Laura Boldrini (Ansa)
Ben 7 milioni di euro raccolti nel nostro Paese e consegnati ai tagliagole a opera dell’architetto coccolato da Laura Boldrini, Nicola Fratoianni, Alessandro Di Battista, Francesca Albanese & C. Che ora tacciono imbarazzati. Ma i segnali erano moltissimi: sono loro che non li hanno voluti vedere.
Chissà che fine hanno fatto gli amici di Mohammad Hannoun, quelli che amavano partecipare alle sue manifestazioni e scattarsi selfie al suo fianco. Ieri, dopo l’arresto del presidente dell’associazione dei palestinesi in Italia, ho trascorso ore passando in rassegna le agenzie di stampa alla ricerca di una dichiarazione in favore di colui che, secondo gli inquirenti, era a capo di un’organizzazione che finanziava i terroristi di Hamas. Con la scusa di raccogliere fondi per la popolazione di Gaza, Hannoun e i suoi complici (in totale a finire in manette sono state nove persone) avrebbero dirottato nelle casse del partito armato più di 7 milioni di euro.
Soldi ottenuti promettendo di usarli in aiuti ai palestinesi, per realizzare desalinizzatori che consentissero di far arrivare acqua potabile nei campi profughi. In realtà, le donazioni servivano a pagare gli stipendi dei miliziani, oppure a sostenere le famiglie degli attentatori o dei detenuti. Dare soldi ad Hannoun, in pratica, significava darli ai terroristi ed è per questo che ieri all’alba i militari della Guardia di finanza, su disposizione della Direzione nazionale Antimafia e Antiterrorismo, hanno provveduto ad arrestare lui e i suoi principali collaboratori.
Nei mesi passati, dopo il 7 ottobre e l’inizio dell’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano a caccia delle centinaia di persone sequestrate nel raid di Hamas, molti avevano imparato a riconoscere il volto di Hannoun come uno dei più rappresentativi della causa palestinese. Sempre in prima fila, sempre pronto rilasciare dichiarazioni negando qualsiasi collegamento con il movimento terroristico, l’architetto giordano da anni trapiantato in Italia, a Genova, era tenuto in grande considerazione. Da Laura Boldrini ad Alessandro Di Battista, da Nicola Fratoianni a Francesca Albanese, sono molti i compagni che nel tempo hanno marciato al suo fianco, prestando volentieri la propria immagine per la causa palestinese incarnata da Hannoun.
Eppure si sapeva che il presidente dell’associazione dei palestinesi in Italia era una figura controversa, da tempo chiacchierata per una sospetta vicinanza al movimento terroristico autore della strage del 7 ottobre. Il nostro Giacomo Amadori sulla Verità se n’è occupato spesso. E Fausto Biloslavo su Panorama ha scritto almeno una decina di articoli, segnalando le accuse che gli venivano rivolte di essere un collettore di fondi pro Hamas. Curiosamente, nonostante i molti dubbi sulle sue attività non fossero ristretti ai soli inquirenti, nessuno tra chi allegramente prestava il proprio volto per le campagne pro Pal si è fatto troppi problemi nell’averlo a fianco. Nessuno si è chiesto se esistessero elementi in grado di far sospettare che tra il filo palestinese Hannoun e certi ambienti anarco-insurrezionalisti ci fosse un pericoloso collegamento.
Eppure era evidente che alcune manifestazioni pro Pal non fossero proprio spontanee. Si capiva che i numerosi scontri con la polizia non erano casuali, ma apparivano coordinati da una specie di regia. Ma a sinistra hanno preferito non vedere, ignorando non soltanto numerose evidenze, ma anche chiudendo gli occhi sulle sempre più dettagliate inchieste giornalistiche. Hannoun era un testimone della tragedia palestinese da portare in palmo di mano. Anzi, da sostenere a pugno chiuso. Così siamo arrivati agli arresti di ieri, ma soprattutto ai silenzi di oggi di chi fino a ieri, come Francesca Albanese, si faceva ritrarre al suo fianco, felice di combattere per la causa comune di Gaza.
