
I legami del manager di Generali con Mosca
È il presidente di Enel Russia, la controllata del gruppo energetico - quotata a Mosca - partecipata dallo Stato. È ancora il plenipotenizario in Russia delle Generali, che malgrado il gruppo abbia annunciato la chiusura dei propri uffici locali è entrato come rappresentate del Leone nell’associazione delle imprese europee in Russia (vedi Verità&Affari di ieri).
Ed è anche nel board di una compagnia di cargo che fa capo a un uomo d’affari vicino a Putin, dove siede ance un banchiere al centro id uno degli scandali di riciclaggio di denaro russo in Occidente. Si tratta di Giorgio Callegari, ex manager dell’Alitalia, dove si occupava delle alleanze internazionali, poi consigliere della compagnia statale russa Aeroflot fino a diventare uno dei punti di riferimento delle grandi aziende italiane che volevano fare business a Mosca.
Tra gli altri incarichi, Callegari è anche consigliere d’amministrazione della Volga-Dnepr, uno dei colossi del settore dei cargo. A capo del gruppo c’è Alexey Isaikin, un ex militare russo che ha fondato il gruppo negli anni del trasporto merci per via aerea negli anni ‘90 e che secondo la stampa britannica è stato almeno in passato vicino a Vladimir Putin. Nel board della stessa società c’è anche il banchiere Ruben Vardanyan, il fondatore della banca Troika Dialog che secondo una serie di inchieste giornalistiche avrebbe contribuito a portare fuori dalla Russia miliardi di euro di dubbia provenienza.
La compagnia di Stato russa Aeroflot è stata più volte indicata negli anni passati come possibile pretendente di Alitalia nel corso delle varie crisi della compagnia italiana. Almeno fin dal 2007, quando la società russa aveva presentato una manifestazione d’interesse per la privatizzazione avviata dal governo Prodi.
Un articolo del Telegraph, nelle settimane scorse, ricorda come Isaikin sia stato l’unico rappresento del settore aereo a partecipare ai negoziati commerciali tra Russia e Gran Bretagna nel corso di una visita di Putin a Londra nel 2003 e come lo stesso uomo d’affari abbia collaborato con il Cremlino per «rafforzare» le ambizioni di Mosca nel settore. Volga-Dnepr group vale il 95% degli utili settore dei trasporti cargo in Russia e al gruppo fanno capo anche la tedesca amTES e Volga-Dnepr Gulf (Emirati Arabi).
Sempre in Gran Bretagna, la stampa ha dato un’ampia eco al fatto che un’altra società di Isaikin, la CargoLogic Air, abbia continuato a volare malgrado le sanzioni e il bando britannico per i voli di compagnie russe o di proprietà di cittadini russi, una delle misure decise da Londra dopo l’invasione dell’Ucraina. Ma CargoLogic è una società britannica, mentre Isaikin, ha riconstruito il Telegraph, ha un passaporto cipriota.
Callegari risulta a oggi avere incarichi in Enel Russia, nella Generali Russia and Cia-Es Llc e nella Volga-Dnepr Logistics Bv, di diritto olandese, nel cui board siede anche Vardanyan.
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Michele Emiliano
L’ex governatore, dopo l’incontro con Adolfo Urso, aveva assicurato: l’acciaieria resterà attiva.
All’indomani del vertice al ministero delle Imprese sull’ex Ilva, presieduto dal titolare del Mimit, Adolfo Urso, le organizzazioni di metalmeccanici Fiom Cgil e Fim Cisl si dissociano dalla lettura fornita dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, al termine dell’incontro di due giorni fa. Il governatore uscente aveva infatti affermato che «il piano della chiusura e della cassa integrazione è stato completamente ritirato».
I sindacati, però, non sembrano tanto d’accordo. In primis c’è la Fiom Cisl che contesta il numero uno della Puglia. «Apprendiamo al termine dell’incontro tra il Mimit e le istituzioni locali pugliesi, la notizia del ritiro del piano corto che per noi rimane il piano di chiusura degli stabilimenti ex Ilva. Dopo le mobilitazioni di questi giorni dei lavoratori di tutti gli stabilimenti, è necessario fare chiarezza attraverso la convocazione delle organizzazioni sindacali a Palazzo Chigi, in quanto ci risulta che si sta proseguendo con la chiusura delle cokerie a Taranto, così come previsto dal piano corto presentato dal governo», ha detto Francesco Brigati, segretario della Fiom-Cgil di Taranto, sottolineando che, in assenza di un confronto diretto con la presidenza del Consiglio, il quadro resta tuttora opaco.
