La decisione del tribunale di La Spezia che consente a una minorenne di assumere un nome maschile è contestabile. E quando si parla di transizioni chirurgiche bisogna sapere che le difficoltà sono tantissime.
Andrea Ruggieri (Imagoeconomica)
L’ex parlamentare Andrea Ruggieri, che ha lanciato la candidatura di Occhiuto alla segreteria: «La strada non è il congresso, che si fonderebbe su tessere di dubbia provenienza».
«Fondare una corrente politica? Per carità, non diciamo parolacce. Ma una cosa è certa: Forza Italia deve camminare su gambe nuove, altrimenti sarà solo la cheerleader degli altri».
Anche quando si affronta la pesantezza della politica, le conversazioni con Andrea Ruggieri scivolano piane e leggere come certi vini bianchi in orario aperitivo. Forse anche per via di questa capacità di smussare gli angoli e sintonizzarsi con l’interlocutore, il giornalista ed ex parlamentare oggi viene inquadrato come uno dei tessitori del nuovo corso del partito. Tutto questo in vista di un congresso decisivo, che potrebbe contrapporre Antonio Tajani a Roberto Occhiuto. Ma Ruggieri frena, sollevando ombre sulla regolarità: «Non parlatemi di congresso. Sono liturgie ridicole. Per giunta si fonderebbe su tessere di dubbia provenienza».
Eppure la sfida alla dirigenza storica sembra essere ormai nei fatti. Il convegno intitolato «In libertà» organizzato da Ruggieri, alla presenza di un battaglione di parlamentari di Forza Italia, ha destato un certo clamore. La scelta scenografica di celebrare l’evento in via del Plebiscito, nella storica residenza romana di Silvio Berlusconi, è carica di simbologia. «Forza Italia non mi invita più ai convegni, e allora il convegno me lo sono fatto da solo, a Palazzo Grazioli, che per me è la capitale romana della cultura liberale. È stato un successo». Obiettivo: «Tornare allo spirito del ’94, come voleva il fondatore».
Diamo prima un’occhiata al curriculum. Avvocato penalista. Giornalista televisivo in Rai. Nipote di Bruno Vespa.
«Quattordici anni in Rai, senza mai arrivare alla conduzione proprio per via della parentela. È quella che io chiamo simpaticamente “la tassa Vespa”, che ho sempre dovuto sostenere. Ovviamente non per colpa sua».
Ma le avrà insegnato il mestiere.
«Assolutamente sì, zio Bruno è il numero uno, grande fonte di ispirazione e apprendimento. Mi dà suggerimenti e consigli insuperabili. Ma nessun dirigente tv può dire di aver mai ricevuto una sua telefonata in mio favore».
Primo incontro con Silvio Berlusconi?
«Nel 2015. Aveva adocchiato una puntata di un mio programma tv dedicato agli errori giudiziari, si chiamava Presunto colpevole. Mi telefonò sul cellulare: “Venga a Palazzo Grazioli”».
Faccia a faccia.
«L’incontro doveva durare 15 minuti: parlammo per un’ora e mezza. Poi ci siamo rivisti più volte, sempre in via del Plebiscito. Finché non mi disse: “Perché non lasci il lavoro e vieni a darmi una mano?”. Già all’epoca ero convinto che il partito andasse profondamente riformato».
Diventa collaboratore del leader, e poi parlamentare nelle file di Forza Italia. Ma poi non viene ricandidato.
«Lo sapevano tutti che i colonnelli del partito volevano farmi fuori. Ma avrei potuto continuare. Ho rifiutato tante offerte di rielezione provenienti da altri partiti: volevo mantenere intatta la stima degli elettori e la lealtà verso Berlusconi».
Una parentesi con Matteo Renzi, da direttore de Il Riformista.
«Gli voglio bene, è un politico di talento che però gioca nella squadra sbagliata. Sta personalizzando un po’ troppo gli attacchi contro Giorgia Meloni: purtroppo con lui la tattica prevale sulla strategia».
E arriviamo all’oggi. Da dove è partita l’idea di organizzare quel convegno proprio a Palazzo Grazioli?
«È stata un’idea mia, concretizzata con la mia società di comunicazione. Ufficialmente non ho invitato nessuno, a parte i 12 relatori di assoluto livello. Ma tutti erano benvenuti, e per tutti sarebbe stata un’opportunità».
Non è una corrente, si ripete, ma piuttosto una «scossa»?
«Questa in realtà è la prima di una lunga serie di scosse. Dopodiché, chi scambia un convegno per una corrente non capisce nulla di politica. Per fare una corrente bisogna stare in Parlamento, e io sono fuori».
La vecchia guardia del partito come l’ha presa?
