2023-09-30
Quegli antifascisti confusi orfani del fascismo
L’ultima opera di Francesco Borgonovo mette la pietra tombale sugli allarmi del ritorno al Ventennio e gli sconclusionati paragoni tra Mussolini e governo Meloni. Le manie di salottini tv e sinistra appaiono così per ciò che sono: tragiche commedie degli equivoci.Vengo meno a un fioretto fatto anni or sono - non dire più una parola in tema di fascismo - e lo faccio per amore del Borgonovo che mi chiede di leggere in anteprima e presentare a voi il suo libro. Faccio eccezione al proposito, non sciolgo il voto, e ne parlo qui e ora e poi mai più perché Francesco ha davvero messo la parola fine.Il buon Borgo ha piantato il chiodo all’infinita chiacchiera che si fa sul Ventennio dilatato nello sproposito della malevola vacuità nel nostro tempo, mettendo il punto sulla insopprimibile passione erotica che gli antifascisti in assenza di fascismo nutrono verso quella che a conti fatti è una mera proiezione del loro inconscio.C’è ovviamente un dato strumentale, un uso politico della storia, i protagonisti della scena di oggi - tutti alloggiati nel mainstream - agitano lo spettro come se nelle cattedre universitarie del mondo non ci siano stati i Renzo De Felice, i Zeev Sternhell e i George L. Mosse, sciorinano giaculatorie attingendo al corredo concettuale della neo-lingua ideologicamente corretta, sibilano suggestioni da cancel culture, ma la sostanza concreta del revisionismo, un sano distacco, non li tocca. Neppure l’evidente distanza ideologica tra il movimento che nasce con Benito Mussolini e la destra in sé, quella di oggi, li convince del loro abbaglio quando il fascismo - «immenso e rosso», come nella definizione di Giano Accame - è diametralmente contrapposto al conservatorismo, al moderatismo, all’estetica bottegaia e piccolo borghese di un destino post novecentesco.Invece no, ora e sempre allarme fascismo senza considerare il fondamentale dettaglio, e cioè che il fascismo non fu mai fascista. Non lo fu per come credono il «fascismo» sia, neppure il suo fondatore - un socialista interventista e massimalista - ebbe mai a immaginarsi fuori dallo schema rivoluzionario e se sto insistendo su questo, abbiate pazienza, lo faccio per infastidire La Stampa che mi ha annoverato tra i cattivi maestri solo per aver ricordato in un’intervista al Corriere di Calabria un dettaglio significativo: a Predappio, dove pure vanno tanti utili idioti a far pagliacciate assai utili allo status quo, nella casa dei Mussolini c’è la bandiera socialista, non quella «sovranista». E il Duce che comincia dalla Marcia su Roma e finisce a Salò raccomandando ai suoi fedelissimi di tornare, alla fine di tutto, alla casa madre - il partito socialista - è il paradigma di un Novecento in cui le masse sono parte attiva di ideologia e non di un’antropologia. Il fascismo non fu mai fascista per come lo intende una Michela Murgia, e non perché nell’Italia rurale Mussolini costringeva le massaie a lasciare il focolare per i saggi ginnici, ma per il diverso ruolo che la Grande Proletaria - per dirla con Giovanni Pascoli - aveva, al tempo, nella scena internazionale: un peso di assoluto rilievo riconosciuto dalle cancellerie e perfino da Hollywood se nel 1933 il film campione d’incassi è Mussolini speaks e i Sioux, i pellerossa, fanno di Italo Balbo il loro «Capo Aquila Volante».Il Borgo che la sa lunga spiega innanzitutto che il fascismo per come fu non c’entra nulla con quello che ogni sera raccon- tano a Otto e Mezzo e neppure c’entra con gli sparuti fascisti immaginari del folclore tanto attesi nelle ricorrenze civili. Sono quei pagliacci a servizio della parodia sempre mobilitati in quel triangolo delle Bermuda del calendario quando con le solennità anti tra 24+1 di aprile e Primo Maggio l’eterno dopoguerra finisce in commedia.Tutta di equivoci. Tragici. Il Borgo, che è fulminante nei suoi ragionamenti, spiega benissimo come l’orbace non c’entri col famoso discorso di Giorgia Meloni in Spagna al comizio di Vox e meno che mai, accusati di fascismo a turno, c’entrano gli altri moderati della coalizione conservatrice quando ormai quelli di Forza Italia, beati loro, sono solo a rimorchio del Pd.Quel che viene prima fa testo nell’uso strumentale dell’infinito fascismo. Berlusconi che fu il primo della lista ebbe a cedere il passo a Salvini fino ad arrivare oggi a Giorgia: Meloni fascista la prima della lista. L’antifascismo tiene in vita il fascismo. E come con la stagione dell’amore, quella degli anti, che viene e va. L’anti in perenne cerca di una destinazione d’uso ha la dualità propria dell’etimo. L’anti può essere, infatti - come nell’uso corrente - un «contro», oppure un «prima», appunto: quel che viene prima. Va e viene la stagione degli anti. E in assenza di fascismo, infatti, c’è l’emergenza orbace. L’anti perpetua la guerra civile e si è tutti - sotto il fuoco di fila dei giornali, delle trasmissioni tivù e della chiacchiera della Ztl - come Totò ne I tartassati. Ci si specchia nel dialogo tra il cavalier Torquato Pezzella - il commerciante perseguitato dal fisco - e il maresciallo della Tributaria Topponi. Quest’ultimo, ossia Aldo Fabrizi, nel bel mezzo dell’ispezione dice: «Ai tempi della buonanima…» e il povero tartassato allora, già consigliato di simpatizzare col severo funzionario, s’aggrappa alla Buonanima con il «b» maiuscolo e replica nostalgico: «Maresciallo… lei mi ha toccato sul debole… lei la pensa come me!».La commedia, si sa, è quella degli equivoci e il maresciallo grugnisce un no tutto anti e assai antipatico. Totò cambia subito registro e si proclama «anti, da sempre anti… come lei, pure io».Da sempre e per sempre «anti» resta l’Italia se a detta di editorialisti e trasmissioni tivù c’è - tutt’intorno - tutto un planare sopra boschi di braccia tese. Il monito vibra, urge mostrificare - Ignazio Maria Benito La Russa! - e perciò fa d’uopo la vigilanza. Abbiamo dovuto vedere anche le procedure d’infrazione dell’Unione Europea adoperarsi contro il revisionismo storico e i libri di Renzo De Felice, quelli di Claudio Pavone perfino - e quelli di Giampaolo Pansa - sono già carta sequestrata destinata al macero.Affrettatevi dunque ad accaparrare le pagine perfette di Francesco Borgonovo. Foderatele con la copertina di uno Scurati o, alla peggio, di un Ezio Mauro, e leggetele, custoditele e ragionateci sopra perché - insomma - chi si firma è perduto!
Nel riquadro: Mauro Micillo, responsabile Divisione IMI Corporate & Investment Banking di Intesa Sanpaolo (Getty Images)
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