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Il presidente della comunità palestinese Mohammad Hannoun (Ansa)
Il 71% dei fondi usato per scopi non umanitari. Dalle intercettazioni emerge un piano chiaro: «Noi ci sacrifichiamo con i soldi, loro col sangue». Ieri sequestrato 1 milione in contanti in case e sedi delle associazioni islamiste.
Sette milioni di euro. È questa la cifra che, camuffata da beneficenza per il popolo palestinese, sarebbe partita dall’Italia per Hamas, l’organizzazione terroristica responsabile della strage del 7 ottobre. Un flusso di denaro che, per gli investigatori della Digos di Genova, del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza e del Nucleo speciale di polizia valutaria (coordinati dalla Procura di Genova e dalla Direzione nazionale Antimafia), avrebbe alimentato direttamente un sistema criminale con finalità di terrorismo internazionale. Tramite tre sigle: l’Associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese, fondata a Genova nel 1994 (dal 2007 avrebbe movimentato 800.000 euro solo per il suo funzionamento); l’Associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese-Organizzazione di volontariato, costituita nel 2003; e la più recente «Associazione benefica La Cupola d’Oro», aperta a Milano, in via Venini, nel dicembre 2023 con l’obiettivo di sostituire le associazioni genovesi, ormai troppo attenzionate.
Per gli inquirenti erano tutte riconducibili alla stessa regia, quella di Mohammad Hannoun, indicato come «membro del comparto estero di Hamas» e «vertice della cellula italiana dell’organizzazione», legale rappresentante o amministratore di fatto delle associazioni che facevano da bancomat per il movimento della resistenza islamica a Gaza. Con lui sono state arrestate altre otto persone: Osama Alisawi, «membro di Hamas», «già ministro dei Trasporti del governo di fatto di Hamas a Gaza», cofondatore della Abspp; Dawoud Ra’Ed Hussny Mousa, operativo nella raccolta e nel trasferimento dei fondi, anche tramite trasporto di contante; Elasaly Yaser, parte della struttura operativa della cellula; Albustanjy Riyad Abdelrahim Jaber, coinvolto nella gestione e nel trasferimento dei fondi; Al Salahat Raed, coinvolto nelle attività di finanziamento attraverso le associazioni. Da maggio 2023 era componente del board of directors della European palestinians conference, per lui si è subito speso l’imam di Firenze, Izzedin Elzir: «Lo conoscevo, e conoscendo la nostra realtà, per me è una bolla di sapone». In tre invece sono accusati di «concorso esterno in associazione terroristica»: Abu Rawwa Adel Ibrahim Salameh, per aver fornito supporto finanziario continuativo; Abu Deiah Khalil, indicato come promotore della nascita di nuove associazioni (tra cui La Cupola d’Oro) per proseguire la raccolta fondi nonostante i blocchi bancari; Abdu Saleh Mohammed Ismail, per il contributo fornito al sistema di finanziamento dell’organizzazione.
Le tre associazioni sono finite sotto sequestro, con un provvedimento che colpisce anche i patrimoni per un ammontare di 8 milioni di euro. Al quale vanno a sommarsi i contanti, per circa 1 milione, sequestrati ieri durante le perquisizioni e repertati dagli investigatori delle Fiamme gialle. Nell’inchiesta sono finite le analisi delle Sos, le Segnalazioni di operazioni sospette inviate dall’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia ed elaborate dalla Direzione nazionale Antimafia. Salameh, in particolare, era stato segnalato «per l’acquisto all’asta, in un lasso temporale ristretto, di oltre 40 immobili senza accedere ad alcuna linea di finanziamento». È lui, ricostruiscono gli investigatori, a consegnare, al casello autostradale di Lodi, una somma particolarmente consistente. L’operazione viene svelata dalle intercettazioni: «Ti devo portare 250.000, non li posso tenere tutti da me». E dopo essersi accordato, ha ringraziato: «Che Dio ti protegga… sono 250 e nel Pos 56 e bonifico 22 e diciamo che grazie a Dio abbiamo superato la somma dei 340 circa».