Anche la Fim Cisl, per bocca del segretario generale Ferdinando Uliano, mette in discussione la narrazione di una svolta già consolidata: «Dopo gli incontri con le istituzioni, una parziale novità positiva riguarda la decisione di non chiudere la zincatura di Genova, con una ipotesi di una limitata compensazione con la banda stagnata, non fermando le linee produttive. Rimane tuttavia la nostra contrarietà al cosiddetto “piano corto”, che non risulta né ritirato, né sospeso. Per queste ragioni», ha continuato la Fim Cisl, «sollecitiamo la presidenza del Consiglio a convocare con urgenza il tavolo di confronto, indispensabile per affrontare e governare una fase tanto delicata. Ad oggi non abbiamo ancora ricevuto riscontri».
In parallelo resta aperta la questione del clima interno al sindacato, dopo l’aggressione avvenuta a Genova ai danni di esponenti Uilm, episodio che continua a provocare prese di posizione da parte di Fim e Uilm. Uliano interviene così: «Riteniamo che tali episodi vadano ben oltre la normale dialettica sindacale e che, se confermati, debbano essere condannati senza esitazione. In questa difficile vertenza occupazionale, che ha al centro il rilancio industriale dell’ex gruppo Ilva e la salvaguardia dei livelli occupazionali».
Sulla stessa lunghezza d’onda il segretario nazionale e provinciale di Taranto della Uilm, Davide Sperti, che richiama la storia della propria organizzazione e stigmatizza il silenzio di altre sigle. «Non abbiamo mai tollerato la violenza in nessun contesto, c’è tutta una storia che parla per noi, e non possiamo certo tollerarla in una situazione tesa, difficile, complessa come quella dell’ex Ilva dove stiamo cercando di riaprire la discussione sul governo per il ritiro immediato di un piano che non è di continuità e di rilancio della fabbrica, ma di dismissione e chiusura delle attività a breve scadenza. E ci stupisce e ci dispiace molto il fatto che né la Cgil nazionale, né la Fiom nazionale, abbiano sentito il dovere di prendere nettamente le distanze dall’accaduto».
Intanto, La Procura di Genova aprirà un fascicolo per danneggiamento, minacce e resistenza a pubblico ufficiale in relazione agli scontri avvenuti giovedì scorso a tarda mattinata davanti alla Prefettura in largo Lanfranco a Genova e nella stazione di Genova Brignole. Sulla dinamica sono in corso accertamenti da parte della Digos. Al momento non risultano ancora iscrizioni nel registro degli indagati.
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Scontri a Genova (Ansa)
Informativa della Digos dopo i disordini davanti la prefettura. Ipotesi danneggiamento e resistenza. I delegati Uilm non hanno sporto querela per l’aggressione targata Fiom.
Gli scontri di giovedì a Genova hanno aperto due fronti: la guerra in strada e quella tra sigle sindacali. E mentre i delegati della Uilm devono ancora decidere se sporgere una querela per le aggressioni che hanno raccontato di aver subito a Cornigliano, la Procura di Genova ha già ricevuto un’informativa di reato dalla Digos per i tafferugli davanti la prefettura. Le ipotesi di reato segnalate: resistenza, minaccia e danneggiamento. È stata la seconda puntata di una settimana rovente per la vertenza dell’ex Ilva. I manifestanti non sono stati ancora identificati, ma gli impianti di videosorveglianza e i filmati raccolti sono in fase di analisi. L’immagine simbolo della manifestazione di giovedì è già diventata virale: i caschi gialli sbattuti con rabbia contro le grate metalliche usate per proteggere la Prefettura. Per abbattere la barriera è stato agganciato un cavo d’acciaio collegato a un muletto. Quel cavo, ritenuto un corpo del reato, è stato sequestrato.
