L’ordine di cattura di Njeem Osama Almasri è stato spiccato da un uomo vicino ai Gheddafi, residenti in Turchia. Paese amico di Khalifa Haftar, che mira a destabilizzare Tripoli. Proprio mentre Eni si consolida, a scapito della francese Total.
L’ordine di cattura di Njeem Osama Almasri è stato spiccato da un uomo vicino ai Gheddafi, residenti in Turchia. Paese amico di Khalifa Haftar, che mira a destabilizzare Tripoli. Proprio mentre Eni si consolida, a scapito della francese Total.A pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia mai. Motto che si sposa benissimo con il caso politico di Njeem Osama Almasri, il cui rimpatrio in Libia ha scatenato polemiche tra l’opposizione e una accusa financo di peculato a mezzo governo. Eppure, al di là delle ricadute giudiziarie e dello scontro tra Francesco Lo Voi e Giorgia Meloni, è molto interessante la dinamica con cui è avvenuta la denuncia di Almasri e l’avvio del mandato di cattura internazionale, scattato soltanto quando il generale, comandante della milizia Rada, aveva varcato il confine italiano. La dinamica spiega perfettamente come le altre autorità politiche europee abbiamo creato una serie di coincidenze utili a fare in modo che la patata bollente finisse nelle nostre mani. Fin qui nulla di nuovo, ne ha scritto La Verità giorni fa. Così come ieri abbiamo approfondito un altro retroscena riguardante Karim Ahmad Khan il procuratore che ha spiccato il mandato d’arresto. Khan in passato ha difeso Saif Gheddafi, uno dei figli dell’ex dittatore libico. E anche questa è una ulteriore coincidenza che fa il paio con le mosse provenienti dalla Turchia. A Istanbul risiede l’altro fratello Gheddafi, Saadi famoso in Italia per aver giocato a calcio. Sempre a Istanbul risiede Ismail al Shtawy, un ricco libico ed esponente dell’opposizione al premier Abdul Hamid Dbeibah. Lo scorso agosto, il miliardario in esilio in Turchia ha dichiarato un interesse verso nuove elezioni e sicuramente confermato la volontà di mettere in crisi il governo di Tripoli. D’altronde sono tutti ex uomini di Gheddafi. Non solo i due figli, ma anche i due avversari politici. Ma lo è anche Almasri che arriva da quel mondo. Lo stesso che si è spaccato e ha poi imposto ai figli la fuga. Saadi sarebbe stato a lungo nel carcere di Mitiga in catene per volontà di Almasri. Il quale nel frattempo ha avuto un percorso di carriera notevole. Diventando comandante della milizia Rada è stato di conseguenza incorporato tra le fila dell’esercito regolare di Tripoli e con la medesima operazione ha acquisito un rango diplomatico non irrilevante. Dialoga con altri Paesi e altre intelligence. Ovviamente nessuno vuole difendere il generale dalle accuse di crimini di guerra, ma ciò che va puntualizzato è che non risulta in alcuna carta che Almasri sia uno scafista. Semmai il contrario. È molto probabile che in ottemperanza al suo incarico ufficiale, coordinare gli sforzi antiterrorismo, si dedichi con sadico impegno a fermare i flussi migratori. Imporre all’Italia l’arresto di Almasri significherebbe almeno due cose. Primo, agevolare la ripartenza dei flussi. Tanto più che è in atto uno scontro per il controllo del valico di Ras Ajdir con la Tunisia, fondamentale per il flusso di immigrati verso l’Italia. Secondo, arrestare il generale della Rada significherebbe anche indebolire il controllo del territorio locale che il premier esercita attraverso la milizia. E quindi, facendo saltare la sua testa, gli avversari politici di Dbeibah mirano a destabilizzare l’intera Tripolitania, a favore magari della Cirenaica, che è governata dal generale Khalifa Haftar, amico - scusate la banalizzazione - dei turchi, il cui governo ospita guarda caso Saadi Gheddafi da oltre quattro anni e il miliardario Al Shtawy. Insomma, le coincidenza cominciano a essere tante. E ci piace ricordare per la seconda volta che il procuratore della Cpi, colui che ha chiesto di arrestare Almasri, aveva stretti rapporti con il figlio più grande di Gheddafi. Ieri, Fausto Biloslavo ha raccontato sul Giornale di un tentativo in corso di bruciare alcuni agenti italiani che in passato hanno operato in Tripolitania. Un altro tassello importante che va aggiunto allo schema di destabilizzazione rivolto contro i nostri interessi nazionali proiettati in Libia. È bene sapere che la presenza italiana a livello economico e di intelligence è fortemente cresciuta negli ultimi anni. Il governo ha recuperato una buona fetta dello spazio che Giuseppe Conte aveva perso. E ciò non piace ai turchi, ma anche ad altre intelligence amiche che risiedono in Europa. La francese Total non è vista di buon occhio dal governo di Tripoli. L’Eni al contrario sta consolidando il proprio ruolo. Trimestre dopo trimestre. Non dimentichiamo che quando ai tempi di Marco Minniti l’Italia faceva accordi con le tribù del Fezzan del Sud, l’esercito francese e i loro servizi presenti ad Agadez in Niger si giravano dall’altra parte pur di lasciar passare le carovane dirette a Nord fino alle coste italiane. Non ci è dato sapere in questo momento quali siano gli interessi degli inglesi e che accordi possano aver fatto con gli egiziani che a loro volta hanno voce in capitolo in Libia. Ciò che è certo è che ogni volta che l’Italia riprende peso nel Mediterraneo scoppia qualche problema per il governo. Problema che viene immancabilmente amplificato dalla sinistra nostrana. Stavolta la Meloni ha appena partecipato a una visita chiave per il futuro del Mediterraneo a Riad. Gli accordi anche militari siglati con Mohammed Bin Salman sono benedetti dalla Casa Bianca. Se il progetti di portare i sauditi nel Mediterraneo dovessero andare in porto cambierebbe un mare di equilibri. L’Italia sarebbe avvantaggiata, rispetto a molti partner Ue. Quale occasione migliore quella di farci scoppiare una bomba diplomatica e di intelligence sotto la sedia? Domanda retorica.
Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
Nonostante i dazi e un rafforzamento dell’euro, a settembre è boom di esportazioni negli Stati Uniti rispetto allo scorso anno, meglio di Francia (+8%) e Germania (+11%). Confimprenditori: «I rischi non arrivano da Washington ma dalle politiche miopi europee».
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Parla Gaetano Trivelli, uno dei leader del team Recap, il gruppo che dà la caccia ai trafficanti che cercano di fuggire dalla legge.
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Su un testo riservato appare il nome del partito creato da Grillo. Dietro a questi finanziamenti una vera internazionale di sinistra.
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Nel 1937 l’archeologo francese Fernand Benoit fece una scoperta clamorosa. Durante gli scavi archeologici nei pressi dell’acquedotto romano di Arles, la sua città, riportò alla luce un sito straordinario. Lungo un crinale ripido e roccioso, scoprì quello che probabilmente è stato il primo impianto industriale della storia, un complesso che anticipò di oltre un millennio la prima rivoluzione industriale, quella della forza idraulica.
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Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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