L’inchiesta si è poi sviluppata grazie alla cooperazione internazionale, soprattutto con le autorità olandesi, per ricostruire i contatti tra le associazioni di beneficenza italiane e il Movimento della resistenza islamica, che l’Unione europea indica come organizzazione terroristica. Il punto chiave sono i flussi di denaro. «In particolare», spiegano gli investigatori, sono finite al centro dell’indagine «operazioni di finanziamento, che si ritiene abbiano rilevantemente contribuito alle attività delittuose dell’organizzazione terroristica». I passaggi sarebbero stati costruiti grazie a «triangolazioni bancarie o con altre modalità per il tramite di associazioni con sede all’estero». Destinazioni precise: associazioni con sede «a Gaza, nei territori palestinesi o in Israele, dichiarate illegali dallo Stato di Israele, perché appartenenti, controllate o comunque collegate ad Hamas». E anche trasferimenti «direttamente a favore di suoi esponenti», come Osama Alisawi.
Il nome di Alisawi ricorre più volte negli atti. Oltre a essere indicato come «già ministro del governo di fatto a Gaza», secondo gli inquirenti, «in varie circostanze sollecitava il supporto finanziario». Non un beneficiario occasionale, ma un interlocutore stabile. Cofondatore, nel 1994, di una delle associazioni e delegato ad operare, dal 2001 al 2009, sui conti correnti. È sulla destinazione dei fondi che insiste l’ordinanza del gip di Genova Silvia Carpanini: le associazioni coinvolte, si legge, «operavano nella raccolta a fini umanitari di fondi per la popolazione palestinese destinati in realtà in parte rilevante (più del 71 per cento) al finanziamento diretto di Hamas o di associazioni a essa collegate o da essa controllate e di tutte le articolazioni dell’organizzazione terroristica». L’ordinanza chiarisce che quei fondi non servivano soltanto a sostenere strutture civili, ma contribuivano «al sostentamento dei familiari di persone coinvolte in attentati terroristici o di detenuti per reati terroristici», rafforzando così «l’intento di un numero indeterminato di componenti di Hamas di aderire alla strategia terroristica e al programma criminoso del gruppo».
Dopo il 7 ottobre, però, la strategia cambia. «In conseguenza alle limitazioni imposte dal sistema finanziario è stato attuato il trasferimento diretto per contanti attraverso cash couriers». È il cambio di passo: quando i canali bancari si chiudono, entrano in scena gli spalloni. Con episodi concreti, quelli scoperti in dogana. Il 9 ottobre 2024, per esempio, Dawoud, al momento dell’imbarco, dichiarava di trasportare 170.000 euro «per conto dell’Abspp, diretto in Turchia». Solo un mese dopo, all’imbarco per l’Egitto, «dichiarava di trasportare 100.000 euro» per la stessa associazione. C’è anche la consegna materiale del contante prima del viaggio. È sempre Dawoud a consegnare ad Hannoun uno zaino con 150.000 euro in pezzi da 50 euro. Lo stesso Hannoun si occupa delle consegne in più occasioni, sempre in Turchia. Il quadro che emerge è quello di una struttura stabile. E frutto di iniziative non individuali: «La costituzione di una cellula estera del movimento, sulla base degli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini, non può ritenersi il risultato di una iniziativa personale di coloro che hanno dato vita all’associazione solidaristica italiana nei primi anni Novanta ma, piuttosto, la realizzazione di un progetto strategico di Hamas». Da inserire in un contesto più ampio. Quella italiana, infatti, secondo chi indaga, «può essere considerata un’articolazione estera di Hamas», partecipe, «con altre simili associazioni, di un network che opera coordinandosi con la struttura decisionale dell’organizzazione madre». Alcune donazioni sarebbero finite addirittura a strutture «accusate di operare sotto il controllo diretto dell’ala militare». Gli indagati, secondo l’accusa, «si sono resi consapevolmente responsabili di aver sottratto capitali alle finalità assistenzialistiche», per destinarli «a un finanziamento diretto dell’organizzazione terroristica e delle sue attività criminose». Ed è a questo punto che entra in scena la «Da’Wa»: attività che hanno lo scopo di creare saldi legami con la popolazione palestinese e «svolte dall’organizzazione con la finalità», stando all’accusa, «di conquistare il cuore e convertire le persone, ottenere sostegno e reclutare nuovi attivisti del movimento». E oltre alle attività educative c’erano quelle «strettamente legate al settore militare». Da quelle di «formazione di giovani per i futuri ruoli di leadership dentro Hamas a quelle svolte per il settore studentesco nel Campo militare degli studenti (Command training institute), dall’educazione sullo status di martiri e prigionieri al simposio su jihad e santi guerrieri dell’organizzazione».
