2024-03-16
«Il cuoco non dipinge. Deve solo rispettare i regali della natura»
Lo Chef Angelo Paracucchi (Getty Images)
Ultima puntata sulla vita di Angelo Paracucchi, chef impegnato nella tutela della materia prima. Un innovatore nella tradizione.Angelo Paracucchi era un personaggio che non passava certo inosservato, il Dna umbro inossidabile, di una empatia diretta che trovava la massima espressione, oltre che con i suoi fornitori, tra i fornelli con i colleghi e pure al tavolo con quanti erano curiosi di gustarne il talento.Un quadretto divertente ce lo regala un altro storico allievo, Maurizio Marsili, che lo ha affiancato per una dozzina d’anni in sala fuochi. «Quando Angelo scopriva un prodotto nuovo, lo guardava con la curiosità di un bambino per poi correrne a studiare ogni aspetto». Con l’effetto conseguente: «A noi giovani allievi diceva sempre che le papille gustative sono come i pistoni di un motore. Più i cibi sono buoni, più ti danno botte di piacere nel cervello». Tu chiamale, se vuoi, emozioni.Creativo non solo nell’assemblare un ricettario innovativo, ma anche i mezzi con cui dare vita al tutto. È nota la sua collaborazione con Alessi per creare una lampada entrata nella leggenda. Era l’arma culinaria con cui dava vita ai suoi famosi spaghetti di mare, una jam session di calamaretti e crostacei assortiti che spadellava al tavolo dei clienti. La sala diventava una sorta di teatro in diretta anche perché, come descritto da un altro suo discepolo di mestolo, Luca Landi, «si approcciava fisicamente alla padella in un modo quasi carnale, passionale». Un’arte innata, certo, ma affinata negli anni di maître e direttore di sala a Pugnochiuso, come ben descritto da Marco Bolasco. Oramai Paracucchi è una certezza. Nel 1980 dà alle stampe il suo primo libro, La cucina della Lunigiana, con l’introduzione di due firme di garanzia assoluta: Mario Soldati e Gino Veronelli. È tempo di volare (anche) oltre confine. Nel 1983 accende i fuochi del suo Carpaccio a Parigi, nei pressi dell’Arco di trionfo, vuoi mai le coincidenze. Lo inaugura assieme al presidente dell’Accademia italiana della cucina, Giovanni Nuvoletti. Un Angelo sempre coerente nel non smentirsi mai. Nella patria di Champagne e Bordeaux, nella sua cantina il cliente può stappare solo eccellenze italiane.Al padrone del vapore, cioè il proprietario dell’hotel che ospita la sua creatura, Paracucchi deve garantire per contratto una presenza di almeno cento giorni all’anno, quindi forma una brigata di cucina conseguente. I monsieur e le madame richiedono anche loro gli spaghetti alla lampada, ma il cuoco di turno non poteva assaggiare la pasta in diretta e, quindi, ne intuiva il grado di cottura dal variare del colore. Arte pura. Oltre ai vini Paracucchi fa conoscere in terra transalpina anche un’altra eccellenza italiana, l’olio extra vergine di oliva, tanto da convertire all’oro verde anche un certo Paul Bocuse, di cui diventerà abituale fornitore. Un passaporto che si arricchisce via via di altre tappe importanti. Sono gli stessi Henri Gault e Christian Millau, i guru concorrenti della stellata Michelin, ad aprirgli la strada per avviare un ristorante nella giapponese Osaka.È un crescendo inarrestabile e meritato. Pochi volti hanno rappresentato il goloso made in Italy di qualità come il bravo Angelo Paracucchi. È il regista delle cucine azzurre alle Olimpiadi di Seul, nel 1988. Lo invitano a tenere corsi nella prestigiosa Accademia di Tsuji, in Giappone, come al Culinary institute di New York, anche se il cenacolo più ambito rimane sempre, per gli aspiranti cuochi di domani, la sua cucina, tra i colli della Lunigiana. La sua firma ne racconta le gesta con rubriche sul romano Il Messaggero come nel patinato periodico Il Piacere dopo che, nel 1986, era uscita la sua seconda creatura editoriale, La cucina creativa. Sembra un crescendo inarrestabile anche se qualche onore ha segnato il passo, sempre ancorato ad una realtà monostellata.Oramai la cucina italiana, da culto di nicchia, sta diventando fenomeno culturale e mediatico. Sempre più sono i colleghi che appaiono sui canali televisivi. Eppure, non smentendosi mai come cavallo di razza