«Qualcuno maligna e sparge veleno, ma non è una novità. A febbraio sicuramente replicheremo con un altro convegno a Milano».
Obiettivo finale?
«Condivido in pieno le parole di Pier Silvio Berlusconi: Forza Italia per vincere deve ritrovare freschezza, con idee e programmi rinnovati».
Cioè?
«Il partito va pesantemente aggiornato, perché continuando così si rischia di finire fuori mercato».
Fuori mercato?
«Oggi il mondo è cambiato, e non puoi continuare a vendere il Nokia prima generazione. Devi costruire l’ultimo modello e farlo bene».
Che significa?
«Bisogna importare personalità brillanti, dalla società civile e dalla tv. Tornare a puntare sulla capacità comunicativa, che è fondamentale. Chi parla di legame col territorio mi fa ridere. Tutto questo, ovviamente, rispettando il portato culturale del partito. E riscoprendo lo spirito liberale degli albori».
Antonio Tajani deve lasciare?
«Guardi, non avrei problemi a criticare il partito, anzi, avrei tutto il diritto di farlo, senza chiedere il permesso a nessuno».
Però?
«Però Tajani l’ho sempre rispettato, vanta rapporti internazionali fortissimi, sarebbe un perfetto presidente della Repubblica».
Lo sta candidando?
«Tuttavia, la storia italiana ci insegna che è quasi impossibile per un segretario di partito in carica salire al Quirinale. E io auguro a Tajani di avere davvero una chance per la presidenza».
Abbandonando la leadership, dunque?
«È proprio perché voglio bene a Forza Italia che immagino per questo partito un futuro diverso. Ci sono praterie di voti a disposizione, se solo riuscissimo a metterci al passo coi tempi».
Con il governatore calabrese Roberto Occhiuto?
«Ha fatto alcune mosse sacrosante. Si è scontrato con un governo amico, pur di liberalizzare il trasporto privato. Introduce l’intelligenza artificiale come elemento di meritocrazia nei bandi pubblici. Accetta e alimenta la concorrenza. Fatti alla mano, Occhiuto rappresenta bene, e meglio di altri, lo spirito di cui c’è bisogno».
Il congresso sarà una resa dei conti?
«I congressi sono una liturgia ridicola, non è questa la strada. E questo congresso in particolare si fonderebbe su tessere di dubbia provenienza».
Teme un congresso falsato?
«Fratelli d’Italia ha il 30% dei voti e 254.000 iscritti. Forza Italia con il 7% avrebbe 200.000 iscritti? Mi sembra un po’ anomalo».
Quindi si aspetta un cambio al vertice consensuale, senza spargimenti di sangue?
«Sì, nell’interesse di Forza Italia e della nazione. La dirigenza del partito dovrebbe prendere esempio dalla famiglia Berlusconi, che ha sempre mantenuto armonia ed unità, e che sta raggiungendo traguardi industriali giganteschi. Sono il simbolo di un’Italia che accetta le sfide del presente, e che non fa mai catenaccio».
Giorgia Meloni?
«Meno male che c’è lei a Palazzo Chigi, perché l’alternativa è il caos di una sinistra impresentabile».
Tuttavia?
«Tuttavia, una colonna liberale nella coalizione farebbe bene a tutti, anche in termini elettorali. Se liberali come Pera e Nordio sono finiti a orbitare intorno a Fratelli d’Italia, forse in Forza Italia c’è qualcosa di sbagliato nei meccanismi di selezione. Una Forza Italia più forte potrebbe favorire un cambiamento nel Ppe, aiutando Meloni a rivincere».
Quale è il rischio? Morire elettoralmente?
«Il rischio è che il partito si riduca a fare la “cheerleader” di chi vince. Come ha detto Nicola Porro, sulle battaglie di libertà non dobbiamo essere moderati, ma “estremisti liberali”».
Da dove dovrebbe partire la rivoluzione liberale?
«Dal riconoscimento di un principio: è solo l’iniziativa privata che crea ricchezza, non lo Stato. E quindi occorre invertire l’onere della prova nel processo tributario, esaltare il venture capitalism privato, dare in concessione ai privati i beni culturali, liberalizzare il settore taxi, togliere un anno di liceo e università abolendo la riforma Berlinguer. Meno tasse e burocrazia, più garantismo nei tribunali e più diritti civili».
Diritti civili?
«Il mondo cambia. È ora di riconoscere la cittadinanza automatica a chi la matura da straniero, e poi si discuta liberamente di eutanasia e delle adozioni dei single».
Con buona pace di Salvini?
