2025-02-04
L’ex commissario sarà audito stamattina dalla bicamerale d’inchiesta. Tra le domande a cui deve ancora rispondere, quelle sulla maxi commessa di Dpi cinesi da 1,2 miliardi e il contratto fatto saltare con la Jc.Oggi l’ex commissario straordinario per l’emergenza Covid, Domenico Arcuri, risponderà finalmente alle domande. Nella sua precedente audizione del 16 gennaio alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, ilsuper tecnico si era limitato a presentare una relazione. Questa mattina, la versione dei fatti esposta da Arcuri, nominato il 18 marzo del 2020 dall’allora premier Giuseppe Conte «per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19», dovrà reggere alle richieste di chiarimento. Certo, il lavoro dei commissari non è stato agevolato dal procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, che come già evidenziato dalla Verità ha inviato con enorme ritardo e solo parzialmente la documentazione richiesta. Ufficialmente, i commissari non sono a conoscenza del contenuto degli atti di indagine, hanno ricevuto solo l’avviso di conclusione. Una grave scorrettezza, ma i quesiti da porre certo non mancano. Ieri, con l’intervista su Repubblica priva di domande scomode, l’operazione sant’Arcuri faceva apparire un perseguitato dalla giustizia e dalla maldicenza l’ex super commissario, che si occupò di mascherine, ventilatori, App Immuni, banchi scolastici e piano vaccini fino a quando venne sostituito con il generale Francesco Paolo Figliuolo dal successivo premier, Mario Draghi, il primo marzo del 2021. Durante l’audizione del 16 gennaio Arcuri, che nel frattempo è stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio nel processo sulla maxi commessa di mascherine perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato («sapevo di non aver fatto nulla e volevo un’assoluzione nel merito», si è lamentato sul quotidiano del gruppo Gedi»), aveva mostrato il consueto atteggiamento sprezzante. «Non ho mai partecipato al dibattito pubblico che si è sviluppato, con accenti e toni davvero inusuali, sul mio operato», esordiva, motivando così il suo silenzio durato quattro anni: «I cittadini che sono chiamati a svolgere un ruolo pubblico […], non devono partecipare a bagarre mediatiche, anche allorché le traiettorie delle stesse si allontanino, come purtroppo è reiteratamente avvenuto nel mio caso, dalla ricerca della verità dei fatti e si inebrino di presunzioni e suggestioni». La relazione, che doveva essere la versione di Arcuri «circa il reale andamento degli eventi», ha in realtà chiarito ben poco. L’ex super commissario si è dilungato nel descrivere come «una piccola società a responsabilità limitata di recente costituzione», «che non produceva dispositivi di protezione individuale» la Jc-Electronics Italia, il cui mancato rispetto del contratto di fornitura mascherina da parte della struttura commissariale è costato allo Stato 203.012.065 euro oltre gli interessi di mora e 119.000 euro di compensi professionali per i legali dell’azienda. Però l’ex uomo di fiducia di Conte non ha spiegato come mai aveva trovato affidabile la sconosciuta Luokai, una delle tre ditte cinesi dalle quali acquistò mascherine (per l’accusa aveva gestito le importazioni in modo da favorire Vincenzo Tommasi e Mario Benotti, oggi scomparso, due dei mediatori), malgrado fosse stata costituita il 10 aprile 2020, nel pieno della maxi commessa da 801 milioni di mascherine cinesi costate 1,2 miliardi di euro. E nemmeno ha chiarito se prese informazioni sulla Wenzhou light industrial, la società fornitrice di mascherine per 590 milioni di euro che, come poi emerso dalle indagini, secondo l’Unità di informazione finanziaria per l’Italia (la struttura di Bankitalia che si occupa della prevenzione di riciclaggio e finanziamento del terrorismo), risultava «beneficiaria di bonifici disposti da società italiane, segnalate in contesti astrattamente riconducibili alle frodi fiscali». Sempre sulle forniture di mascherine dai consorzi cinesi, Arcuri il 16 gennaio ha dichiarato: «I suddetti produttori cinesi hanno fornito 800 milioni di dispositivi, ovvero il 7,6% del totale dei dispositivi acquistati dal commissario. È una percentuale sideralmente lontana dal quasi monopolio delle forniture che alcuni, anche di recente, hanno reiteratamente provato - e continuano a provare - a far