2021-05-26
Usa e Cina compagni di lotta ai bitcoin per difendere la sovranità monetaria
Pechino mette al bando le criptovalute, gli Usa vietano transazioni anonime sopra i 10.000 dollari e Musk si smarca con la scusa dell’ecologia. È iniziata la battaglia per proteggere il monopolio delle banche centraliYoulong Liu è un giovanissimo imprenditore cinese. Racconta la sua storia e mostra il suo grosso stabilimento produttivo localizzato sulle montagne di Sichuan al cronista del Wall Street Journal. Di più non può dire. Teme che Pechino potrebbe farlo chiudere da un momento all’altro. E fa da banca anche ai suoi concorrenti. Cosa produce? Nulla. Un nulla che gli ha consentito di mettere in saccoccia 28 milioni di dollari in quattro anni. Dall’altra parte dell’oceano in North Carolina c’è un suo concorrente: Russel Ken. Fa incetta di siti industriali dismessi e di vecchie centrali a carbone ormai in disuso. Si vanta di avere grossi investitori alle spalle. Bilanci forti e revisori contabili seri. Mica come il cinese. Mostra al Wsj lo stabilimento dove prima la Levi’s produceva i giacchetti di jeans. Qualcuno di voi lettori, io compreso, trascorreva intere primavere tenendolo addosso e togliendolo solo per andare a letto. Forse. Uno stabilimento pieno di server e di cavi. Pure lui produce lo stesso «nulla» di Liu. Ma siccome gli Stati Uniti hanno a disposizione un tessuto industriale solo apparentemente distrutto e del tutto «riconvertibile accanto a una montagna di dollari di investitori golosi», Ken è sicuro del fatto suo. Gli Stati Uniti spodesteranno la Cina che a oggi controlla il 70% della produzione mondiale di questo «nulla». Il nulla di cui stiamo parlando è il bitcoin. La regina delle criptovalute. Come ogni banconota che si rispetti, ogni bitcoin ha un suo codice identificativo univoco. Come un numero di serie. E la sua autenticità è garantita dalla tecnologia blockchain. Un registro elettronico universale, condiviso e non manipolabile. Una volta prodotto (anzi trovato) il bitcoin viene inghiottito e incorporato nel registro agganciandosi a quello scovato subito prima e a cui si legherà come in una catena di blocchi il bitcoin successivo. Per scovare queste autentiche pepite non servono pale o picconi ma tanti, tantissimi server con impianti di raffreddamento. Devono avere spaventose capacità di calcolo e per questo consumano una montagna di energia. È il lavoro di Liu, Ken e di tanti altri minatori di criptovalute (non solo bitcoin) sparsi in tutto il pianeta. L’università di Cambridge stima che l’industria del mining delle criptovalute consumi l’equivalente del consumo energetico annuo di un Paese come l’Argentina. E in Cina, dove oggi l’energia la si trova a buon prezzo grazie all’utilizzo massivo del molto poco ecologico carbone, l’industria trova la sua sede ideale. Da quelle parti il mining fino a pochi giorni fa era tollerato come legale o quasi. Si potevano usare per pagare articoli acquistati in rete, oppure compravendendoli come una qualsiasi altra valuta. Il governo di Pechino ritiene che tutto questo possa essere un elemento destabilizzante per il suo sistema finanziario. E ora la vita per i minatori di bitcoin si sta sempre più complicando. Perché anche sull’attività di mining il governo di Pechino sta iniziando a prendere seri provvedimenti. Al contrario delle valute tradizionali, la cosiddetta «valuta fiat» (non c’entra nulla la nostra industria di autovetture) emessa dalle Banche centrali a loro piacimento, le criptovalute non sono riproducibili all’infinito. Sono state congegnate per arrivare a un numero massimo di unità raggiunto il quale non se ne trovano più. Il limite è di circa 21 milioni. Siamo intorno a 18 milioni secondo Glassnode. Questo effetto scarsità conferisce alla criptovaluta le stesse identiche caratteristiche delle monete d’oro. Con la differenza che con l’oro puoi farci tanti begli oggetti gradevoli alla vista a differenza del bitcoin. Provate a prendere un’immateriale stringa di dati e farci una collana se ci riuscite. Si consideri viceversa che dallo scoppio della pandemia i bilanci di Fed e Bce sono praticamente raddoppiati grazie all’emissione di nuova valuta dal nulla. Nessun mining ma un più semplice ed ecologico click sul computer grazie al quale la Banca centrale accredita il conto di riserva di una qualsiasi banca commerciale presso di lei facendosi dare in cambio titoli di Stato. Il bitcoin sarà pure il nulla. Ma stiamo parlando di un nulla spaventosamente redditizio. Chi avesse investito 1.000 euro sul bitcoin nel 2011, avrebbe avuto in portafoglio poco più o poco meno di 112 milioni di dollari due settimane fa. Almeno sulla carta. Perché - come dice Claudio Borghi, oggi deputato ma con un passato da trader professionista sui mercati finanziari - non esiste al mondo nessuno che dopo aver investito quei 1.000 euro dieci anni fa non si sarebbe fatto prendere dalla tentazione di monetizzare ai primi clamorosi guadagni. A meno che non gli «fosse caduto un vaso in testa e fosse andato in coma dieci anni subito dopo l’acquisto». Negli ultimi undici anni niente ha reso più del bitcoin. Per ben otto anni è stato l’asset class più redditizia. Un rendimento medio - fino ai primi cinque mesi del 2021 - pari ad oltre il 200%. Ogni anno. E il proprietario di Tesla Elon Musk ci ha messo del suo annunciando ai primi di marzo che avrebbe accettato bitcoin per vendere le sue vetture elettriche. Il prezzo già astronomico di un bitcoin, allora pari a 40.000 dollari, è lievitato fino ad oltre 60.000 dollari per poi scendere in picchiata fino agli attuali 30-31.000. Ah, dimenticavo! Nel frattempo Elon Musk ha ben pensato di annunciare un cambio di idea. Non accetterà più bitcoin. Si consuma troppa energia elettrica. Si fa del male all’ambiente. E forse anche alle sue macchine. Mentre nel frattempo il Tesoro americano ha annunciato che tutte le transazioni in bitcoin aventi un controvalore pari a oltre 10.000 dollari non potranno essere anonime. Dilettanti. Da noi le transazioni in contanti non possono superare i 2.000 euro. E scenderanno a 1.000. E le criptovalute sono contanti a tutti gli effetti. Qualcosa sta cambiando? La giostra è finita? Sia chiaro, la domanda di criptovaluta rimarrà significativa a livello mondiale se non altro per agevolare le transazioni illegali a distanza (armi, droga, eccetera). Ma secondo l’ufficio studi di Unicredit sembra proprio che il vento stia cambiando. Se gli Stati tornassero a difendere attivamente il normale principio che solo loro possono emettere moneta, per le criptovalute si aprirebbero scenari meno profittevoli. Questa in sintesi la sua analisi. E la volatilità di mercato di questi giorni ne è una prova. Ci sarebbe - a dire il vero - il piccolo particolare di qualche Stato tipo il nostro che da buon «cappone valutario» si è monetariamente castrato lasciando questa facoltà a una Banca centrale straniera. Ma questa purtroppo è un’altra storia.