2021-04-04
Ai giornali lo scandalo importa solo se li tocca...
Il caso della cronista (forse) ascoltata diventa un affare di Stato. Nessuno però si interessa agli affari dell'ex no global Luca Casarini.L'Ordine dei giornalisti è in allarme. Per il cappio che si sta stringendo intorno al collo di chi fa informazione a causa del crescente numero di querele temerarie? No, a suscitare apprensione non sono le citazioni in giudizio di chi si sente diffamato o prova a farsi passare per tale. L'inquietudine è dunque dovuta all'arroganza di certi politici, che ormai pretendono di scegliere quali cronisti debbano partecipare alle conferenze stampa e chi li debba intervistare senza fare domande scomode? Sbagliato, neppure questo è il motivo che genera il magone. Allora, i guardiani della categoria sono forse preoccupati del costante calo delle copie vendute da quotidiani e settimanali, con conseguente riduzione delle testate indipendenti? No, le origini dei timori ancora una volta sono da cercarsi altrove.Beh, per non farla troppo lunga vi svelo il mistero. L'Ordine, che è un ente pubblico a cui è obbligato ad aderire chiunque eserciti la professione giornalistica, e il cui compito è vigilare sulla deontologia e sull'operato degli iscritti, è in agitazione perché il nome di una cronista, forse, è citato in un'indagine della Procura di Trapani. La giornalista, che lavora per il gruppo Gedi, cioè per L'Espresso, addirittura - udite, udite - sarebbe stata intercettata dalla polizia giudiziaria impegnata in un'inchiesta sulle Ong. La vicenda giudiziaria è parallela a quella di cui, in solitudine, vi abbiano dato conto nell'edizione di ieri. Quella, tanto per intenderci, che vede coinvolta la Mare Jonio e, soprattutto, l'ex no global Luca Casarini e un gruppetto di coloro che un tempo avremmo chiamato antagonisti, ossia i disobbedienti che al G8 scesero in piazza per contestare le politiche dei Grandi della terra. Visto che la globalizzazione non ha prodotto i disastri vaticinati e dunque oggi non è più possibile sventolarne la bandiera, Casarini e compagni hanno abbracciato la causa degli extracomunitari e da qualche tempo si sono trasferiti a bordo di una bagnarola che fa la spola fra le sponde africane e quelle italiane. I magistrati sospettano che la navigazione nel Mediterraneo non sia gratis, ma venga foraggiata con centinaia di migliaia di euro dalle navi commerciali le quali, pur di non perdere tempo a soccorrere i migranti, utilizzerebbero questa specie di traghetto cedendo a pagamento le persone soccorse. In effetti, a leggere le intercettazioni disposte dall'autorità giudiziaria, l'impressione che dietro le nobili intenzioni manifestate da Casarini e soci ci siano affari poco chiari la si ha. L'ex antagonista, più che parlare di naufraghi da salvare, parla spesso di denaro. Dai brogliacci della polizia giudiziaria emerge l'entusiasmo non per le decine di migranti tratti a bordo, ma per il bonifico che l'armatore di una petroliera deve far giungere alla Ong per compensare l'azione di «soccorso». Casarini e compagni sono così felici che progettano di brindare con lo champagne. Al telefono si parla di finti prestiti, di prelievi dai fondi ottenuti con le donazioni via Facebook, di garanzie economiche che secondo la magistratura «altro non sono che un modo per appropriarsi indebitamente di somme della società». Soldi, soldi, soldi. Anche per noleggiare la bagnarola per un film di Checco Zalone. Quali siano i motivi che spingono Casarini, sono riassunti in una telefonata dell'ex no global con un amico. «Gli ho detto: ma sei sicuro che è questa la tua prospettiva credibile per il futuro? Perché o riuscivamo a fare 'sta roba (cioè salvare i migranti, ndr) per pagare l'affitto di casa e la situazione della separazione oppure mi dovevo andare a lavorare in un bar». I due parlano di un filone d'oro e i magistrati annotano che l'attività non è compatibile con il fine solidaristico dichiarato. Ecco, il succo è questo. Ma invece di buttarsi a pesce per raccontare i segreti di una storia che appare con contorni molto banali e squallidi, i guardiani dell'informazione si indignano perché agli atti di un'inchiesta analoga si parla di una giornalista e, forse, le conversazioni tra lei e altri personaggi coinvolti sono finite nelle carte dell'inchiesta. Il presidente dell'Ordine chiede un intervento del ministro della Giustizia (la quale ha già annunciato l'invio di ispettori). Anzi, addirittura minaccia di scomodare Sergio Mattarella. Gad Lerner, che da tempo non misura più le parole, parla invece di spionaggio dei pm nei confronti di una collega: «Un caso che riguarda la democrazia. Cioè tutti noi». A dire il vero, la cronista non è la prima e non sarà l'ultima a finire nei brogliacci. Sono anni che decine di colleghi vengono registrati dalla polizia giudiziaria: se parlano con chi è sottoposto a intercettazioni, è fisiologico che le loro frasi finiscano agli atti. Come succede a chiunque, perfino ai parlamentari, malgrado, qui sì, sia vietato. Se poi sono a conoscenza di reati, loro stessi, dato che chi scrive non gode dell'immunità, possono essere intercettati. Che l'Ordine dei giornalisti e Lerner si sorprendano perché nell'inchiesta è finita una collega pro migranti, dunque stupisce. Anche perché Ordine e Lerner anni fa, quando il governo Berlusconi cercò di porre un argine alle captazioni telefoniche, organizzarono una manifestazione al grido di «intercettateci tutti». All'epoca, siccome speravano di mettere in piazza i segreti di colui che ritenevano un avversario, ascoltare i sospiri dalla camera da letto era democratico. Ora che si ascoltano le confessioni sugli affari di Casarini e compagni, e i cosiddetti buoni rischiano di essere guardati come cinici profittatori, le intercettazioni all'improvviso diventano un vulnus alla democrazia. Ma fateci il piacere: qui l'unico vulnus che si corre è quello all'intelligenza. E alla decenza.