2025-04-20
Il ricatto europeo alle Big tech è fuffa. Anche gli Stati bocciano la Web tax
Micheál Martin, primo ministro irlandese (Ansa)
La gabella sui colossi digitali danneggerebbe i cittadini. L’Irlanda è sulle barricate.Chi la fa l’aspetti. Così, dopo che il presidente Donald Trump ha accusato l’Ue di essere «patetica», la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha fatto sapere che sta lavorando al possibile varo di una web tax pensata per colpire i ricavi pubblicitari delle grandi piattaforme digitali statunitensi. L’imposta verrebbe attivata, però, solo nel caso in cui i negoziati commerciali con Washington sui dazi dovessero arenarsi. Come spiega Politico, Ursula von der Leyen ha evocato l’«Anti‑Coercion Instrument» (Aci), lo strumento di «trade bazooka» (bazooka commerciale, ndr) concepito per rispondere con contromisure economiche a imposizioni estere, ma mai sperimentato in precedenza. L’idea è di colpire in particolare i profitti che Meta, Google, Apple e Amazon ricavano dalla pubblicità online.Sul piano diplomatico, tuttavia, lo scenario appare molto meno certo. Pur garantendo sostegno di facciata all’iniziativa Ue, molti Stati membri - in primis Germania e Irlanda - hanno fatto trapelare dubbi e perplessità rispetto a un’escalation commerciale con gli Stati Uniti.Il primo nodo critico è la quasi totale assenza di piattaforme o servizi digitali europei in grado di sostituire l’offerta statunitense nel cloud, nei data center e nella raccolta pubblicitaria. Come ha detto il ministro delle Finanze tedesco Jörg Kukies, «non ci sono sufficienti alternative europee alle offerte dell’industria digitale americana». La conseguenza è che un’imposta sui ricavi americani si ripercuoterebbe automaticamente sui bilanci delle imprese e sulle tasche dei consumatori europei, senza scalfire davvero il dominio della Silicon Valley. Per introdurre una nuova tassa a livello comunitario, poi, servirebbe l’unanimità dei 27 Stati membri, un traguardo già sfiorato invano con le Digital services tax nazionali. Von der Leyen ha quindi puntato sull’Aci, ma - come evidenziato dal think tank Bruegel - lo strumento non può colpire le società con forte presenza legale in Europa, ovvero la maggior parte delle Big Tech registrate in Irlanda o Lussemburgo. Una possibile via d’uscita potrebbe essere tassare i beni venduti online da venditori statunitensi a consumatori Ue, ma il meccanismo di identificazione dei «seller» appare complesso e potenzialmente inapplicabile su larga scala.Dublino rappresenta poi il principale scoglio politico: il primo ministro Micheál Martin ha già promesso che l’Irlanda «resisterà» a ogni tassa digitale aggiuntiva, temendo ripercussioni su un fisco nazionale che dipende in larga parte dalle imposte versate da dieci multinazionali americane, responsabili di circa il 60% del gettito societario e del 30% delle entrate totali. In parallelo, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sta rilanciando i negoziati su un’intesa globale che preveda un’aliquota minima del 15% sugli utili delle multinazionali e la cosiddetta Pillar I, che riconosce alla giurisdizione del luogo di consumo una fetta delle entrate digitali. L’apertura della Casa Bianca su questi dossier - confermata dal segretario Ocse Mathias Cormann in un’intervista al Financial Times - potrebbe, però, offrire una via d’uscita, evitando l’«arma fiscale» europea e riducendo il rischio di ritorsioni da oltreoceano. Il pericolo più concreto resta dunque quello di uno scontro commerciale che penalizzerebbe l’export Ue verso gli Stati Uniti. Una simulazione Bce stima un calo del Pil dell’eurozona dello 0,3 % nel primo anno di dazi e fino allo 0,5 % in caso di replica europea.
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