2025-01-03
Il cuore granata che ha giocato a «palla o caviglie» una vita intera
Stroncato a 80 anni dalla polmonite, Aldo Agroppi è stato bandiera del Toro e critico dei vizi del calcio. In Arabia negato il minuto di silenzio. Il calcio prima del Var non sempre era poesia. La vita di Aldo Agroppi, per esempio, avrebbe dovuto cambiare il pomeriggio di domenica 12 marzo 1972, nel fango dello stadio Marassi di Genova. A sette minuti dalla fine della partita con la Sampdporia, Sala crossa dal fondo, Agroppi appostato sul secondo palo inzucca alla bell’e meglio e gli parte uno spiovente che un giovanissimo Marcello Lippi ricaccia via da dentro la porta. L’arbitro Enzo Barbaresco da Cormons prima convalida il gol, poi, su proteste dei doriani, lo annulla. La palla era entrata di un buon 30 centimetri. A fine stagione, il Toro di Gustavo Giagnoni, Claudio Sala, Paolo Pulici, Giorgio Ferrini e Agroppi perderà lo scudetto con la Juve per un solo punto. Quel punto. Tre anni dopo, quando i granata vincono il loro primo e ultimo titolo d’Italia dalla tragedia di Superga, il centrocampista con i baffi era appena andato a chiudere la carriera al Perugia. Ieri ha chiuso la propria vita a 80 anni in ospedale, nella sua Piombino, per una polmonite. Ha fatto l’allenatore e il commentatore per quasi mezzo secolo, con competenza e senza mai ruffianeria. Milioni di tifosi, però, lo ricorderanno per la granitica antipatia che nutriva per la Juventus. Prima ancora di Calciopoli, Agroppi parlava apertamente di «sudditanza psicologica» degli arbitri nei confronti della squadra degli Agnelli. L’aveva respirata in campo.In campo era un guerriero, come testimoniano i suoi soprannomi, «Cotenna» e «Velen». Sempre primo sulle palle vaganti. E se non era palla, era caviglia e andava bene lo stesso. Mai visto uscire con i pantaloncini immacolati, come certe ballerine di oggi. Quando lasciò il Toro, nel 1975, dopo due coppe Italia vinte e quasi 300 partite, uscì dal campo in lacrime. Ieri il Tg1 dell’ora di pranzo ha ricordato una sua confessione di pochi anni fa: «Aver giocato nel Torino è stato il mio tesoro più prezioso, del resto non me ne frega più niente. Dalla società di oggi si è sempre tenuto ben lontano. Il 26 marzo del 2022, intervistato dal sito Toronews sui primi 17 anni di Urbano Cairo come presidente del club, Agroppi fu sincero come sempre: «Mi aspetto altri 17 anni del cavolo, scusatemi per la battuta. Per lo meno non si retrocede, ma si naviga nella media classifica. O viene un miliardario che ha soldi da buttare via oppure si continua su questo filone». «Per Cairo è impossibile avere un Torino con più ambizione», continuò, perché «non basta spendere, bisogna saper spendere. E bisogna far crescere i ragazzi del settore giovanile e poi valorizzarli a dovere (…) L’Atalanta è un esempio per tutti: tanti giocatori che lancia riesce a rivenderli a mille, dopo che sono costati cento». Oggi Cairo, dopo aver venduto una mezza dozzina di capitani di seguito, è nel vortice di una contestazione senza fine e la squadra è senza l’ombra di un Agroppi, mentre l’Atalanta lotta per lo scudetto e si fa ammirare in Europa. Come allenatore, non ha avuto fortuna. Ha allenato Perugia, Ascoli, Como, Fiorentina, Pescara, Pisa e Padova, ritirandosi a soli 49 anni. Non sempre è andato d’accordo con i presidenti, raramente si è ingraziato gli arbitri, in un’occasione sola si giocò la tifoseria. Accadde a Firenze, quando ebbe la cattiva idea di mettersi contro Giancarlo Antognoni. Gli piacevano i talentuosi e del resto esordì in serie A con la maglia del Torino il 15 ottobre 1967 al fianco di Gigi Meroni, che quella sera stessa venne investito e ucciso da una macchina, guidata da un futuro presidente del Toro, Attilio Romero. Una volta, da commentatore tv, attaccò Luciano Spalletti per la gestione di Francesco Totti: «Un prete che vuole spiegargli come giocare a pallone». Da almeno un ventennio, Agroppi si dichiarava deluso dal mondo del calcio, dall’eccesso di soldi e di ipocrisia. Lui che a dispetto dello stile di gioco e della vis polemica era uno spirito gentile e che ha sofferto di depressione per larga parte della sua vita. Il minuto di silenzio in suo onore nello stadio arabo di Riad, dove ieri sera si giocava la semifinale di Supercoppa italiana tra Inter e Atalanta, è stato annullato dalla Lega di Serie A. La motivazione ufficiale è che si temevano i fischi dei tifosi arabi, dopo lo sgradevole precedente per Gigi Riva. In realtà, giusto così. Uno come Agroppi non sarebbe mai andato a giocarsi la finale di una manifestazione italiana in Arabia Saudita. La leggenda vuole che si sia giocato la carriera alla Domenica sportiva, in Rai, per le troppe prese di posizione contro la Juve. Sicuramente aveva il gusto della battuta ed era di una schiettezza disarmante. Però non era uno pieno di sé e conosceva i propri limiti. Oggi vanno rilette le parole che pronunciò il 2 novembre 2005 quando morì l’ex ct della Nazionale Ferruccio Valcareggi: «Ci ha lasciato un grande insegnamento. Non ha mai fatto una polemica, è morto senza nemici, amico di tutti. Il contrario di quello che succederà a me». Non è andata neppure così. Adesso tutti celebreranno per qualche ora il combattente Agroppi, uno che amava ricordare che «chi cresceva nel Torino in quegli anni, ‘60 e ‘70, poi rimaneva del Toro per sempre». Il tutto mentre il mercato di riparazione di gennaio, assurdo quanto inutile, ci ricorderà che il calcio di oggi non tollera bandiere.
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