«Competition is competition. Adesso sto andando negli Stati Uniti, dove affitterò l’auto di un privato cittadino che fa profitto, guidata da un immigrato che lavora e non delinque, visiterò località della Florida che richiamano turisti e producono posti di lavoro. Se ci riescono gli americani, perché in Italia, con la storia che abbiamo, non si può fare?».
Si immagina un partito alleato con Renzi e Calenda?
«Non finché continuano a frequentare personaggi come Bonelli e Silvia Salis».
Nel pantheon di Forza Italia, nelle ultime ore, ci è finito persino il sindaco di New York Mamdani, icona della sinistra.
«Io francamente preferisco Ronald Reagan e Tony Blair. Sono i punti di riferimento perfetti, con Silvio Berlusconi, per un partito che riscopre la sua natura originaria, riformista e liberale».
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Eniko Gyori (Ansa)
L’eurodeputata ungherese: «Già l’accordo commerciale con Kiev danneggia la nostra agricoltura. Col Mercosur la uccideremmo».
Eniko Gyori, ambasciatore in Italia per l’Ungheria. Per quanto tempo?
«Dal 1999 fino all’inizio del 2003»
Il che spiega il suo perfetto italiano. Da quanto tempo è a Bruxelles come europarlamentare di Fidesz? Il partito guidato dal primo ministro Viktor Orbán?
«Terza legislatura. La prima l’ho iniziata nel 2009. Ma non l’ho conclusa. Ho infatti ricoperto la carica di ministro di Stato per gli Affari europei. Rieletta nel 2019 e quindi nel 2024».
L’Ungheria ha definito grave la scelta del Consiglio europeo di procedere con il finanziamento all’Ucraina.
«Siamo preoccupati. L’Europa si sente in guerra. Lo ha ribadito Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo Stato dell’Unione europea a settembre. E lo ha confermato il segretario generale della Nato, pochi giorni fa. Non è così. L’Europa non è in guerra. Addolorati che la nostra vicina Ucraina lo sia perché aggredita dalla Russia. Ma sono passati già tre anni e mezzo e non siamo arrivati a nessun risultato. Questo ci preoccupa. E facciamo un Consiglio europeo per finanziare il proseguimento della guerra? Dovremmo concentrare tutte le nostre energie ed anche i mezzi finanziari per arrivare alla pace. Come ci arriviamo?».
Appunto…
«Gli americani ci provano. Non ci si arriva in 24 ore come promesso da Trump. Giusto. Ma dovremmo supportare gli Stati Uniti. Pure Macron ha ammesso che dovremmo tornare a dialogare con Putin. Come si può arrivare alla pace senza dialogare con la controparte? All’ordine del giorno del Consiglio europeo c’era l’ipotesi di confiscare gli asset russi in Europa. Avessimo scelto questa strada ci saremmo trovati in guerra contro la Russia. Questo pericolo - anche grazie all’Ungheria - è stato evitato. Che la Russia sia l’aggressore non c’è alcun dubbio. Così come sul fatto che l’Ucraina non potrà mai vincere questa guerra. Se questi sono i presupposti dobbiamo cercare un’altra strada».
Sta dicendo che l’Unione europea cerca di sabotare il processo di pace portato avanti da Trump?
«Fatico a vedere la situazione in un altro modo. Non sono convinta che l’Europa abbia fatto del suo meglio per convincere le parti in guerra a negoziare. Finanziare l’Ucraina senza condizioni invece che convincerli a negoziare non è una buona strategia. Tutti vediamo gli scandali di corruzione. La toilette d’oro ha avuto un impatto qua».
Pure da noi… mi creda.
«In Ungheria abbiamo accolto più di un milione di profughi ucraini. Ma dopo quasi quattro anni dobbiamo ammettere che la strategia europea non ha funzionato. Il primo ministro belga si è opposto nell’interesse del suo Paese alla confisca dei beni russi a Bruxelles. Lei sa che il patrimonio privato europeo in Russia vale molto di più di quello russo in Europa?».
La confisca dei beni russi era un’illusione. Molti governi vi si cullavano. Ora che molti Paesi europei hanno scoperto la realtà, cioè si sono indebitati per far proseguire la guerra, ecco che Emmanuel Macron scopre che dobbiamo dialogare con Vladimit Putin. Un bagno di realismo?
«Purtroppo, non sono ottimista. Adesso dicono che l'Unione europea ha raggiunto un successo. Di nuovo debito comune. Come con il recovery fund. Ecco perché l’Ungheria ha dato il suo placet. A patto che non partecipasse finanziariamente».
Come la Cechia e la Slovacchia. Sa che vi invidio?
