2020-06-05
A Hong Kong prove di una nuova Tienanmen
Hong Kong (Billy H.C. Kwok / Getty Images)
La morsa di Pechino si stringe sull'ex colonia britannica. Il Parlamento approva la legge che criminalizza le critiche all'inno cinese. E la polizia picchia e arresta i manifestanti durante le commemorazioni della strage del 1989, che per la prima volta erano vietate.Arresti, violenze e una nuova stretta del governo cinese hanno contraddistinto le (non) celebrazioni di ieri a Hong Kong in occasione dei 31 anni dalle proteste pro democrazia di piazza Tienanmen a Pechino, quelle rimaste nella mente di tutti attraverso il loro più potente simbolo: quel ragazzo esile, di cui ancora oggi non conosciamo l'identità, che si parò davanti ai carri armati del regime comunista impedendone l'avanzata. Un'immagine potente, quella. Un anniversario, quello di ieri, caduto in un contesto già rovente e dal sapore particolare per molti attivisti di Hong Kong, che vedono nella nuova legge sulla sicurezza nazionale che Pechino ha deciso di imporre sull'ex colonia britannica l'ennesimo schiaffo ai diritti umani oltre che la fine del principio «un Paese, due sistemi» che dal 1997 garantisce al Porto profumato una certa autonomia dal regime di Xi Jinping.Ma ieri, per la prima volta, il governo cinese ha deciso di vietare la commemorazione ufficialmente per motivi sanitari schierando alcune migliaia di agenti. Nonostante le misure ordinate da Pechino all'amministrazione locale di Hong Kong, però, centinaia di persone hanno forzato le barriere di ingresso a Victoria Park per partecipare, candele in mano, alla veglia infrangendo i divieti del regime cinese. In centinaia si sono così ritrovati nel tardo pomeriggio davanti all'ingresso del parco, tenuto sotto controllo dalle forze dell'ordine. Hanno rimosso le barriere di accesso e scandito slogan come «Vendicare il 4 giugno! Fine del partito unico! Democrazia in Cina, ora!».La polizia di Hong Kong ha reagito facendo scattare una serie di arresti, cercando di disperdere la manifestazione. «Alcuni manifestanti vestiti di nero bloccavano le strade nel quartiere di Mongkok, a Hong Kong. Gli agenti di polizia stanno effettuando arresti», ha reso noto la stessa polizia su Twitter. Nel quartiere di Mongkok, dove si sono registrati scontri tra manifestanti pro democrazia e agenti in borghese, che hanno effettuato quattro arresti e usato lo spray al peperoncino contro gli attivisti che stavano bloccando una strada. In quello quartiere di Sheung Wan, sull'isola di Hong Kong, invece, gli artificieri hanno distrutto un pacco sospetto con la scritta «attenzione». Infine, circondata dalle forze dell'ordine la sede dell'ufficio di collegamento del governo cinese a Hong Kong.Ieri, pero, è stata la giornata di una nuova stretta cinese sul Porto profumato dopo la legge sulla sicurezza nazionale e la recente ondata di arresti. L'Assemblea legislativa, cioè il Parlamento di Hong Kong, ha approvato la controversa legge sull'inno nazionale cinese, che prevede pene pecuniarie e fino a tre anni di carcere per chiunque lo «insulti», a detta (ovviamente) delle autorità cinesi. La misura è stata approvata tra le proteste dei deputati pro democrazia, che hanno costretto anche a un'interruzione della seduta e che si sono rifiutati di esprimere il loro voto, urlando slogan di denuncia della legge e ricordando il massacro del 4 giugno 1989. In particolare, due deputati, Chu Hoi Dick e Ray Chan, hanno gettato un liquido emanante cattivo odore, che si è poi rivelato essere biofertilizzante. «Un assassino puzza per sempre. Quello che abbiamo fatto oggi serve per ricordare al mondo che non perdoneremo mai al Partito comunista cinese l'uccisione della sua gente, 31 anni fa», ha dichiarato Chu.Ma il caso Hong Kong non riguarda soltanto la Cina, come Pechino vorrebbe far credere. Perché in ballo ci sono i valori democratici e i diritti umani, ma anche un sistema che ha reso il Porto profumato un hub finanziario globale fondamentale. Nei silenzi dei governi europei, si muovono le nazioni più vicine agli Stati Uniti. Alcuni giorni fa il primo ministro britannico Boris Johnson con un editoriale sul South China Morning Post aveva proposta di cambiare le leggi sull'immigrazione del Regno Unito in modo da rendere più facile l'immigrazione per gli abitanti di Hong Kong (si tratta di circa 2,85 milioni di persone) se la Cina approvasse definitivamente una contestata legge sulla sicurezza nazionale che ridurrà ulteriormente l'autonomia della regione speciale. Un'idea che l'Australia sta prendendo in considerazione: il governo di Canberra, infatti, sta pensando di reinsediare decine di migliaia di residenti di Hong Kong tramite uno speciale visto umanitario. La regia dell'operazione, riferisce il quotidiano The Australian, è del segretario agli Esteri britannico, Dominic Raab, che ha chiesto alle controparti dell'alleanza d'intelligence Five Eyes (che riunisce con Regno Unito e Australia anche Stati Uniti, Canada e Nuova Zelanda) di di considerare se possono offrire visti di residenza per una parte dei 314.000 titolari a Hong Kong di passaporti detti British Nationals Overseas. Ma dietro le mosse britanniche si scorge lo zampino degli Stati Uniti di Donald Trump, che potrebbe decidere di non fermare alle già annunciate «sanzioni contro i responsabili del Partito comunista cinese» per «aver violato la promessa di assicurare l'autonomia» dell'ex colonia britannica.