «anche per le sue esigenze militari». In particolare, in Germania, qualche oppositore interno di Friedrich Merz - che non gradiva la soluzione adottata proprio per non trovarsi in difficoltà sul fronte interno - potrebbe tornare a bussare alla Corte di Karlsruhe, obiettando che impegnare le risorse del contribuente tedesco, via bilancio Ue, è semplicemente incostituzionale perché di fatto esautora il Bundestag. E chissà che finalmente qualcuno si svegli anche in Italia.
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(Getty Images)
Lo so che vi ho già raccontato l’incredibile sentenza di cui sono vittima in quanto direttore di Panorama, ma passato il giorno e la sorpresa per la condanna, mi rendo conto che le querele minacciano la libertà di stampa più di quanto possa fare la politica o un editore. Può un sostantivo valere 80.000 euro? Può il diritto di critica verso operazioni dichiaratamente politiche essere negato con sanzioni pecuniarie? È evidente che nessuno degli attori dell’azione giudiziaria ha avuto un danno reputazionale, perché non è stato accusato di alcun orrendo delitto e ha potuto continuare a operare liberamente come prima e forse più di prima. E allo stesso tempo è lampante la sproporzione fra una critica e il risarcimento disposto in favore di chi non era neppure chiamato in causa, perché il suo nome non compariva sulla copertina del settimanale. Di questo passo, se io critico le aziende farmaceutiche per le procedure poco trasparenti sui vaccini, legittimo tutte le imprese del mondo che si occupano di sieri a fare causa, come ad esempio ha fatto una Ong tedesca, il cui rappresentante neppure parla l’italiano.
Tanto per farvi comprendere quanto sia assurdo ciò che è capitato, pensate che per ingiusta detenzione lo Stato riconosce a un innocente messo in galera 235,82 euro per ogni giorno passato dietro le sbarre. Una parola ritenuta fuori posto come «pirata» e perciò giudicata diffamatoria, pur se espressa una sola volta in una edizione, è stata invece sanzionata con 10.000 euro a testa in favore dei querelanti, più spese legali, con il risultato che il risarcimento assomma a oltre 80.000 euro, ovvero molto di più di quanto può incassare un povero cristo che si è visto mettere in prigione per un anno, avendo la vita e la reputazione rovinata prima di essere riconosciuto innocente.
Per incassare 80.000 euro Panorama deve vendere 30.000 copie in più rispetto a quelle che settimanalmente vengono acquistate all’edicola. Ed è abbastanza facile capire che bastano alcune sentenze come quella emessa dal tribunale per mandare in fallimento una testata. I giornali vivono di ciò che vendono, non dei soldi che incassano dalle querele. Anche quando viene data loro ragione, nessuno li risarcisce per la denuncia temeraria. Se va bene si vedono riconosciute le spese legali, che a volte non riescono a coprire l’intera parcella degli avvocati.
È questa la vera minaccia alla libertà di stampa, questo il bavaglio che si cerca di imporre a chi canta fuori dal coro. Il risultato è che gran parte dei giornali annacqua notizie e giudizi decidendo spesso di non pubblicare quelli scomodi. Sapete quante volte mi è capitato di sentirmi dire da colleghi che lavorano in altre testate: beati voi che potete scrivere liberamente, senza avere i limiti imposti dagli editori, dalle relazioni politiche e pure dalle minacce delle sentenze? Molte. Però non so in che cosa consista la nostra beatitudine, forse nell’incoscienza di non volerci fare imporre la mordacchia. Sta di fatto che per noi vale una regola semplice: pubblichiamo tutto, anche quello che gli altri preferiscono nascondere. E diciamo ciò che pensiamo, senza imbarazzi e senza censure. È successo con i vaccini e con il green pass e di recente con le frasi del consigliere di Sergio Mattarella che auspicava un «provvidenziale scossone» per cambiare la situazione politica. Succederà ancora. Perché come La Verità anche Panorama è un vascello corsaro, che non ha paura di chiamare le cose con il loro nome e non si fa fermare da chi vorrebbe impedirci di scriverle.
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