«Non ne ha motivo, mi creda. Giorgia Meloni è molto brava. E questo mi fa essere ottimista. Tre Paesi di Visegrad sono uniti. Manca la Polonia. Ma la comprendo e la rispetto. Hanno una sensibilità diversa rispetto a noi. Come i nostri partner baltici. Un primo ministro deve però comportarsi in maniera razionale. E pensare all’interesse del suo Paese. Come appunto ha fatto il primo ministro belga e anche la premier italiana».
Qual è la posizione dell’Ungheria sull’accordo di libero scambio fra Unione europea e Mercosur?
«Noi pensiamo che adesso non sia il momento. E sa perché? Perché abbiamo approvato la liberalizzazione del commercio con l’Ucraina attraverso il Deep and Comprehensive Free Trade Agreement (accordo che prevede un’area di libero scambio simile che è stato concluso anche con Moldova e Georgia, ndr). Da lì arrivano prodotti agricoli come il grano. Non creda che questo non sia un problema per gli agricoltori europei. Ma sul punto se ti azzardi a dire qualcosa ti dicono che siamo cuccioli di Putin. Poi abbiamo il Green deal. Anche questo danneggia i nostri agricoltori. Se ci mettiamo anche il Mercosur finiamo per uccidere definitivamente la nostra agricoltura. L’Ucraina domani sarà una potenza agricola le cui terre sono in mano agli americani. Per questo diciamo che non è il momento di firmare l’accordo con il Mercosur. Non lo sosteniamo».
È una buona idea una volta ottenuta la pace - come speriamo - ammettere l’Ucraina dentro l’Unione europea?
«No, noi pensiamo che sicuramente non sia una buona idea. Quello che stupisce, ma davvero, è che sia stata iniziata questa procedura dell’allargamento mentre abbiamo i Paesi balcanici che aspettano da più di vent’anni. Questi Paesi hanno iniziato un loro percorso. Hanno fatto delle riforme importanti e non lo riconosciamo. Sempre ci inventiamo nuovi ostacoli per loro. Mentre la maggior parte degli Stati membri adesso vogliono aprire la porta all’Ucraina. Ma scusate, di cosa stiamo parlando? Conosciamo il territorio? Quanto è grande l’Ucraina? Dove sono i confini? Lo sappiamo? Sappiamo quanta gente ci abita? E la corruzione? Prima di tutto dobbiamo fare la pace. Dobbiamo aiutarli ad avere una partnership strategica con l’Unione europea. Questo va bene».
Con un governo filorusso in Ucraina domani, questa scelts potrebbe essere una porta di ingresso per la Russia.
«Sa quello che mi ha detto un importante politico della Macedonia qualche anno fa? “Ah, vedo che funziona così. Ti invade la Russia e allora puoi entrare nell’Unione europea. Forse diciamo ai russi che vengano a invaderci anche noi e così possiamo entrare più velocemente”. Le sembra logico?».
Da ex ambasciatore che effetto le ha fatto il documento National Security Strategy pubblicato dal presidente americano Donald Trump sul sito della Casa Bianca? Gli europeisti l’hanno preso molto male!
«Molto male. Giustamente perché il tono non era cortese. Questi americani dicono però la verità. Quello che nessuno ha detto prima perché infuriava una battaglia ideologica e culturale. Penso alla cultura woke. Una volta con una delegazione del Parlamento europeo sono stata alla Casa Bianca. C’era ancora Biden e praticamente ho toccato con mano. Dividevano il mondo tra i cattivi e i buoni. Invece dobbiamo rispettare gli altri Paesi. Anche se non sono necessariamente democrazie perfette. E vedevamo affiorare l’antisemitismo nelle università americane e adesso anche in Europa. E inoltre l’Europa che ha perso competitività. Io mi occupo di temi economici. Ci spaventa come l’Europa abbia scelto la strada sbagliata con il Green deal. Cresce il divario di competitività con Asia e con l’America. Ci spiegano perché siamo in pieno declino economico. Può piacere o non piacere quel documento. Ma è la pura verità. Per non parlare del tema immigrazione».
L’Ungheria viene multata per un milione di euro al giorno dall’Unione europea?
«Esatto. Al margine del Consiglio europeo si è tenuta una riunione di 8-9 primi ministri per parlare di immigrazione. Il tema è che molti immigrati sono già entrati. Noi da 2015 non li lasciamo entrare. E non vogliamo quote obbligatorie. Non vogliamo queste soluzioni».
Vi preoccupano i sondaggi alle prossime elezioni? Fidesz è data in calo di consensi.