E sul sito Internet Infopal, organo di informazione finanziato da una delle associazioni finite sotto inchiesta (è emerso che Abspp avrebbe bonificato dal 2010 al 2024 oltre 300.000 euro, mentre dalle intercettazioni è emerso che mensilmente sarebbero stati elargiti 2.800 euro, oltre al denaro contante consegnato dopo la chiusura dei conti correnti), gestito da Angela Lano, finivano proprio le posizioni dell’ala militare. Un’intervista, in particolare, ha attirato l’attenzione di chi indaga: Mousa Abu Marzook, uno dei leader di Hamas, pontificava sull’ipotesi, «impercorribile», di una forza internazionale di pace per gestire la fragile tregua. Negli stessi giorni è finito online un articolo che riportava «una presa di posizione ascritta genericamente all’ala militare dell’associazione terroristica» che si dichiarava «non disponibile ad alcuna resa». D’altra parte, il leader di Hamas Khaled Mesh’Al aveva appena affermato che «con la consegna delle armi Hamas avrebbe perso anche la propria anima». Angela Lano ribadisce il concetto sulla pagina Facebook, condividendo un post del sociologo Alessandro Orsini: «È Israele che sta compiendo un genocidio a Gaza, mica Hamas». L’indagato Abu Rawwa, annotano gli inquirenti, «condivide le medesime posizioni dell’organizzazione, addirittura in anticipo sulle dichiarazioni ufficiali». L’8 ottobre 2024, infatti, a bordo della propria auto proclama «che Hamas non accetterà mai un governo esterno né la consegna delle armi». E mentre Hannoun, che ormai sentiva il fiato sul collo (tant’è che a telefono con la Lano premette: «Informiamo anche i nostri gentili intercettori che ormai sanno tutto di noi»), preparava la sua fuga in Turchia, nell’associazione i suoi adepti distruggevano o formattavano i computer. Tutti passaggi intercettati. Compreso quello con la moglie Fatema che gli ricorda: «Sei in pericolo».
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I carabinierii e la Scientifica sul luogo della rapina alla gioielleria Mario Roggero (nel riquadro) a Grinzane Cavour, Cuneo, 28 aprile 2021 (Ansa)
Società civile ed esponenti politici si muovono per Mario Roggero. I familiari dei ladri uccisi vogliono tre milioni di risarcimento.
Ha reagito all’assalto di una banda di rapinatori e si è beccato una condanna a 14 anni di carcere per duplice omicidio. Ha già versato 300.000 euro ai parenti dei suoi assalitori che adesso, non soddisfatti, pretendono oltre tre milioni di risarcimento. Ha affrontato le spese legali di due processi - con perizie, consulenze e visite mediche - e presto dovrà ricorrere in Cassazione per far valere, in tribunale, il suo diritto a difendersi nella vita reale da una rapina.
È una condanna economica già scritta quella che pesa sulle spalle di Mario Roggero, che - beffa nella beffa - rischia di finire sul lastrico con tutta la sua famiglia. Per sostenerlo è partita una raccolta fondi, promossa dai comitati spontanei «Io sto con Roggero», da tanti cittadini e, tra gli altri, anche da Marco Rizzo, leader di Democrazia sovrana e popolare, e dal generale Roberto Vannacci, vicesegretario federale della Lega.