La versione sull’operaio ferito va in una direzione precisa: secondo gli investigatori della Digos sarebbe stato colpito da un oggetto tirato dai manifestanti e rimbalzato sulla grata. A sgonfiare la tensione ci ha pensato la pioggia di lacrimogeni. Solo quella, secondo gli investigatori, ha impedito che lo scontro degenerasse oltre l’abbattimento delle barriere. Dietro la guerriglia urbana c’è la paura per l’ipotizzata chiusura di una linea produttiva fondamentale, con centinaia di posti di lavoro appesi a un filo. Il governo ha fornito rassicurazioni. Ma la sensazione è che la tregua durerà poco. L’altro fronte, il più velenoso, è dentro la fabbrica. Lo scontro tra Uilm e Fiom è deflagrato davanti ai cancelli di Cornigliano. Il segretario generale della Uilm, Luigi Pinasco, e tre colleghi, sono stati «presi a calci e pugni da una ventina di persone con la felpa rosso-nera della Fiom». Due persone sono finite in ospedale. Il movente sarebbe da ricercare nella mancata adesione della Uilm allo sciopero generale dei metalmeccanici per la vertenza. Il segretario generale della Uil Liguria, Riccardo Serri, ha indicato pubblicamente i responsabili: i «militanti di Lotta comunista che vogliono avere l’egemonia all’interno della Fiom». Il senatore ligure di Fratelli d’Italia, Gianni Berrino, ha condannato in modo duro le violenze e ha tirato in ballo i vertici del sindacato rosso: «Nessuna motivazione potrà mai giustificare tale brutale violenza, di cui è senz'altro responsabile anche il segretario della Cgil Maurizio Landini, il quale ha espressamente inneggiato a una strategia della tensione». E invita le autorità ad accelerare: «Gli aggressori, che indossavano felpe della Fiom, siano presto individuati e puniti». La Fiom, ovviamente, ribalta la frittata. Perché se Berrino accusa Landini di alimentare la tensione, il leader della Cgil restituisce il colpo tirando fuori la memoria di Guido Rossa, l’operaio ucciso dalle Brigate rosse: «Quanto accaduto davanti ai cancelli dell’ex Ilva di Genova e il forte clima di tensione al presidio sindacale non possono essere in alcun modo strumentalizzati né tanto meno irresponsabilmente associati al terrorismo. La Fiom e la Cgil si sono sempre battuti contro il terrorismo e per affermare la democrazia, anche a costo della perdita della vita come accaduto proprio all’ex Ilva di Genova al nostro delegato Guido Rossa». Poi la parte diplomatica: «Restiamo impegnati a ripristinare un clima di confronto costruttivo e di rispetto delle differenze e continuiamo a chiedere al governo la convocazione a Palazzo Chigi per dare continuità produttiva a tutti i siti con gli investimenti necessari a rendere credibile il processo di decarbonizzazione e la salvaguardia dell’occupazione».
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L’attacco agli operai di giovedì racconta la tensione della sigla per il crollo di rappresentanza nelle fabbriche. Dall’Ilva a Stellantis, da Iveco a Cnh fino alle roccaforti rosse nel Bolognese, il peso di Maurizio Landini sta precipitando.
Calci, pugni e sciopero ma non solo. La brutta storia che venerdì ha visto come epicentro Genova e i sindacati, con una ventina di persone riconducibili alla Fiom che hanno inseguito e picchiato 5 colleghi della Uilm colpevoli di non aver partecipato alla serrata per l’ex Ilva, racconta anche altro. Racconta di un Maurizio Landini che oltre a non condannare la violenza ha smarrito il controllo dei suoi in un’azienda e un territorio caldissimi. E dice di un segretario della Cgil che sta perdendo la fiducia dei lavoratori soprattutto lì dove le partite dell’occupazione sono complesse. Nelle fabbriche più ostiche, ma non solo.
A partire appunto dall’ex Ilva, dove negli scorsi anni è andato in scena un clamoroso sorpasso. Nel sito di Taranto, che per mille motivi (storia imprenditoriale, giudiziaria e politica) può essere considerato l’emblema delle difficoltà del lavoro soprattutto nel Mezzogiorno, la Uilm è il primo sindacato. E passi. Il problema è che la Fiom è scivolata via via nelle posizioni di retroguardia diventando nel 2023 (su una platea elettorale di 8.100 dipendenti ha votato circa il 70% della forza lavoro) la quarta forza di rappresentanza, dietro anche alla Fim (i metalmeccanici della Cisl) e all’Usb.