«La risposta è semplice. Si devono vincere le elezioni e non i sondaggi. Ma non possiamo starcene seduti e tranquilli. Abbiamo un nuovo avversario (Peter Magyar, leader di Tisza, iscritto nel Partito popolare europeo, ndr). Animato da sentimenti di rivalsa e vendetta anche per questioni sue personali e familiari. Il Partito popolare europeo lo ha scelto. Ed ha tutto il sostegno europeo. È una strada sbagliata questa dell’interferenza dell’Unione europea, perché va contro i principi sui quali si è fondata l’Ue stessa. Io sono comunque ottimista. Bisogna lavorare molto e triplicare lo sforzo in rete. Il nostro avversario è forte ma gli ungheresi capiranno che lui non ha un progetto politico. Ma solo rivalsa e vendetta. Non è così che si conquista il voto degli ungheresi».
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Luca Zaia (Getty Images)
L’ex governatore: «Io referente per il Nord nella Lega? Se ne può parlare in un congresso, ma senza mettere in discussione Salvini. La Meloni è il miglior premier possibile, sta dando all’Italia prestigio internazionale».
Luca Zaia, ex governatore del Veneto, lo scorso giovedì ha aperto la prima seduta del Consiglio regionale.
«Alle 9.30 spaccate».
Ha sfoderato piglio asburgico.
«Il popolo guarda e giudica. Abbiamo grandi aspettative. In aula si sono sentiti interventi alti e nessuna tromboneria».
È stato inflessibile con i colleghi.
«Il mio compito è dirigere in modo super partes, senza sforare».
Ha imposto il voto per alzata di mano.
«Sono un uomo del digitale. Amo le nuove tecnologie. Devono funzionare, però. Allora, ho detto: “Spegniamo i computer. Non perdiamo altro tempo”».
Urge velocizzare.
«Su quattro ore, alla fine abbiamo splafonato di qualche minuto. Sono un manager e ottimizzo il processo. Cerco di far bene il nuovo mestiere».
Dopo tre legislature da presidente.
«Ci siamo impegnati con un bel programma, in continuità con i miei quindici anni e mezzo. Bisogna fare le leggi, per dar modo alla giunta di essere operativa».
Pochi credono che un fuoriclasse come Zaia rimarrà a lungo a Palazzo Ferro Fini.
«Cerco di prendermi poco sul serio. Occorre relativizzare quello che succede. Dopo la pioggia, arriva sempre il sereno».
Fuor di metafora?
«Ogni nuovo percorso può diventare un’opportunità. Ce l’ho nel sangue: qualsiasi roba, anche la più piccola, devo farla al meglio. Non sono uno di quelli che sta lì, a sbattere la testa contro il muro. Citando il titolo di un mio libro: I pessimisti non fanno fortuna. Dopodiché, ovviamente mi guardo intorno».
L’odierno ruolo potrebbe essere un buon allenamento per diventare presidente della Camera o del Senato?
«A ‘sto punto, fatto trenta facciamo trentuno: aggiungiamoli a sindaco di Venezia, presidente dell’Eni, parlamentare e futuro ministro. Ho sei possibilità, allora. Grasso che cola, eh».
Snoccioliamo le singole ipotesi.
«Ma no, lasciatemi prendere fiato. Sono stati anni impegnativi. L’acqua alta a Venezia, la grande alluvione, un terremoto nel Polesine, il Covid».
E dopo aver rifiatato?
«Restano tutte possibilità di cui si comincerà a discutere tra marzo e maggio».
Nell’attesa, avrà tempo da dedicare alla Lega.
«Sono un militante storico, nel partito più vecchio del Parlamento. Le nostre battaglie rimangono epocali. Come quella di Salvini con Open Arms».
È stato appena assolto dall’accusa di aver impedito lo sbarco della Ong spagnola.
«Matteo ha dato voce a tutti quei cittadini che si ritrovano assediati nelle loro città, per colpa dell’accoglienza senza se e senza ma. Non significa mancanza di compassione o solidarietà. Ma quello è un modello sbagliatissimo, che è stato portato avanti per anni».
Si continua a parlare di un nuovo Carroccio ispirato al modello tedesco, dove l’identitaria Csu bavarese è federata con i conservatori della Cdu.
«Non è certo una novità. Ne avevo già parlato anni fa con Salvini. E l’ho rifatto, recentemente, a Pontida. A ragion venuta: l’autonomia nasce con me, in Veneto».
Quindi?
«Dico semplicemente questo: ci sono due Italie. Il fallimento del modello centralista, nato il primo gennaio del 1948, è evidente. Trovo immorale che un bambino abbia un futuro diverso, se nasce a Milano piuttosto che a Crotone. O che ci siano ancora cittadini costretti a far le valigie per andare negli ospedali del Nord».
La Lega dovrebbe adeguarsi?
