2019-10-09
Adesso i gretini invocano il bavaglio green
Con un appello su «Change.org» i verdi nostrani chiedono all'Ordine dei giornalisti e sindacato la censura per «negazionisti» e scienziati che non la pensano come la ragazzina svedese. L'obiettivo, ovviamente, è fermare le onnipresenti «fake news».Pare che serva anche la fantomatica «buona informazione» per fermare il surriscaldamento del pianeta. Ne sono convinti gli ecologisti italiani, finalmente strappati a una certa irrilevanza politica dal fenomeno Greta Thunberg, che hanno lanciato una petizione contro chi nega il «climate change» o ironizza sulla ragazzina svedese. Il tutto condito dall'ormai consueto appello contro le famose «fake news» e dalla minaccia di fare intervenire l'ordine dei giornalisti se non ci si allinea tutti all'improvvisa campagna ambientalista. La prima firmataria dell'appello su change.org è la verde Annalisa Corrado, ingegnere meccanico, ex consulente del ministero dell'Ambiente e attuale coportavoce di Green Italia. Il titolo della petizione è uno slogan tanto banale quanto condivisibile: «Cambiamenti climatici: nessuno spazio per posizioni antiscientifiche nei media». L'appello è indirizzato alla Federazione nazionale della stampa (il sindacato unico dei giornalisti) e all'Ordine dei giornalisti, e ha tra i suoi primi firmatari la crema degli ambientalisti locali come Rosy Battaglia, Stefano Caserini, Piero Di Carlo, Francesco Ferrante, Luca Mercalli, Rossella Muroni, Antonello Pasini e Gianni Silvestrini. Che sono quasi tutti anche giornalisti e quindi per nostra grande fortuna già ben inseriti nel mondo dell'informazione. Il documento afferma che la «la comunità scientifica internazionale è ormai unanime», e la sintesi dei suoi risultati «mostrata dai rapporti dell'Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) parla chiaro: le attività umane hanno già alterato pesantemente il clima del nostro pianeta». «In assenza di interventi radicali e rapidi», ammonisce la petizione, «si determinerà un contesto sempre più disastroso per le specie viventi, nonché condizioni sempre più difficili e ostili per le società umane». Fin qui, nulla di nuovo e neppure di allarmante, ognuno ha la sua agenda politica, i suoi toni, le sue priorità. Ma poi, gli ambientalisti si vestono anche da tutori della corretta informazione e lamentano: «Ancora oggi leggiamo titoli di giornale palesemente fuorvianti, secondo cui il freddo di qualche giorno metterebbe in discussione il riscaldamento globale; assistiamo alla diffusione di fake news secondo cui la comunità scientifica sarebbe divisa perché alcuni presunti scienziati sarebbero in grado di negare dati e teorie consolidate da decenni». Oppure, continuano, «assistiamo ad episodi di disinformazione in cui sono proposte all'ascolto di milioni di telespettatori affermazioni palesemente false (per esempio: il pianeta non si sta scaldando dal 2000; non c'è legame fra la CO2 e la temperatura del pianeta) che la comunità scientifica ha da tempo chiaramente confutato». E per finire, un richiamo a una legge davvero inutile e ipocrita, che ben conosciamo da anni: «Il tutto (la “disinformazione", ndr) in nome di una insensata “par condicio", secondo cui dovrebbe essere data pari rilevanza a scienziati esperti della materia e a incompetenti che propagandano tesi negazioniste sul clima». Ora, sarebbe davvero bello se i giornali e le televisioni riconoscessero che è parimenti «insensata» qualsiasi par condicio informativa applicata ad artisti, politici, cantanti, economisti e così via, a dispetto della loro intelligenza, del loro curriculum, della sensatezza di ciò che dicono e fanno, della loro cultura e della loro probità. Ma c'è un piccolo problema: chi decide chi è il più preparato, il più meritorio, il migliore? Il padrone del giornale, insieme alle sue banche creditrici? E allora, anche in tema ambientale, per quale motivo si dovrebbe negare voce e spazio a chi non aderisce al pensiero unico ambientalista, che in Italia per altro è stato portato avanti, con qualche piccola lodevole eccezione, da personaggi che da un lato hanno presso lo zero virgola alle elezioni (mentre nel resto d'Europa i partiti verdi sono una cosa seria), e dall'altro si sono spesso rapidamente accasati nei cda di società inquinanti? Non solo, ma in una società liberale e democratica, non dovrebbe essere assicurato il massimo dibattito, lasciando anche ai cretini la possibilità di illustrarsi? Oppure, con la scusa dell'ignoranza di tutti noi su questo o su quel tema, i giornali e le televisioni, insieme a ordini e sindacati, devono «bollinare» tesi e informazioni? Un po' patetico anche il richiamo alle «fake news», che ormai si mette come il prezzemolo su qualunque pietanza possa mai rischiare di avere un gusto autonomo. Una formula così vuota e abusata che anche l'ultimo assessore dell'ultimo comune d'Italia, anche se pescato dalle telecamere dei carabinieri mentre intasca una mazzetta, si difende dalle accuse dicendosi vittima di «fake news». Del resto ormai da tempo i giornali-partito definiscono «fake news» gli scoop dei concorrenti più liberi, salvo magari dover dare poi notizia, con un certo imbarazzo, di condanne come quelle appena piovute sulla testa dei genitori di Matteo Renzi, o degli esiti giudiziari del caso Consip. Notevole anche il riferimento al reato di «lesa Greta», su cui, com'è giusto e normale, girano in rete e sui social migliaia di meme. A questo punto, tutto è pronto per l'arrivo anche del Garante delle barzellette. In ogni caso, qui si ride già molto.
