2019-10-31
Alla fine Elkann fa le nozze a Parigi. Marito Peugeot, Cina terzo incomodo
Fallito il tentativo con Renault, Fca è pronta alla fusione con l'altra casa francese forte nell'elettrico. Dovrebbe nascere un gruppo da 50 miliardi. Uniche incognite il socio Dongfeng e la reazione di Donald Trump.Le nozze tra Fca e Psa potrebbero essere a un passo. Stando a quanto riportato da Reuters, non è escluso che l'annuncio formale dell'accordo possa avvenire già nella giornata di oggi. I due colossi automobilistici hanno confermato ieri che sono in corso delle trattative, in vista di un'eventuale fusione. «Ci sono discussioni intese a creare un gruppo tra i leader mondiali della mobilità», ha reso noto Fca in una nota, riferendosi a «una possibile operazione strategica tra gruppo Psa e gruppo Fca». Sulla stessa linea anche Peugeot che ha confermato tutte le indiscrezioni. Ieri pomeriggio, si è riunito il consiglio d'amministrazione di Psa, per esaminare il progetto, mentre anche Fca ha convocato una riunione del board qualche ora più tardi, con il titolo che intanto è volato in Borsa. Qualora l'accordo tra i due gruppi dovesse concludersi, sorgerebbe un gigante automobilistico da circa 50 miliardi di dollari e in grado di vendere oltre otto milioni di automobili. Nel dettaglio, stando al Wall Street Journal, la nuova società risulterebbe paritaria (50% Fca e 50% Peugeot). Tutto questo mentre, John Elkann diverrebbe presidente e Carlos Tavares amministratore delegato. È evidente che, con questa eventuale fusione, entrambi i gruppi automobilistici mirino a rafforzare la propria posizione. Psa spera di rientrare nel mercato statunitense grazie a Fca, mentre quest'ultima punta soprattutto ad accedere all'alta tecnologia francese nel settore ibrido ed elettrico. Un ulteriore fattore positivo riguarderebbe poi la complementarietà geografica in termini di mercato: se Psa risulta infatti notevolmente forte in Europa, Fca vanta una posizione ragguardevole soprattutto oltreatlantico. L'idea sarebbe insomma quella di creare un colosso che consenta di fronteggiare la crescente competizione nei comparti più innovativi del settore automobilistico. Se le sinergie positive sono quindi indubbie, altrettanto evidenti risultano gli ostacoli che questo progetto di fusione potrebbe comunque riscontrare. In primo luogo, bisognerà vedere quale sarà la posizione della Casa Bianca sul dossier. Non dobbiamo infatti trascurare che, insieme al governo francese e alla famiglia Peugeot, tra gli azionisti di riferimento di Psa figuri la cinese Dongfeng che, pur avendo annunciato tempo fa di voler cedere le proprie quote, ancora non lo ha fatto. Non è quindi escludibile che questa presenza possa irritare l'amministrazione Trump che con Pechino si trova notoriamente nel bel mezzo di una guerra tariffaria. Una guerra che - nonostante una recente distensione - è ancora ben lungi dal potersi dire conclusa. In questo senso, non va inoltre trascurato che il presidente americano non avesse apprezzato troppo l'interessamento mostrato dalla cinese Great Wall Motors verso Jeep, due anni fa. Più in generale, poi, per Trump il settore automobilistico rappresenta da sempre una realtà particolarmente delicata, soprattutto sul piano elettorale. Ragion per cui è evidente che - se anche non ci fosse ostilità - la Casa Bianca guarderà con estrema (ed esigente) attenzione a questo progetto di fusione. In secondo luogo, l'altra incognita riguarda il ruolo di Parigi. Non bisogna infatti dimenticare che, appena cinque mesi fa, un tentativo di fusione tra Fca e Renault sia naufragato principalmente a causa dell'opposizione del governo francese. Quello stesso governo francese che - come detto - figura tra gli azionisti di riferimento anche di Psa. Per il momento, Parigi, pur mostrando un lieve aperturismo, non sembra sbilanciarsi troppo, limitandosi a monitorare con attenzione le discussioni tra Psa e Fca e ricordare l'importanza della piena occupazione. È chiaro che, sul piano geopolitico, una certa importanza spetterà anche alle relazioni (da sempre altalenanti) tra l'Eliseo e la Casa Bianca: non si può infatti escludere che un'eventuale fusione possa altresì passare dai rapporti che intercorrono tra Emmanuel Macron e Donald Trump. Ovviamente l'operazione non può che chiamare in causa anche il nostro Paese. Bisognerà infatti capire se il fatto che - rispetto a cinque mesi fa - vi sia al momento in Italia un governo marcatamente filofrancese possa influire sulla riuscita del progetto. Per adesso, Roma sembra comunque collocarsi su una posizione attendista. «Noi stiamo osservando quello che accade», ha dichiarato il ministro per lo Sviluppo economico, Stefano Patuanelli. «È un'operazione di mercato ovviamente. Credo che sia corretto in questo momento non rilasciare dichiarazioni», ha concluso. Un ulteriore punto interrogativo aleggia infine sul fronte sindacale. Se la Cgt francese e la Fiom hanno espresso preoccupazione, altre sigle si sono invece mostrate ottimiste.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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