«Questo Paese, volente o nolente, cambierà. Così come i partiti: le istanze del militante del Pd di Campione d’Italia sono diverse da quelle del militante di Canicattì. Tutti indosseranno una veste più federale. Sarà inevitabile. Non possiamo riempirci la bocca di nazione e Costituzione, senza prima riconoscere l’ovvio: c’è una questione meridionale che non si può risolvere con l’assistenzialismo».
I governatori del Carroccio sollevano pure la «questione settentrionale».
«Dobbiamo smettere di pensare che sia da egoisti parlarne. Le quattro regioni del Nord guidate dalla Lega hanno un residuo fiscale attivo. Bisogna ascoltarle».
Tanti nel partito la vorrebbero referente per il Nord.
«Sono temi da affrontare, eventualmente, in un congresso. E comunque, non mettono in discussione la figura del segretario».
Gli ex colleghi sono venuti a omaggiarla dopo il trionfo. Tifano per «il Doge».
«Con loro, conservo un rapporto straordinario. Come Salvini sa benissimo, la Lega ha la fortuna di avere una squadra di governatori eccezionali, amati dal popolo. I nostri amministratori sono il vero patrimonio del partito. Lo spartiacque tra movimento di protesta e proposta furono proprio i nostri sindaci. Ci hanno permesso di crescere e prendere un sacco di consensi. Penso innanzitutto a Gentilini».
Lo «sceriffo» di Treviso.
«C’è una Lega prima Gentilini e una Lega dopo Gentilini. Quelli come lui ci hanno sdoganato come forza di governo. Anche i grillini riempivano le piazze, dicendo che avrebbero fatto sfracelli. Una volta messi alla prova, li hanno cacciati. Noi, invece, siamo qui da trent’anni».
Dopo il veto sulla sua lista civica, a metà ottobre, lei è sbottato: «Se sono un problema, vedrò di diventarlo davvero».
«Poi mi sono candidato e abbiamo preso il 36%, stravolgendo ogni sondaggio che ci dava punto a punto con Fratelli d’Italia».
Era un messaggio all’alleato?
«La campagna elettorale è finita. Ognuno ha fatto la sua corsa. Loro, in consiglio regionale, dimostrano grande lealtà. E considero Giorgia Meloni il migliore presidente del Consiglio possibile. Sta dando al Paese un prestigio internazionale che non si vedeva dai tempi di Berlusconi. Ha investito nella politica estera, in un mondo sempre più piccolo. Una scelta intelligente».
L’opposizione eccepisce.
«Se avessimo lo spread a 200 punti, sarebbero scesi in piazza con i cartelli. Invece, il differenziale è ai minimi storici. Non si tratta di un primato teorico. Vuol dire pagare meno il debito pubblico e avere risorse da investire per gli italiani, a cominciare dalla sanità».
Alle ultime regionali ha preso oltre 200.000 voti. Un record assoluto. Le piacerebbe cimentarsi in un’elezione nazionale?
«Non anticipo nulla, per ora sono concentrato sul mio nuovo incarico. Questo non è un parcheggio. Ho ancora un elenco interminabile di cittadini che vogliono incontrarmi».
Cosa le chiedono?
«Mi raccontano pure della lite con il vicino. Come dico a tutti: non ho la sfera di cristallo, ma ascolto e cerco di consigliare».
Il suo vittorioso slogan è stato: «Dopo Zaia, scrivi Zaia».
«Ho vissuto in mezzo al popolo per oltre quindici anni, prendendo decisioni non sempre facili: pandemie, catastrofi, alluvioni... Ma io sono un uomo da pantano. È il terreno in cui mi muovo meglio».
Il ricordo più lieto, invece?
«Aver portato le Olimpiadi invernali in Veneto. La candidatura di Cortina l’ho inventata io».
Presenzierà o guarderà da lontano?
«Qualche ora fa mi hanno invitato alla cerimonia d’apertura a Milano, il 6 febbraio».
Ora anche le sue strade potrebbero portare a Roma. Proprio mentre Attilio Fontana avverte sul rischio della politica «all’amatriciana».
«Quella politica l’ho già conosciuta da giovane, quando fui chiamato all’Agricoltura. Il presidente Napolitano mi chiese: “Che ministro sarà?”. Io risposi: “Con le scarpe sporche di terra”. In quegli anni non partecipai mai a un convegno, giravo le aziende e incontravo i contadini. Alla fine, tutto si riduce a un problema di interpretazione».
Tranquillizziamo il governatore lombardo.
«A Roma l’autoreferenzialità diventa un pericolo reale, ma non c’è politica senza rapporto con il popolo».
Non si strugge per il potere?
«Ho sempre vissuto con spirito di servizio. Anche la parola ministro vuol dire servitore. Ripartiamo dall’etimologia».
Intanto, presiede il consiglio veneto.
