La retorica dei finanziamenti «storici» nasconde il fatto che non c'è nessun euro in più rispetto a quelli decisi in manovra: cambia solo il creditore. L'ex consulente di Romano Prodi: l'Italia continuerà a dare più di quel che riceve.
L'altro giorno Luigi Di Maio ha postato un video in cui spiegava che adesso, grazie al Movimento 5 stelle, si potrà riformare il Mes. E dunque finalmente «smantellarlo», come da programma elettorale del 2018, in modo da spendere per «imprese, famiglie, investimenti nelle banche pubbliche italiane» i 14 miliardi che l'Italia ha versato nel cosiddetto Fondo salva Stati. Con sana reattività, molti si sono precipitati sui profili del ministro a dire l'ovvio: il Mes è stato appena riformato e non saremo noi a decidere come usare quei 14 miliardi. Anzi, grazie anche alla giravolta in Parlamento del M5s, sarà più facile che altri usino quei soldi per le loro banche, a prescindere dalla nostra volontà di non avvalersi di quello strumento.
Un abbaglio se possibile più grosso è in corso però per quasi tutta la classe politica, e riguarda il Recovery fund. In questo caso, tuttavia, la solerzia con cui rintuzzare le menzogne sembra di colpo appannata. Dopo la nottata al Consiglio europeo, Giuseppe Conte in conferenza stampa venerdì scorso è parso spiegare che i 209 miliardi (tuttora fermi a stime) si sommeranno «ai miliardi del Bilancio». Tutto il racconto che accompagna questi finanziamenti risente di un equivoco incredibile, tanto è enorme: se ne parla, anche ai massimi livelli istituzionali e a cominciare dal Quirinale, come fossero denari aggiuntivi rispetto a quelli che un Paese decide di spendere con la sua legge più importante, la manovra. Anche il disarmante teatrino sulle task force, i commissari, le cabine di regia, l'«occasione irripetibile», muove da un assunto falso: e cioè che la supposta alluvione di fondi richieda chissà quali strutture parapolitiche per gestire una situazione ontologicamente inedita. Basterebbero due semplici fatti a incrinare questa presunta eccezionalità finanziaria.
Primo: nel corso del 2020, il Parlamento ha autorizzato il governo a spendere oltre 100 miliardi in extra deficit a causa della pandemia. Non solo questi soldi sono stati impiegati (sul come, si può e si deve dibattere a lungo) senza nessuna task force, ma addirittura - come ha spiegato su queste colonne Giuseppe Liturri - il ministro Roberto Gualtieri si è dotato della facoltà di ricollocare consistenti somme da un capitolo all'altro qualora, voce per voce, si fosse effettivamente investito meno del previsto.
Secondo: allo stato attuale, il testo della manovra in discussione in Aula prevede, all'articolo 184, l'istituzione di un «Fondo di rotazione per l'attuazione del Next generation Eu». Tale norma stanzia 34,8 miliardi per il 2021, 41,3 miliardi nel 2022 e 44,5 miliardi nel 2023 sotto forma di «anticipazione rispetto ai contributi provenienti dall'Unione europea». Tradotto: il Parlamento ha già previsto - o meglio, formalmente lo farà solo con l'approvazione della manovra - di spendere quei soldi. Se e quando arriveranno quelli del Recovery fund, essi «rimpiazzeranno» in parte o in tutto i 34,8 miliardi già decisi. In sostanza, come il Mes, anche il Recovery è una modalità di finanziare una spesa decisa, non una possibilità di spesa aggiuntiva che dobbiamo meritarci o mendicare.
Cosa cambia, allora? Per farla breve: il creditore. I cui poteri di veto e indirizzo finiscono per alterare non poco lo spazio di manovra del decisore politico. Nel 2020, dal momento che la Bce è stata di fatto obbligata dal principio di realtà a fare incetta di titoli di Stato, l'Italia ha «avuto» oltre 100 miliardi di euro dal mercato, allargando in ottima compagnia il suo debito pubblico, come Mario Draghi aveva facilmente previsto nel suo celebre articolo sul Financial Times del 25 marzo scorso. Il governo ha deciso come spendere quei soldi e ne risponderà politicamente, nel bene e nel male, agli elettori. Anche il Recovery fund si approvvigionerà al mercato, inserendo però una intermediazione finanziaria e una burocratico politica. Le pagheremo entrambe: una quota del bilancio Ue allargato (grazie a nuove tasse) sarà destinata a garantire emissioni di debito da parte della Commissione di Ursula von der Leyen, che poi distribuirà la «raccolta» tra i Paesi, mediante erogazioni dirette e prestiti. È possibile che il rapporto tra dare e avere, all'interno di questo pacchetto, muti a nostro favore? Siccome il veicolo non è ancora formalizzato, siamo alle ipotesi. Ma la favoletta secondo cui l'Italia finirà sotto il diluvio di sussidi di un'Europa finalmente solidale era risibile mesi fa e lo resta oggi. Sull'Hufffington PostAndrea Del Monaco, già consulente di Romano Prodi proprio sui fondi Ue, ha spiegato che «sui soli contributi a fondo perduto, nel ciclo 2021-2027, l'Italia avrà 20,3 miliardi di saldo negativo relativo ai fondi Ue ordinari e 15,3 miliardi di saldo negativo relativo a Next generation Eu. Un saldo negativo totale di 35,6 miliardi. Quanto era il saldo negativo nel settennato 2012-2018 secondo la Corte dei conti italiana? 36,3 miliardi. Next generation Eu cambia tutto per non cambiare nulla».
Perché imboccare dunque questa via tortuosa raccontando di inesistenti «svolte» dell'Europa? L'ha spiegato ieri il commissario Paolo Gentiloni a Sky: «Se c'è una cosa di cui sono preoccupato, oltre alla qualità dei piani, è che poi i piani vengano attuati, perché poi ogni sei mesi da Bruxelles deve arrivare un bonifico solo se gli obiettivi e le scadenze vengono rispettate. Altrimenti i bonifici non arrivano». Il succo è qui: il Recovery fund non è fatto di soldi in più, ma è un processo che allunga i tempi e introduce vincoli di spesa disposti all'esterno della rappresentanza eletta: condizioni cioè politicamente impossibili da sanzionare in caso di errori o danni inflitti al nostro Paese.