Storia nota che non ha insegnato molto alla leadership di Landini. Perché a furia di fare opposizione a prescindere al governo e di pensare a referendum, talk show e interviste sui giornali (con una smaccata preferenza per quelli del gruppo Gedi) si finisce per non avere più il polso di quanto succede sul territorio. Prendiamo Stellantis, Cnh, Iveco e Ferrari, dove la Fiom dal 2011 non firma il contratto (Ccsl) ad hoc dei vari gruppi e si è praticamente ritirata dalla competizione elettorale aziendale. Insomma, il primo sindacato italiano che rinuncia ai delegati in pezzi fondanti di un settore industriale, automotive e dintorni, che sta vivendo una delle peggiori crisi di sempre. Paradossale.
Oppure l’edilizia, dove nella conta degli iscritti certificati dal sistema delle casse edili la Filca Cisl da due anni ha superato la Fillea Cgil. Che è costantemente indietro anche per numero di rappresentanti nei cantieri delle grandi opere. Dai lavori per l’alta velocità Bari-Napoli (Webuild-Pizzarotti) per arrivare a quelli sulla A1 Barberino/Variante di Valico fino al Tunnel del Brennero (consorzio Dolomiti).
Sono solo esempi. Perché la diaspora di rappresentanti dal sindacato rosso riguarda a macchia di leopardo tutto il Paese. Ancora nel Mezzogiorno, dove la questione lavoro è più sentita, pochi mesi fa si sono svolte le elezioni per le Rsu (rappresentanze sindacali) delle Acciaierie di Sicilia. Secondo sito siderurgico del Sud. Qui è stato abbastanza clamoroso il successo dell’Ugl, con la Cgil finita solo terza, un unico delegato.
Anche nel bolognese, roccaforte rossa per eccellenza, le elezioni del 2025 per le Rsu hanno portato alla Cgil sorprese spiacevoli, con la Cisl che è diventata maggioranza in tre aziende. Alla Ghibson di Zola Predosa, storica fabbrica che produce da oltre quarant’anni valvole per uso industriali, acquisita nel 2022 dal Gruppo Bonomi, le urne hanno rovesciato completamente gli equilibri sindacali: la Fim che ha ottenuto tre delegati e la Fiom è rimasta a bocca asciutta. Alla Zarri di Castello d’Argile, attiva nel settore della produzione di componenti metallici e fissaggi, dove il confronto tra Cisl e Fiom si è chiuso 2 a 1, stesso risultato alla Corradi di Castelmaggiore, che produce pergolati in alluminio.
Anche in Friuli-Venezia Giulia, in provincia di Pordenone, il sindacato «rosso» perde terreno. Fino a poco tempo fa nello stabilimento della Bertoja, produttrice di semirimorchi per trasporti speciali, la Fiom poteva contare su tre rappresentanti. Quest’anno gli equilibri sono cambiati, e la Fim ha ottenuto due delegati, mentre la Fiom ne ha portato a casa solo uno. Alla Brovedani, dove prima gli uomini della Fiom erano la maggioranza, oggi ci sono tre Fim, 2 Fiom e uno Uilm. Alla Terex, produttrice di gru, la Fim si è confermata come prima forza, con due delegati contro uno della Fiom.
In Toscana il caso forse più eclatante è quello della Hitachi Rail di Pistoia, l’ex AnsaldoBreda (ceduta nel 2015 dall’allora Finmeccanica ai giapponesi), dove vengono prodotti una parte dei nuovi Frecciarossa 1000 utilizzati da Trenitalia. Dopo la privatizzazione all’interno dello stabilimento di Pistoia, per anni roccaforte della Fiom, gli equilibri sindacali sono progressivamente mutati. Da circa cinque anni la Fim fa incetta di delegati, seguita dalla Uilm.
Nel settore delle aziende elettriche ormai la Flaei Cisl è il principale sindacato, forte soprattutto di una rappresentanza in Enel arrivata al 48% e al 50% in A2A. «Dentro Enel abbiamo superato la Cgil già nel 2009», spiega alla Verità Amedeo Testa, segretario generale Flaei, che poi aggiunge: «Oggi nel comparto rappresentiamo sostanzialmente un lavoratore su due». Comparto che sta seguendo le orme tracciate da Poste Italiane, dove oggi il 54% dei rappresentanti è nelle mani della Cisl, che all’interno di Fondoposte, il fondo previdenziale dei dipendenti, arriva addirittura al 61%. Percentuali che, in linea puramente teorica, potrebbero consentire perfino di chiudere accordi senza gli altri sindacati.
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