«Mai si dovrà dire che l’ho gestito male».
Nel frattempo?
«Riordino le idee».
In che modo?
«Cammino. Faccio sette chilometri al giorno».
Medita sul suo luminoso domani?
«Seneca scrive che non è la vita a essere breve. È l'uomo che l’accorcia, sperando nel futuro senza vivere il presente».
A cosa pensa, allora?
«Sono figlio di un meccanico e una casalinga. Penso a quelli che non arrivano a fine mese».
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Alberto Contri (Imagoeconomica)
L’esperto di comunicazione: «Nonostante l’eccezione del secondo mandato, il capo dello Stato interviene su tutto, dando indirizzi di politica interna ed estera. Nel frattempo i media mainstream globali crollano perché la verità si trova solo sui social liberi».
Sconfortato per lo stato dell’informazione in Italia e in Europa, stupito di essere tra i pochi ad allarmarsene ma deciso a dar battaglia, già ai vertici di importanti istituzioni della comunicazione, ex consigliere Rai e per 20 anni presidente di Pubblicità Progresso, Alberto Contri ha appena pubblicato La guerra della comunicazione, testo contenuto in Luce (Arca Edizioni), saggio di autori vari, tra i quali lo storico Angelo D’Orsi e la virologa Maria Rita Gismondo.
Professor Contri, in pochi giorni abbiamo registrato l’autocritica del Wall Street Journal sulle previsioni economiche sbagliate, sui dazi e sulla tenuta di Donald Trump, la retromarcia del New York Times sui piani economici soffocanti, le politiche ambientali autodistruttive, l’immigrazione indiscriminata e il ritiro di un articolo di Nature sulle teorie del cambiamento climatico. Che cosa sta accadendo alla comunicazione mondiale?
«Forse sta iniziando a incrinarsi il blocco informativo gestito da Blackrock, il più grande fondo di investimenti mondiale che ramifica il suo potere in 500 multinazionali tra cui sei potenti network di comunicazione. Questi media, forse, lo ripeto, cominciano a realizzare che, oltre un certo limite di bugie, non si può andare perché la popolazione si rende conto della discrasia tra la realtà e la narrazione».
Sono autocritiche e ripensamenti clamorosi di testate prestigiose, come mai non se ne parla nei nostri giornali e nelle nostre televisioni?
«L’unico che le ha riprese è Federico Rampini, tra i giornalisti e analisti più indipendenti in circolazione. Le altre grandi firme ed editorialisti, in Europa e in Italia, continuano la loro routine come se niente fosse».
È curioso che testate e opinionisti in prima linea per la libertà di stampa siano invece retroguardie quando si tratta di dare notizie che implicano un ricalcolo radicale?
«Più che curioso lo definirei drammatico. È un comportamento rivelatore del fatto che costoro si muovono in base a motivazioni ideologiche o a pressioni degli editori, anche in conseguenza del miliardo che hanno ricevuto in dieci anni dall’Unione europea (fonte: Brussels’s Media Machine, Thomas Fazi ndr) - per cui bisogna parlar bene dell’Europa - e dalla presidenza del Consiglio, sotto forma di finanziamenti alla cosiddetta stampa libera. Per esempio, mi ha stupito la richiesta di questi giorni del presidente degli editori Andrea Riffeser che batte ancora cassa a Palazzo Chigi».
Questo flusso di denaro finanzia una sorta di macchina del consenso?
«La sostanza di ciò che vediamo è molto denaro offerto in cambio di una narrazione positiva delle gesta eroiche e progressive di questa Unione europea».
Che cosa pensa della vendita di Repubblica e Stampa, crolla un bastione della sinistra e dell’Italia civile?
«I nodi vengono al pettine. Se guardiamo le statistiche vediamo un crollo progressivo nella lettura dei giornali. Quello che mi stupisce è che coloro che hanno contribuito alla caduta di questi media adesso strillano per il pericolo della fine di un’informazione che libera non era. Possiamo notare il solito doppio standard, silenzio assoluto per la crisi di Stellantis che ha colpito le maestranze e grida per le testate dove lavorano».
Qual è la sua opinione sui nostri telegiornali?
«Ormai, per un osservatore dei media come me, l’ascolto dei tg è una tortura quotidiana».
Addirittura?
«La maggioranza dei nostri telegiornali risponde a una liturgia sempre uguale a sé stessa, con la voce del padrone in primo piano e poi il risibile siparietto del cosiddetto pastone politico in cui, come tante marionette, i vari esponenti politici rivendicano con frasi fatte l’apporto del loro partito a un presunto buon andamento del Paese. Anche l’opposizione è un disco rotto, con le solite figurine di Bibì e Bibò. Per il resto, molta cronaca nera, omicidi, femminicidi e tante canzoni».