e talento sempre fuori del coro, Angelo Paracucchi decide di riporre le sue amate padelle nella dispensa. Si ritira per un meritato riposo a Trevi, nell’Umbria nativa, quando avrebbe ancora molto da dare. Ad esempio il suo ultimo libro, La cucina fra creatività e tradizione, una sorta di testamento spirituale, uscito nel 2003, un anno prima del suo volare verso le stelle senza tempo, quelle che ti guardano da lassù.Sono vent’anni che Paracucchi ci ha lasciato e sono rimasti in pochi a ricordarlo, tra tutti il Gastronauta Davide Paolini, il quale più volte, nei suoi scritti, si è adoperato per tenere viva la sua memoria, quella straordinaria capacità di essere innovatore nella tradizione, la simpatia innata di uno spirito libero, di un uomo che, per scelta, non si è mai inchinato davanti a nessuno, se non a qualche fascinosa dama che, al termine di una cena, desiderava ringraziarlo per la piacevole degustazione di emozioni caloriche. A Paracucchi l’estetica del piatto interessava poco, la considerava poco più di un elemento di distrazione. Quello che contava veramente era la freschezza della materia prima, la vivacità dei colori, le buone cotture conseguenti. «Il cuoco non deve pensare a dipingere nel piatto, ma a rispettare quanto la natura ci offre». «Per lui», come ricorda un suo estimatore da sempre, Enzo Vizzari «esisteva solo il prodotto, valorizzato con colpi di genio e creatività conseguente. Quella di Angelo era una via personale alternativa alla nouvelle cousine» che, in quel tempo, dettava legge ogni dove. Un Paracucchi che non si smentiva mai, da umbro verace.Le sue interviste erano fuochi d’artificio per chi veniva a trovarlo. «Non si può ingannare a lungo la gente con l’aria fritta al profumo di niente». Nel poco riposo che gli consentiva il servizio tra sala e cucina, era artigiano in proprio, con prodotti che etichettava di suo pugno, come ad esempio una intrigante salsa di porri e salsiccia, così come un originale aceto di lamponi. Gli accostamenti inediti sono stati una sorta di brevetto anzitempo, aprendo strade poi divenute tradizione innovativa. Ad esempio il branzino con salsa al vino rosso oppure la frutta gestita in abbinamenti eclettici: gli scampi con pompelmo, il petto d’anatra alle more, la sella di coniglio con terrina di prugne. Gli scampi in parmigiana di cernia e melanzane. Attentissimo a trarre il meglio dagli ingredienti, sia per valorizzarli al gusto, ma anche con un occhio attento alla buona salute dei palati impenitenti. Un esempio è, ancora, l’insalata della salute con mango, papaia, melone e pompelmo rosa cui dare il turbo con gamberi, sogliole e calamaretti. Uno dei motivi per cui spesso Paracucchi era invitato ai congressi medici in tema di alimentazione e salute. Ancora una volta pioniere, con il suo esempio, il suo impegno quotidiano, lontano dai riflettori.Un personaggio che non smetteva mai di stupire, ad esempio inventandosi la gelateria «Procopio», a due passi dallo stellato locale frequentato da «sceicchi» e degustatori stellari. Solo prodotti legati alla stagione: dal pistacchio alle more, ma anche ricotta, caffè o la crema, di cui era ghiotto Paul Bocuse quando veniva a far provvista di olio delle colline liguri. Mai più di otto gusti nelle vaschette gelatiere, mentre in genere prassi voleva che la scelta potesse oscillare tra una doppia dozzina di variegate e fresche palline a decorare coni o coppette assortite. Ecco, allora, che la figura di Angelo Paracucchi merita il dovuto onore, quello di essere ripescato dagli annali della memoria non solo da quanti hanno avuto il piacere di conoscerlo, di testarne in diretta un talento non solo culinario, ma lo spessore umano che ha accompagnato le sue opere e giorni. Poteva sembrare un po’ ruvido, posto che a natura umbra non si comanda, ma la sostanza era altra, testimoniata da quanto era impresso nel retro del biglietto da visita che amava offrire a chi andava a salutarlo: «Chi professa con prodotti della natura professa amore, bellezza e gioia della vita».
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Francesco Nicodemo (Imagoeconomica)
(Ansa)
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