C’è anche un pezzo d’Italia — e precisamente di Quarrata, nel cuore della Toscana — dietro la storica firma dell’accordo di pace per Gaza, siglato a Sharm el-Sheikh alla presenza del presidente statunitense Donald Trump, del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, del turco Recep Tayyip Erdogan e dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani. I leader mondiali, riuniti per «un’alba storica di un nuovo Medio Oriente», come l’ha definita lo stesso Trump, hanno sottoscritto l’intesa in un luogo simbolo della diplomazia internazionale: il Conference Center di Sharm, allestito interamente da Formitalia, eccellenza del Made in Italy guidata da Gianni e Lorenzo David Overi, oggi affiancati dal figlio Duccio.
L’azienda, riconosciuta da anni come uno dei marchi più prestigiosi dell’arredo italiano di alta gamma, è fornitrice ufficiale della struttura dal 2018, quando ha realizzato anche l’intero allestimento per la COP27. Oggi, gli arredi realizzati nei laboratori toscani e inviati da oltre cento container hanno fatto da cornice alla firma che ha segnato la fine di due anni di guerra e di sofferenza nella Striscia di Gaza.
«Tutto quello che si vede in quelle immagini – scrivanie, poltrone, arredi, pelle – è stato progettato e realizzato da noi», racconta Lorenzo David Overi, con l’orgoglio di chi ha portato la manifattura italiana in una delle sedi più blindate e tecnologiche del Medio Oriente. «È stato un lavoro enorme, durato oltre un anno. Abbiamo curato ogni dettaglio, dai materiali alle proporzioni delle sedute, persino pensando alle diverse stature dei leader presenti. Un lavoro sartoriale in tutto e per tutto».
Gli arredi sono partiti dalla sede di Quarrata e dai magazzini di Milano, dove il gruppo ha recentemente inaugurato un nuovo showroom di fronte a Rho Fiera. «La committenza è governativa, diretta. Aver fornito il centro che ha ospitato la COP27 e oggi anche il vertice di pace è motivo di grande orgoglio», spiega ancora Overi, «È come essere stati, nel nostro piccolo, parte di un momento storico. Quelle scrivanie e quelle poltrone hanno visto seduti i protagonisti di un accordo che il mondo attendeva da anni».
Dietro ogni linea, ogni cucitura e ogni finitura lucidata a mano, si riconosce la firma del design italiano, capace di unire eleganza, funzionalità e rappresentanza. Non solo estetica, ma identità culturale trasformata in linguaggio universale. «Il marchio Formitalia era visibile in molte sale e ripreso dalle telecamere internazionali. È stata una vetrina straordinaria», aggiunge Overi, «e anche un riconoscimento al valore del nostro lavoro, fatto di precisione e passione».
Il Conference Center di Sharm el-Sheikh, un complesso da oltre 10.000 metri quadrati, è oggi un punto di riferimento per la diplomazia mondiale. Qui, tra le luci calde del deserto e l’azzurro del Mar Rosso, l’Italia del saper fare ha dato forma e materia a un simbolo di pace.
E se il mondo ha applaudito alla firma dell’accordo, in Toscana qualcuno ha sorriso con un orgoglio diverso, consapevole che, anche questa volta, il design italiano era seduto al tavolo della storia.
Continua a leggereRiduci
Silvia Salis (Imagoeconomica)