La storia di Roggero, infatti, al di là delle sentenze e dei sofismi giudiziari, continua a sconvolgere chiunque si metta, davvero, per un attimo, nei suoi panni. Il gioielliere, 72 anni, il 28 aprile del 2021, alla quinta rapina subita di cui una violentissima qualche anno prima, davanti a tre uomini che impugnavano un’arma entrati nel suo negozio e che hanno immobilizzato moglie e figlia, ha reagito sparando, fuori dal locale, uccidendo due malviventi e ferendone un terzo. Già condannato in primo grado a una pena di 17 anni e un primo versamento a favore dei familiari dei rapinatori, lo scorso 3 dicembre è stato ritenuto ancora colpevole dalla Corte d’Assise d’appello di Torino per duplice omicidio volontario: 14 anni e nove mesi, con la parte civile che pretende ora un risarcimento di oltre tre milioni.
Intorno alla sua vicenda sono nati comitati spontanei e gruppi social, e le manifestazioni di solidarietà sono state così tante che lui stesso si è detto stupito. Ora quella solidarietà diventa anche gesto concreto. «Chi viene aggredito ha solo pochi secondi per decidere, chi giudica ha anni per riflettere. La difesa si vive in un millisecondo, nel buio di una strada o sotto il porticato di una stazione. In quegli istanti non sei un avvocato, non sei un giudice. Sei solo un essere umano che cerca di tornare intero dai propri figli e dalla moglie o di salvarli», ha scritto Vannacci nel post su Facebook con il quale rilancia l’iniziativa, «Non è ideologia, è istinto primordiale. Chiedere a una vittima di essere “proporzionata” mentre il cuore batte a duemila è come chiedere a chi annega di misurare la temperatura dell’acqua. Serve una giustizia che protegga chi subisce, non che lo processi per aver avuto paura. Io sto con Mario, se i rapinatori non fossero entrati nel suo negozio per rapinarlo ora vivrebbero felici».
E con lui anche Rizzo: «Io sto con Roggero e aderisco alla richiesta di solidarietà da parte dei suoi legali. La morte non si augura a nessuno, neanche a un rapinatore. Ma la questione è quella di percepire, in un momento così concitato di una efferata rapina, quanto un soggetto aggredito abbia la mente lucida da interrompere la legittima reazione, appena varcata la soglia del luogo dell’aggressione. È del tutto evidente che Roggero spara nell’atto di difendere ancora la sua famiglia. E questo non è omicidio volontario. In un Paese dove uno scafista, condannato a 30 anni, viene graziato, si può davvero stare attivamente dalla parte di un onesto lavoratore che ha solo difeso i suoi cari ed il suo lavoro».
Nell’ultima seduta del Consiglio comunale di Alba, sette rappresentanti della minoranza, su iniziativa di Lorenzo Barbero, consigliere della Lega, hanno deciso di devolvere il proprio gettone di presenza per la causa. Barbero ha anche lanciato un appello pubblico promuovendo una raccolta firme istituzionale: «Un gesto dal valore simbolico il nostro, ma che vuole esprimere vera solidarietà umana».
Senza fare i conti in tasca al gioielliere, ma solo ragionando a spanne, le cifre già versate per questa faccenda sono da capogiro: Roggero, prima ancora della sentenza di primo grado, aveva versato ai parenti dei rapinatori un parziale risarcimento, per rispondere alla provvisionale esecutiva stabilita dai giudici di circa 500.000 euro, oggi la richiesta è salita a tre milioni di euro, mentre solo le spese legali da corrispondere ai legali di parte civile, come da sentenza d’appello, ammontano a oltre 30.000 euro. Tutti soldi che Roggero non ha, come ha dichiarato lui stesso ospite a Fuori dal coro: «Ho già tirato fuori 700.000 euro - ha detto - di cui 300.000 euro di risarcimento. Loro (i parenti dei rapinatori, ndr) hanno detto no ad altri 480.000 euro con cui avrei sperato di chiudere definitivamente tutto. La somma che mi chiedono io non ce l’ho neanche vendendo tutto e andando a dormire sotto i ponti. Mi chiedo che cosa succederà, che cosa farò, quale sarà il mio futuro».
