
In toni minori, ma siamo al sequel del film sullo spread. Accadde nel 2011 in modo drammatico, poi nel 2018. Adesso i report di Goldman Sachs e di Moody’s tornano buoni per gettare una mano di rischio sui Btp. Spingono i giornaloni. Gradisce chi da Bruxelles si sta occupando del «nuovo» Patto di stabilità. Italia Paese dell’economia circolare. Nel senso che vediamo a mesi o anni di distanza proiettare lo stesso film. Debito alto, posizioni distanti dalla strada che vuole intraprendere Bruxelles e sulla quale vuole tutti i Paesi membri allineati e scatta il solito racconto dello spread e dei mercati spaventati e pronti a dire addio ai Btp e agli altri titoli di Stato. È accaduto innanzitutto nel 2011 con l’ultimo governo Berlusconi, quando a seguito di reali (seppur limitate) vendite sui nostri titoli da parte di banche tedesche e una campagna promossa dall’allora cancelliera Angela Merkel e dal presidente francese Nicolas Sarkozy lo spread con il Bund tedesco superò i 500 punti. Il leader di Forza Italia diede le dimissioni e lasciò spazio a Mario Monti. Stessa manfrina nel 2018 quando al governo c’era Giuseppe Conte e al Mef Giovanni Tria.
In vista della legge Finanziaria 2019 il dato su cui puntò l’Ue per sussurrare alle agenzie di rating un parere negativo era quello dell’indebitamento strutturale: per gli anni 2019, 2020 e 2021 era previsto dal Def a meno 1,7%. Un valore che avrebbe comportato la procedura d’infrazione. Entro la fine di ottobre si sarebbero dovute pronunciare ben due agenzie di rating. Roma all’epoca si trovava due gradini sopra la soglia del non investment grade, Paesi rischiosi per la platea di investitori. Moody’s assegnava il rating Baa2, Fitch e S&P il voto BBB, mentre per Dbrs l’Italia era un gradino ancora più su, con il rating BBB high.
Insomma, eravamo considerati un Paese affidabile, in grado di onorare i suoi debiti e rimborsare gli interessi in scadenza. Di fronte a un peggioramento anche di un solo «notch» si sarebbe passati al livello «junk», cioè «spazzatura», con effetti deleteri. Non tanto perché il Paese si sarebbe trovato di colpo fuori dal piano degli acquisti della Bce, già allora in via di esaurimento. Lo stop improvviso sarebbe stato invece uno choc, in grado di accelerare la decisione di molti investitori istituzionali di vendere i titoli di Stato e i bond corporate delle controllate pubbliche. Una minaccia bella e buona. Non diversa da quella riproposta nelle ultime ore. Lunedì sera la banca d’affari Goldman Sachs diffonde un report di una ventina di pagine sui rendimenti dei titoli europei. Un paragrafo è dedicato all’Italia e sostanzialmente suggerisce di sostituire i decennali italiani con i Bonos spagnoli per attuare un riduzione del rischio del portafoglio. Tutto ciò «alla luce di un contesto macro sfidante e della politica monetaria restrittiva della Bce». Senza contare che una eventuale revisione del Pnrr avrebbe impatti sul Pil tricolore. Gli analisti americani aggiungono anche una previsione secondo cui lo spread tra i Btp e il Bund potrebbe salire a 235 punti base entro la fine dell’anno, «con i primi messi sotto pressione dall’accelerazione del quantitative tightening a giugno e dagli ulteriori rialzi dei tassi da parte della Bce». Lo spread in questi giorni viaggia attorno ai 190 punti base. Quando Conte ha lasciato l’incarico il valore viaggiava di poco sotto i 100 punti. Con Draghi si arrivò a 230 per scendere a valori attuali e risalire il giorno della crisi di governo. Insomma, imputare a Draghi dei picchi sarebbe stato sbagliato. Non era certo colpa sua ma dello scoppio della guerra e dell’avvio delle restrizioni decise da Christine Lagarde. Fare lo stesso ora fa sorridere. Infatti Goldman Sachs si limita a suggerire un derisking, come si dice in gergo tecnico, dovuto alle mosse della Bce. Eppure la maggior parte dei giornali ha titolato ieri facendo credere ci sia già in atto una fuga dai nostri Btp. Forse serviva solo a dare il via alla nota diffusa da Moody’s, una delle agenzie di rating Usa. Ieri pomeriggio Bloomberg riportava il commento secondo cui «l’Italia è l’unico Paese che corre il rischio di finire sotto il livello investment-grade», che per i titoli del debito pubblico italiano vorrebbe dire finire nel girone dei titoli spazzatura. «Attualmente l’Italia è l’unico Paese con un giudizio sul debito sovrano di Baa-3 con un outlook negativo», si legge nel report scritto dagli analisti Kelvin Dalrymple e Scott Phillips che concludono: «Il rallentamento della crescita e l’aumento dei costi di finanziamento potrebbero indebolire ulteriormente la posizione fiscale dell’Italia». Il rating Baa-3 è il gradino più basso prima del livello junk e il 19 maggio Moody’s aggiornerà il giudizio sul nostro Paese. Con piccole modifiche di valutazione stiamo entrando nel loop. Il medesimo del 2018. Non a caso 24 ore prima che a Bruxelles si decida l’assestamento del Patto di Stabilità. A stretto giro di posta gli analisti di Jefferies rispondono a Moody’s sconfessando le previsioni. «Per ora il governo Meloni ha spuntato le caselle giuste. Per immaginare cambi di rating dovremmo vedere all’orizzonte altre preoccupazioni e crescita in calo In ogni caso solo se per l’Italia diventasse più difficile attenersi alle regole fiscali». Insomma, con questa politica monetaria tutti gli emittenti con debito prezzeranno di più e pagheranno più caro il debito. Ovviamente a far notizia è stato solo il report di Moody’s. Il solito film in onda a reti unificate.





