2022-05-03
Zio Paperone corre in soccorso dei dem Usa
La Disney ha assunto come capo della comunicazione l’ex spin doctor degli Obama-Clinton. Ma è soltanto l’ultimo episodio di una lunga serie di intrecci tra i manager della multinazionale e il Pd americano. Sovvenzionato pure con ricche donazioni.Lo scontro tra Disney e Ron DeSantis è noto. Il governatore della Florida ha revocato i privilegi di cui il colosso dell’intrattenimento gode in loco, dopo che i suoi vertici avevano duramente criticato la recente legge statale, fortemente voluta dai repubblicani, che vieta la trattazione di tematiche gender nelle scuole elementari. Un duello, questo, che ha acceso un faro sulle significative connessioni tra l’azienda e il Partito democratico americano. Le porte girevoli infatti non mancano. Appena pochi giorni fa, il colosso ha assunto a capo della comunicazione Kristina Schake: costei è stata direttore della Comunicazione per l’allora first lady Michelle Obama e vicedirettore della Comunicazione per la campagna presidenziale del 2016 di Hillary Clinton. Inoltre, a marzo 2021, Joe Biden nominò la Schake a capo della campagna di educazione sul vaccino contro il Covid-19. Non solo. Nel consiglio d’amministrazione del colosso siede anche Michael Froman, che è stato vice consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti per gli affari economici internazionali nell’amministrazione di Bill Clinton dal 1993 al 1995, per poi ricoprire il ruolo di Rappresentante commerciale degli Stati Uniti con Barack Obama dal 2013 al 2017. Strette connessioni con il Partito democratico si sono inoltre registrate anche nel recente passato. È per esempio il caso di Geoff Morrell, dimessosi dai vertici esecutivi dell’azienda pochi giorni fa a seguito dello scontro tra Disney e lo Stato della Florida: costui è stato portavoce del Pentagono tra il 2007 e il 2011, quando Robert Gates svolgeva l’incarico di segretario alla Difesa. Entrato in carica ai tempi di George W. Bush, Morrell mantenne quindi il posto durante i primi due anni dell’amministrazione Obama. Vicinissimo al Partito democratico è anche Bob Iger, che è stato ceo di Disney dal 2005 al 2020, oltre che presidente del suo cda fino al 2021. Nell’estate del 2016, costui fu tra gli organizzatori di un grande evento di raccolta fondi a favore dell’allora candidata dem, Hillary Clinton. Entrato successivamente insieme a molti altri ceo nello Strategic and Policy Forum, un organo consultivo istituito da Donald Trump, ne uscì appena pochi mesi dopo, in polemica con la scelta dell’allora presidente repubblicano di ritirarsi dall’accordo di Parigi sul clima (che era stato siglato da Obama). Iger, che fino al 2016 era registrato come democratico ed è diventato poi indipendente, ha inoltre recentemente criticato la legge della Florida sul gender nelle scuole. Ovviamente questo non vuol dire che le poltrone ai vertici di Disney sono tutte occupate da democratici. Tuttavia il loro peso è significativo, mentre è sotto gli occhi di tutti l’agenda progressista che il colosso ha ormai abbracciato da alcuni anni a questa parte. Ma la connessione con i dem non si registra soltanto a livello di alte sfere aziendali. Basta infatti dare un’occhiata ai finanziamenti elettorali. Secondo Open Secrets, Disney sovvenziona in forte maggioranza il Partito democratico. Nel ciclo elettorale del 2020, il colosso diede oltre 7 milioni di dollari ai dem, riservando meno di due milioni ai repubblicani. Nel 2018, versò all’Asinello oltre due milioni, mentre all’elefantino andarono circa 264.000 dollari. Quest’anno, i finanziamenti ai dem hanno al momento raggiunto oltre un milione e mezzo, quelli ai repubblicani sono invece fermi a 112.000 dollari. Del resto, i rapporti tesi tra Disney e i repubblicani non nascono con DeSantis. Nel 2019, Iger criticò la legge sull’aborto della Georgia, mentre nel 2017 difese una giornalista del canale Espn (controllato da Disney), che aveva definito Trump un «suprematista bianco». L’anno scorso, il colosso annunciò inoltre che avrebbe bloccato i finanziamenti elettorali a quei parlamentari repubblicani che al Congresso avevano votato contro la certificazione della vittoria di Biden. Una mossa sostanzialmente replicata a marzo scorso, quando Disney - in conseguenza della polemica con DeSantis - ha detto di voler sospendere le donazioni alle varie campagne elettorali della Florida. Eppure l’azienda, così attenta ai diritti civili in America, non disdegna di fare affari nella Repubblica popolare cinese, che non risulta esattamente essere una liberaldemocrazia. Non solo Disney ha aperto un parco tematico a Shanghai nel 2016, ma nel 2020 finì anche al centro della bufera per il film Mulan. Quella pellicola fu in parte girata nello Xinjiang e, nei titoli di coda, furono inseriti «ringraziamenti speciali» alle autorità della regione. Peccato che, proprio nello Xinjiang, il governo cinese attui la persecuzione sistematica della minoranza uigura: era l’agosto 2018, quando le Nazioni Unite riferirono che oltre un milione di uiguri sono chiusi in campi di detenzione, mentre svariati parlamenti hanno formalmente definito un genocidio quello che accade nella regione. I progressisti di Disney queste cose non le sanno?
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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