Un quadro desolante.
«Fosse solo questo, da giorni in tutta Europa, in Francia, Germania, Spagna, Irlanda ma anche in Gran Bretagna, ci sono migliaia di trattori di nuovo in marcia a sostegno delle proteste degli agricoltori. In Francia da due giorni alcune autostrade sono bloccate. Solo perché la protesta è arrivata a Bruxelles la Rai ha battuto un colpo, ma niente di più».
Come se lo spiega?
«Ci dev’essere una moral suasion, i finanziamenti cui accennavo, per dire che in Europa tutto va ben, madama la marchesa».
Come mai sui social le manifestazioni dei trattori sono visibili?
«Soprattutto su X. Questo spiega l’accanimento e la recente multa di Bruxelles contro il social di Elon Musk. Non a caso, lui stesso ha dichiarato che se avesse censurato maggiormente certe notizie non sarebbe stato sanzionato. La sintesi è questa: i media che prendono denaro sono allineati, i social che non lo sono prendono le multe».
Tg e talk show sono troppo ostaggi della polarizzazione pro o contro il governo Meloni?
«Anche della polarizzazione sul Covid, la Russia, la cultura woke... Magari fosse una polarizzazione tra due poli, purtroppo se ne vede quasi solo uno».
L’ultima vittima è Limes, la rivista di geopolitica di Lucio Caracciolo?
«Certo, contestata solo per aver distinto l’analisi dalla propaganda e ospitato tutte le voci».
A che cosa si riferiva qualche giorno fa il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando parlava di «opachi centri di potere sottratti alla capacità normativa degli Stati»?
«Devo rispondere con circospezione e rispetto in quanto commendatore nominato da Oscar Luigi Scalfaro e grand’ufficiale della Repubblica nominato da Carlo Azeglio Ciampi. Ho il più grande rispetto della massima carica dello Stato, ma non posso buttare a mare una reputazione di 50 anni di analista della comunicazione per non rilevare che, negli ultimi anni, le esternazioni del presidente della Repubblica hanno travalicato i limiti previsti dalla Costituzione. Innanzitutto, per la frequenza eccessiva, al punto che, a volte, compare due volte nello stesso tg. Poi perché insieme a osservazioni spesso retoriche, vengono dati precisi indirizzi sia di politica estera che di politica interna. Infine, per gli elementi d’incoerenza».
Per esempio?
«Quando ha detto che “non si cambiano i confini con la forza”, forse non ricordava il suo ruolo di vicepremier nel governo D’Alema che partecipò al bombardamento del Kosovo nel 1999».
Ma gli «opachi centri di potere»?
«In questo caso c’è un’aggressione al sistema dei social network che invece si stanno rivelando vettori di verità. Mentre i media mainstream sono ritenuti detentori esclusivi di questa verità».
Il capo dello Stato che si preoccupa di opachi centri di potere gode dal canto suo di molta visibilità mediatica.
«Posso rispondere che, sul piano della tecnica della comunicazione, esternare ogni giorno che Dio manda in terra riduce automaticamente l’autorevolezza del discorso da qualunque alto pulpito esso provenga».
Se lo aspettava un Mattarella così interventista come negli ultimi tempi?
«Sinceramente no e mi ha molto stupito, come mi hanno stupito anche certi toni. Per esempio, quello del discorso agli ambasciatori in Italia era aspro e aggressivo. E persino intimidatorio quando ha detto che “non è possibile distrarsi e non sono consentiti errori”».
Quel discorso ha avuto anche una particolare tempistica?
«Pronunciato il giorno del vertice di Berlino, nel momento in cui si sta faticosamente cercando una mediazione tra Europa e America sull’Ucraina, è sembrato un intervento a gamba tesa».
Fanno bene i telegiornali a rilanciarlo con puntualità o certi servizi sono una sorta di pedaggio?
«Dimostrano una buona dose di piaggeria. Dal punto di vista tecnico, osservo che purtroppo, dati i suoi toni freddi e anaffettivi, il presidente non è assistito da una particolare grazia nel comunicare».
Tra pochi giorni lo ascolteremo nel discorso di fine anno.
«Francamente, dopo averlo ascoltato tutti i giorni non so che cosa potrà dirci di nuovo se non ribadire le sue idee politiche».
A questo proposito, ricorda che durante il governo Draghi e il Conte II Mattarella fosse così interventista?
«Mi pare che i suoi interventi fossero di meno. Inoltre, mi permetto umilmente di osservare che, essendo già un’eccezione il secondo mandato, forse una particolare prudenza in queste esternazioni sarebbe stata raccomandabile».
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