credere. Ripeto, il 7,6%. Purtroppo questa è un’evidenza taciuta e non lo dico soltanto per cortesia». Però, al 7 dicembre del 2020 (Arcuri lascerà l’incarico a fine febbraio 2021), nel riepilogo dei contratti che puntualmente aggiornava la Protezione civile, le mascherine Ffp3 arrivate dalle società cinesi furono 231.617.647 su un totale di 238.617.647. Per questo tipo di dispositivo, la fornitura in quel momento rappresentava più del 97% del materiale acquistato. Come lo spiega? Tra le domande a cui l’ex commissario oggi dovrebbe essere chiamato a rispondere, c’è il motivo per cui scartò 541 offerte arrivate da diversi fornitori, privilegiando quelle dei tre consorzi cinesi. Un altro punto mai chiarito, è perché sia stata accettata la consegna di mascherine, che in base ai contratti di fornitura, dovevano essere corredate dalla certificazione Ce, della quale però, al momento dell’arrivo dei cargo, sono risultate prive. Arcuri, inoltre, dovrebbe spiegare se, dopo i primi sequestri dei dispositivi da parte della Procura di Gorizia, che li riteneva non a norma, abbia provveduto a informare le Protezioni civili delle varie regioni, chiedendo loro di allertare le strutture che le avevano ricevute. Nella precedente audizione ha dichiarato di aver «subito un procedimento penale avviato sulla base della cervellotica ipotesi che la risoluzione del contratto con la Jc fosse preordinata a favore di un altro fornitore». Oggi deve anche spiegare come mai un super commissario che affermava di avere tutto sotto controllo, trascurò o non venne a conoscenza di «dettagli» così importanti su dispositivi di protezione facciale in un anno così drammatico della gestione sanitaria.
Bill Gates (Ansa)
Dalla Cop30 in Brasile i prelati lanciano un appello per la «conversione ecologica». Una linea cieca, a scapito dei credenti che cercano in Dio il mistero del sacro.
Ora anche Bill Gates cambia direzione sulla questione green e molti altri statunitensi importanti, anche a causa del crollo del mercato automobilistico, con un ritardo che solo dei testardi hanno potuto accumulare, si accorgono che andare dietro a un’ideologia senza fare di conto porta nel baratro. L’ideologia green produce leggi e regolamenti che non sono sostenibili, così come erano stati pensati, in particolare dell’Unione Europea, né dalle famiglie (vedi norme sulla casa con costi fra i 60 e i 70.000 euro ad abitazione), né dalle imprese (vedi per tutti quella automobilistiche con quella follia dell’auto elettrica). Se è arrivato a dirlo Bill Gates, il capitalista più stucchevolmente ideologizzato ma sempre con la mano sul portafoglio (per verificare se l’ideologia gli conviene o no), vuol dire che siamo al capolinea.
Donald Trump (Ansa)
L’emittente britannica insulta l’intelligenza del pubblico sostenendo che ha taroccato il discorso di Donald «senza malizia». Infatti si scusa ma respinge la richiesta di risarcimento per diffamazione. Nigel Farage: «Ora saremo noi a dover controllare loro».
«Involontariamente». Il numero uno della centenaria Bbc si aggrappa a un avverbio per non precipitare dall’ottavo piano della Broadcasting House di Londra con il peso di un miliardo di dollari sulle spalle, come da richiesta di risarcimento da parte di Donald Trump. «Unintentionally» è la parolina-paracadute consigliata dalla batteria di legali al presidente Samir Shah, 73 anni di origine indiana, nel tentativo di aiutarlo a ritrovare il sonno e a togliersi dall’angolo dopo lo scandalo del «taglia-e-cuce». Un crollo di credibilità per la storica emittente pubblica, piazzata nel quartiere di Westminster per controllare il potere ma finita nella battutaccia di Nigel Farage: «Ora saremo noi a dover controllare loro».
Sanae Takaichi (Ansa)
Scintille per Taiwan. Il premier giapponese rivendica pace e stabilità nell’isola: «In caso di attacco, reagiremo». Ira del governo cinese: convocato l’ambasciatore.
La tensione tra Cina e Giappone è tornata a livelli di allerta dopo una settimana segnata da scambi durissimi, affondi retorici e richiami diplomatici incrociati. Pechino ha infatti avvertito Tokyo del rischio di una «sconfitta militare devastante» qualora il governo giapponese decidesse di intervenire con la forza nella crisi di Taiwan, accompagnando il monito con un invito ufficiale ai cittadini cinesi a evitare viaggi in Giappone «nel prossimo futuro».






