2022-09-14
«Armeni in pericolo, ma l’Ue aiuta solo Kiev»
Abrahamyan Vrtanes (Getty images)
Il vescovo del territorio conteso tra Armenia e Azerbaijan Abrahamyan Vrtanes: «La Turchia vuole il nostro sangue e i Paesi europei cristiani stanno a guardare. Non capiscono che il mondo islamico potrebbe unirsi e saremmo noi l’ultima porta chiusa a fermarne l’avanzata».Abrahamyan Vrtanes è vescovo della diocesi di Artsakh, il territorio qui conosciuto come Nagorno-Karabakh, da fin troppo tempo al centro di un conflitto fra Armenia e Azerbaijan che in questi giorni si è nuovamente infiammato. Il vescovo si trova in Lombardia, dove è stato invitato dall’associazione «Una voce nel silenzio» per una serie di incontri, utili a raccontare la situazione del suo popolo agli europei che, per lo più, la ignorano.Eccellenza, com’è la situazione nella sua terra? Proprio in queste ore sono ripresi i bombardamenti, e da decenni ormai siete al centro di una guerra.«Potrei dire che il Nagorno-Karabakh è la decima regione dell’Armenia. Su ogni chilometro quadrato abbiamo una chiesa o un monastero. Durante tutta la sua storia, nel Nagorno-Karabakh sono state costruite solamente tre moschee. La prima nella città di Şuşa, costruita dagli iraniani. Le altre due, piccole, sono state costruite nel Diciannovesimo secolo. Questa è una risposta a tutti coloro che attualmente pensano che il Nagorno-Karabakh sia una terra azera».In passato però il Nagorno-Karabakh è stato unito con l’Azerbaijan.«Il Nagorno-Karabakh è composto da due terre armene unite con l’Azerbaijan nel periodo dell’Urss a causa di interessi economici. Da lì in poi, l’Azerbaijan ha provato a svuotare i territori dagli armeni, facendoli andare via dalle proprie terre. Hanno chiuso tutte le chiese, in quel periodo, e vorrei far presente che nel mondo non esisteva neanche un Paese in cui non fosse presente nemmeno una struttura religiosa. Anche in Unione Sovietica, anche sotto le dittature: c’era comunque una struttura, una chiesa funzionava. Eppure nel Nagorno-Karabakh durante l’era sovietica erano chiuse tutte le chiese».Risulta che abbiate subito anche altre persercuzioni.«Agli scienziati armeni veniva tolto il lavoro. Sono state chiuse tutte le strade che collegavano l’Armenia con il Nagorno-Karabakh. Sono state distrutte, e non era possibile ricostruirle. Con violenza è stata imposta la lingua azera nelle scuole del Paese. Tutti i posti istituzionali erano soprattutto riservati agli azeri. Gli armeni non potevano averli. Se c’era un conflitto a livello giudiziario tra un armeno e un azero, era sicuramente previsto che vincesse un azero, i giudici favorivano gli azeri. Sembra incredibile, ma tutto questo è durato fino al 1988».Poi l’Unione Sovietica ha cominciato a sgretolarsi, e a voi che cosa è accaduto?«Noi abbiamo creduto a Gorbačëv, abbiamo iniziato a manifestare per staccarci dall’Urss e vivere liberi, come in un qualsiasi Stato democratico. Gorbačëv aveva proclamato che qualsiasi Paese volesse essere indipendente avrebbe potuto diventarlo. E invece…».E invece?«Invece abbiamo ottenuto morti e violenza. Tanti morti. Nel silenzio di Mosca sono successi i massacri di Sumgait, di Baku… Gli armeni sono stati deportati e uccisi, ed è iniziata la guerra».Dall’ascesa di Putin in avanti, però, la Russia ha in qualche modo sposato la vostra causa. Ora però c’è la guerra in Ucraina, e l’Azerbaijan è tornato a farsi sotto, supportato dal suo alleato storico, cioè la Turchia. Temete viste le circostanze di perdere l’aiuto russo?«Non possiamo dire “temere”: il timore è già incarnato dentro di noi, perché cose del genere le abbiamo già viste tante, troppe volte. L’appetito della Turchia non ha confine, vuole sempre il sangue degli armeni. Potrei fare un paragone molto banale: quando un lupo entra nel recinto degli agnelli, non è che uccide e mangia quelli che gli servono per saziarsi: li uccide tutti anche se ne mangia uno solo. E non è un caso che il simbolo della Turchia sia un lupo. Da sempre la Turchia approfitta delle situazioni di crisi che coinvolgono la Russia e l’Europa, agisce mentre loro sono occupate altrove. Per esempio, durante la I guerra mondiale, la Turchia ha compiuto il genocidio armeno. Ora l’Ue è distratta dai problemi relativi al gas e dalla guerra, e la Russia pure, dunque Ankara vuole continuare ciò che ha iniziato in passato. Saremmo davvero molto felici se il Gruppo di Minsk, presieduto da Russia, Usa e Francia, iniziasse di nuovo a lavorare e si occupasse di noi».Appare difficile, in questo momento. Anche perché qui è grande la solidarietà verso il popolo ucraino. Ma di ciò che accade nel Nagorno-Karabakh - anche se la situazione è per molti versi analoga - non importa a molti. Nemmeno alle nazioni a maggioranza cristiana.«Purtroppo tutte le circostanze sono contro di noi. Tutte le grandi nazioni cristiane sono lontane dall’Armenia. Non hanno interessi nel Nagorno-Karabakh. Attualmente l’Europa utilizza due standard diversi. Se invece guardasse oltre, al futuro, si renderebbe conto che tutto il mondo islamico potrebbe unirsi, e l’Armenia in quel caso sarebbe l’ultima porta chiusa che incontrerebbe nella sua avanzata. Né l’Europa né la Russia sembrano imparare dalla Storia, non ricordano come ha agito Ankara con loro in passato. E per il mio popolo è un dolore enorme vedere che non ci sono giustizia e verità».Ma con l’Ue siete riusciti ad avere un dialogo? C’è qualche nazione europea che ha dato segni d’interesse o avete ottenuto solo il silenzio totale?«Ci sono stati Paesi i cui presidenti hanno condannato Turchia e Azerbaijan per le aggressioni e la guerra. Ma un aiuto palpabile non l’abbiamo sentito. Se noi mettiamo sulla bilancia l’Armenia e l’Ucraina, vediamo che la nostra parte sparisce. Nessuno ha messo la mano sul tavolo e ha detto alla Turchia: «Guardate che non avete diritto di agire così». Nessuno ha detto che ci aiuterà, nessuno ha ipotizzato sanzioni. Noi abbiamo ottenuto soltanto parole, l’Ucraina ha avuto azioni concrete. Le dico di più: non sarei sorpreso se, fra un paio d’anni, al presidente dell’Azerbaijan - Ilham Aliyev - verrà dato il Nobel per la pace. Intanto noi veniamo uccisi».