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Alfredo Mantovano (Ansa)
Vengono riparametrate le sanzioni e allargato il potere preventivo di controllo. Centrodestra compatto, Pd e M5s gridano al golpe.
Grideranno al colpo di Stato contabile, ma hanno la voce fioca. Perché, com’è già successo con la cancellazione del reato di abuso d’ufficio, sindaci e assessori del Pd e dei 5s non vedevano l’ora di scrollarsi di dosso il fantasma dei giudici contabili. È passata al Senato in via definitiva con 93 sì, 51 contrari e cinque astenuti - Italia viva - la cosiddetta riforma della Corte dei Conti - primo firmatario il ministro per gli affari europei e il Pnrr Tommaso Foti - che non intacca le prerogative dei giudici contabili, anzi le rafforza in tema di parere preventivo sulle spese pubbliche, ma manda in pensione la presunzione di colpevolezza di amministratori e funzionari pubblici.
Il senatore del Pd Antonio Misiani accusa: «Altro che riforma, è un attacco frontale ai controlli di legalità e all’equilibro die poteri. Alla Corte dei Conti imputano il no al Ponte sullo Stretto». È lo stesso Misiani che definì «paradossale e assurda» la richiesta da parte dei giudici contabili di licenziamento di un professore lombardo multato perché aveva fatto la pipì in un cespuglio a bordo strada. Ha ragione il relatore di maggioranza Pierantonio Zanettin (Forza Italia) a dire: «Con questo provvedimento, che trae spunto da una sentenza della Corte Costituzionale, vogliamo evitare la stasi degli uffici pubblici. È un obiettivo condiviso dalla maggioranza degli amministratori a prescindere dal colore politico».
Eppure dai pentastellati si alzano alti lai. Roberto Cataldi a Palazzo Madama grida: «Date il via libera a qualsiasi forma di illegalità; questa legge è incostituzionale: vìola l’articolo 100 della Carta che vuole la Corte dei Conti indipendente». Chissà che ne pensano le professoresse di Venezia condannate perché hanno rottamato gli inutili banchi a rotelle comprati dal ministro Lucia Azzolina ai tempi del Covid su cui indaga la Corte dei Conti europea, ma la nostra tace. Quanto alla Costituzione l’articolo 100 sancisce: «La Corte dei Conti partecipa nei casi e nelle forme stabilite dalla legge al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce». Dunque la legge può modificarne l’attività a piacimento.
L’opposizione però racconta che si fa pagare all’organo di cui è presidente Guido Carlino, assai vicino a Sergio Mattarella, lo sgarbo sul Ponte di Messina a cui i giudici contabili hanno negato la legittimità. Peccato che Franco Bassini, l’ispiratore di tutte le riforme amministrative targate prima Pci e poi Pdi, abbia candidamente ammesso: «Dal Ponte sullo Stretto al caso Milano la Corte deve controllare la legittimità, non sostituirsi al decisore politico valutando il merito delle scelte, questa riforma va nella giusta direzione».
E qual è? Lo spiega il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano: «Vi è stata una costante interlocuzione con rappresentanti della Corte dei Conti che ha permesso di modificare più di una delle norme e non c’è nessuna vendetta per il Ponte. Il pronunciamento dei giudici è di un mese fa, la riforma è partita nel 2023. Si tratta di decidere se essere ipocriti o meno; siamo stati abituati ad accertamenti contabili stratosferici, il cui solo limite era di non andare mai a compimento se non per minime parti».
E qui c’è il merito delle norme. Si limita al 30% del danno accertato il rimborso, al massimo è possibile lasciare il funzionario senza stipendio per due anni e si punisce solo il dolo non la colpa grave, ma si obbligano gli amministratori a stipulare un’assicurazione che li copre in caso di condanna e rende certo l’incasso per lo Stato.
In cambio, ai giudici viene ampliata la competenza consultiva e preventiva sugli atti. E per dirla col ministro Foti: «La riforma per sconfiggere la paura della firma che di fatto blocca il lavoro della pubblica amministrazione. Da oggi lo Stato vigila, non paralizza».
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