2019-03-05
Archiviato il Bullo, parte la corte agli scontenti M5s
Dal 4 marzo 2018 al 4 marzo 2019. C'è voluto un anno esatto per arrivare ad avere un nuovo segretario del Partito democratico. Dodici mesi di discussioni e divisioni: un iter dovuto non tanto alla complessità delle procedure previste dallo statuto del Pd, ma alla resistenza del segretario uscente, deciso a non mollare la poltrona. Già, perché quello che doveva essere un addio immediato dopo la devastante sconfitta elettorale, con Matteo Renzi si è tramutato in un commiato al rallentatore. In cuor suo avrebbe voluto un'uscita di scena per finta, un po' come accadde il 4 dicembre del 2016, quando l'allora presidente del Consiglio fu costretto alle dimissioni dopo la batosta del referendum costituzionale. L'ex segretario - ora senatore - un anno fa provò a resistere, inventandosi un esonero condizionato («lascio, ma resto per controllare che non facciate il governo con i 5 stelle», disse ai compagni), ma le proteste lo indussero a fare le valigie all'istante. Una volta uscito dalla porta, però, Renzi ha tentato di rientrare dalla finestra, immaginando di continuare a guidare il partito per interposta persona. Fosse stato per lui ci avrebbe messo Luca Lotti o Maria Elena Boschi, cioè il braccio destro e quello sinistro. Alla fine si è dovuto accontentare di Roberto Giachetti, un simpatico signore transnazionale e transpartito (è stato radicale, verde, margheritino e infine piddino) che era riuscito a perdere perfino contro Virginia Raggi. Nei suoi piani, con l'aiuto di Maurizio Martina, Giachetti avrebbe dovuto fermare l'avanzata di Nicola Zingaretti, spingendolo sotto il 50% in modo da indurlo a trattare. È finita 65 a 11, con in mezzo a fare da sottiletta lo smilzo risultato del segretario reggente, Martina. La versione politica del commissario Montalbano, insomma, ha vinto a mani basse, e per uno Zingaretti che trionfa c'è un Renzi che affonda. Già, perché quello di domenica con le primarie è l'ennesimo fiasco dell'ex premier, forse quello definitivo. Prima ha perso il governo, poi ha perso la segreteria, ieri ha perso il partito. Nonostante abbia cercato in ogni modo di ostacolare il ricambio (ogni volta che doveva riunirsi la direzione per discutere del futuro del partito, Renzi escogitava qualunque cosa per attirare l'attenzione su di sé), con le primarie il Pd ha voltato pagina. A vincere è stata la vecchia guardia, quella incarnata dal partitone della capitale, vale a dire da Goffredo Bettini, Paolo Gentiloni, Walter Veltroni e compagnia. Si tratta di un ritorno al rosso antico, anche se l'etichetta è rinnovata dal volto meno usurato di Zingaretti. Ma lo stile della casa è noto, e finirà per produrre almeno un paio di conseguenze. La prima è la probabile uscita dal Pd dello stesso Renzi, il quale oggi ha un motivo in più per mollare gli ormeggi e fondare un suo partito. Con Zingaretti alla segreteria, per lui e per i suoi non c'è spazio e nonostante egli abbia annunciato di «voler collaborare lealmente», sarà impossibile che si rassegni al ruolo di «senatore semplice», come ama definirsi. La seconda è il riavvicinamento degli scappati di casa, ossia di Pier Luigi Bersani e compagni. Gli sfollati di Leu, in fondo, se ne sono andati in odio a Renzi, ma se l'ex segretario trasloca, dentro il partito si libera qualche spazio e dunque potrebbero rientrare nella ditta, come la chiamava Bersani.Ma questi sono rimescolamenti dentro il Pd, che fanno parte della tradizionale litigiosità della sinistra, la quale è più nota per le scissioni che per le unioni. Ciò detto, a cascata si potrebbero verificare anche dei contraccolpi nella maggioranza di governo, in particolare nella parte più scontenta del Movimento 5 stelle. In effetti, un Pd senza Renzi potrebbe attrarre gente del calibro di Roberto Fico, ossia la faccia sinistra dei grillini, i quali, se non riescono a mandare giù l'alleanza con la Lega di Matteo Salvini, potrebbero tranquillamente digerire quella con il Partito democratico di Nicola Zingaretti. Il governatore del Lazio, per di più, ha buoni rapporti con alcuni esponenti pentastellati, tra cui Roberta Lombardi, e dunque non c'è da escludere che provi a sfilare un po' di onorevoli in vista di futuri accordi. Che ci sia questo rischio deve averlo capito anche Luigi Di Maio il quale, un po' per stoppare le uscite e un po' per sfuggire all'abbraccio di Salvini, ieri ha proposto al neo segretario di varare insieme il salario minimo. Un segnale che non si sa se sia di distensione o di prevenzione.Tuttavia, un fatto appare certo: archiviata la stagione del renzismo, in parlamento si riaprono le danze. Prepariamoci dunque alle giravolte. Per ora, di ex fedelissimi dell'ex segretario che si convertiranno sulla via della Garbatella (dove ha sede la regione Lazio). Poi, forse, di qualche altro scappato di casa.
Attività all'aria aperta in Val di Fassa (Gaia Panozzo)
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