
L’estrema sinistra è stata snobbata o coccolata, malgrado anni di violenze. Ora che alza la testa, la si accosta ai soliti reprobi.È sempre suggestivo notare come si verifichino piccoli cambiamenti nel racconto quando c’è bisogno di creare un nuovo nemico. Leggere modifiche, dettagli, ma fondamentali per cambiare l’orientamento della luce e proiettare una ombra scura sul cattivo del giorno. Il modo in cui sono stati tratti gli anarchici, negli ultimi anni, è abbastanza emblematico. Per un verso, le violenze antagoniste sono sempre state sottovalutate, nascoste o peggio appoggiate dai media liberal-progressisti (e in parte da fette della politica). Quando costoro picchiavano, ferivano o minacciavano qualcuno appartenente all’area «di destra», i fattacci passavano sostanzialmente sotto silenzio. Al massimo si leggevano piccole reprimende in stile «sono compagni che sbagliano». Il vero allarme da rilanciare, si sa, era quello riguardante l’onda nera, i pericolosi fascisti pronti a marciare sull’Italia come accaduto nel 1922. I servizi nei talk show erano tutti dedicati a loro, alcuni coraggiosi invitati si indignavano persino quando scoprivano i perfidi fasci nell’atto di consegnare pacchi alimentari ai bisognosi (non è una iperbole, è accaduto davvero).Il pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica rappresentato dagli antagonisti veniva ripreso soltanto raramente, di fronte ad azioni eclatanti che proprio non si potevano tacere. Di solito ci si limitava a parlare genericamente di «anarcoinsurrezionalisti», termine ombrello che dice poco e mette molto al riparo le varie nebulose gravitanti attorno ad alcuni centri sociali. Insomma, quando serve l’anarchico bombarolo torna pur sempre buono, ma come figura misteriosa, complottista solitario e oscuro, di cui mai si indicano le aderenze e le frequentazioni. Di inchieste giornalistiche su presunte lobby nere ne sono state fatte a iosa, tanto per fare un esempio, ma raramente si è sentito parlare (almeno recentemente) degli antagonisti torinesi di Askatasuna, che sono sotto processo proprio in questi giorni accusati di associazione a delinquere per le lotte in Val Susa che sono costate allo Stato un corposo dispendio di mezzi e uomini. Come ha riportato il Corriere di Torino, «il picco ci sarebbe stato nel 2021, con l’impiego in totale di oltre 260.000 uomini, tra polizia, carabinieri e guardia di finanza. Con una media alle soglie dell’incredibile: oltre 700 unità al giorno. Il dato emerge da dei documenti raccolti dall’avvocatura dello Stato, che rappresenta il ministero dell’Interno, costituto parte civile nel processo contro Askatasuna».Pochi giorni fa, alla fine di gennaio, i militanti no Tav di Askatasuna hanno letto nell’aula di tribunale una dichiarazione di solidarietà ad Alfredo Cospito, e nemmeno in quel caso la notizia è stata ripresa con particolare scalpore. In compenso, mesi fa il Comune di Torino ha appoggiato e sponsorizzato con entusiasmo il festival Alta felicità, organizzato proprio dalla galassia no Ttav locale. Curioso, visto che per ogni evento, per quanto pacifico, organizzato dalla cosiddetta estrema destra ogni volta si odono lamenti e proteste da politici di diverso colore.Senza timore di andare troppo lontano dal vero, dunque, possiamo affermare che negli ultimi anni ai simpatici rivoluzionari sia stato riservato tutto sommato un trattamento mediatico molto morbido, anche perché non conveniva granché utilizzarli come strumento per attaccare questo o quel politico di sinistra ventilando l’esistenza di «lobby rosse».Ma ecco qui l’aspetto interessante. Talvolta, gli anarcoinsurrezionalisti si sono rivelati utili spauracchi. Soprattutto quando si è potuto sfruttarne il sulfureo alone per screditare altre e più nobili cause. Nel 2021, ad esempio, si disse che costoro si erano uniti ai fascisti all’interno del movimento no vax per manifestazioni organizzate soprattutto a Milano. In quel caso, gli anarchici potevano essere presentati minacciosamente in modo da far passare tutti i contestatori della tirannia sanitaria quali pericolosi sovversivi. Ora qualcuno prova a ripetere il giochino. Ieri Repubblica ha pubblicato un rovente articolo per accusare il governo di centrodestra di aver ignorato gli «allarmi» sulla «galassia pro Cospito». Capito? È stata la destra di governo a mostrarsi troppo tenera verso gli antagonisti, mica tutti coloro che fino all’altro giorno li hanno dipinti come ragazzotti un po’ esagitati.Non è tutto. Secondo Repubblica, pare che alle manifestazioni pro Cospito «parteciperanno anche i movimenti di estrema destra che hanno cavalcato le proteste dei no vax e no pass». Addirittura, sostiene il quotidiano, l’attuale governo avrebbe perso «l’occasione di agire per evitare la saldatura con sigle antagoniste, studenti e destre no vax». Tutto chiaro? In sé, l’anarchico violento non sarebbe un problema. Anzi, lo si può pure raccontare con toni romantici, giustificarlo in virtù dei nobili ideali di cui si fa portatore. L’insurrezionalista diviene realmente cattivo e feroce quando si salda con la destra estrema e, peggior cosa, con i no vax. Per farla breve, si va a parare sempre nella stessa direzione: a minacciare l’Italia sono i fasci e i nemici del vaccino, mica gli antagonisti che hanno collezionato reati manco fossero figurine. A terrorizzare, al solito, dev’essere l’ombra nera, e niente altro.E c’è da scommetterci: se a rischiare di morire in galera fosse un attivista di destra, oggi nessuno si farebbe tanti scrupoli, e le delegazioni del Pd di certo non avrebbero organizzato piacevoli gite per incontrarlo.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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