
Un eventuale processo rischia di produrre spiacevoli ripercussioni sulla campagna elettorale per la nomination democratica del 2020. Un vero e proprio cortocircuito all'interno dell'asinello, che - sulla questione - potrebbe presto cadere preda di forti contrasti.Pochi giorni fa, la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha di fatto dato il via libera alla redazione dei capi di imputazione per la messa in stato d'accusa di Donald Trump. La palla è dunque passata nelle mani della commissione giudiziaria della Camera che, una volta stilata la lista, dovrà sottoporne ciascun articolo alla votazione dell'aula in plenaria. I capi d'imputazione, che otterranno la maggioranza semplice, saranno quindi al centro del processo celebrato in Senato.I rischi davanti a cui si trovano i democratici sono tuttavia molteplici. In primo luogo, bisognerà capire quanto i repubblicani - che alla camera alta detengono la maggioranza - abbiano intenzione di far durare il processo. Se secondo alcuni analisti avrebbero fretta di archiviarlo per evitare contraccolpi sulla campagna elettorale di Trump, è anche vero che - alla fine dei conti - potrebbero invece auspicare di allungarne i tempi. Non dimentichiamo infatti che, tra i vari candidati alla nomination democratica, molti siano senatori: Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Amy Klobuchar, Cory Booker e Michael Bennet. Se, come è probabile, un eventuale processo di impeachment andasse oltre il 3 febbraio (data di inizio delle primarie democratiche), tutti questi candidati sarebbero infatti costretti a sospendere temporaneamente i propri impegni elettorali in una fase politicamente cruciale. Una fase, per intenderci, in cui si terranno il caucus dell'Iowa e - dopo pochi giorni - le primarie del New Hampshire. I repubblicani potrebbero avere quindi tutta l'intenzione di far durare il processo almeno fino alla metà di febbraio, con l'ovvia speranza di azzoppare alcuni dei candidati democratici attualmente più forti in gara (soprattutto Sanders e la Warren).Ma non è tutto. Perché, al di là dei guai che potrebbero sorgere per le primarie democratiche, l'impeachment potrebbe portare l'intero asinello ben presto fuori strada. Uno dei grandi problemi che caratterizzano l'indagine attualmente in corso alla Camera è il suo debolissimo impianto accusatorio. Se nel 1974 (ai tempi di Nixon) e nel 1998 (ai tempi di Clinton) si riscontravano azioni oggettive (sulla cui eventuale gravità discussero poi politici e giuristi), in questo caso le audizioni hanno prodotto testimonianze molto farraginose, senza elementi certi ed evidenti: tanto che diversi tecnici, come Ken Starr e Alan Dershowitz, risultano particolarmente critici verso questa indagine e - soprattutto - verso un eventuale processo di impeachment.Inoltre, al di là dell'assenza di una pistola fumante, si scorge un problema di natura giuridica. Se anche venissero infatti reperite prove che Trump abbia chiesto al presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, di aprire un'inchiesta su Joe Biden in cambio degli aiuti economici americani a Kiev, non è detto che si tratterebbe di un caso di corruzione come sostenuto dalla Pelosi. Affinché si possa parlare infatti di corruzione, secondo il codice penale americano, è necessario che sia coinvolto almeno un pubblico ufficiale. E se andiamo a vedere come il codice definisce la figura del pubblico ufficiale, scopriremo che tali si possono definire o i legislatori o i funzionari di vario grado che operano nel governo federale. È quindi chiaro che il reato di corruzione abbia a che fare con il sistema istituzionale, amministrativo e politico interno agli Stati Uniti d'America, e che non si dia nell'ambito delle relazioni internazionali: ambito in cui, tra l'altro, il potere esecutivo risulta investito di amplissima discrezionalità.È pur vero che, secondo alcuni, per avviare un impeachment non risulti necessario un comportamento penalmente rilevante. Ma se si accetta questa visione, è allora chiaro che un processo di messa in stato d'accusa possa essere invocato per qualsiasi motivazione, bastando la semplice maggioranza parlamentare alla Camera. Non sarà del resto un caso che, negli ultimissimi giorni, il deputato democratico del Texas, Al Green, abbia chiesto di includere nei capi di imputazione contro Trump anche razzismo, omofobia e islamofobia, suscitando i malumori dei suoi compagni di partito più centristi. Insomma, l'impeachment rischia di trasformarsi in una battaglia meramente politicizzata, passando dall'essere uno strumento di garanzia costituzionale a una sorta di voto di sfiducia verso il presidente in carica: un voto di sfiducia che tuttavia la Costituzione americana non ammette affatto. La sensazione è che l'asinello stia per cacciarsi seriamente in un vicolo cieco. E, vista l'impopolarità che l'indagine per impeachment sta riscuotendo in alcuni Stati chiave, l'impatto elettorale di tutto questo potrebbe rivelarsi non poco problematico.
Carlo Nordio (Ansa)
Interrogazione urgente dei capogruppo a Carlo Nordio sui dossier contro figure di spicco.
La Lega sotto assedio reagisce con veemenza. Dal caso Striano all’intervista alla Verità della pm Anna Gallucci, il Carroccio si ritrova sotto un fuoco incrociato e contrattacca: «La Lega», dichiarano i capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, «ha presentato un’interrogazione urgente al ministro Carlo Nordio sul caso del dossieraggio emerso nei giorni scorsi a danno del partito e di alcuni suoi componenti. Una vicenda inquietante, che coinvolge il finanziere indagato Pasquale Striano e l’ex procuratore Antimafia Federico Cafiero de Raho, attualmente parlamentare 5 stelle e vicepresidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie. Ciò che è accaduto è gravissimo, pericoloso, e va oltre ogni logica di opposizione politica», concludono, «mettendo a rischio la democrazia e le istituzioni. Venga fatta chiarezza subito».
Ambrogio Cartosio (Imagoeconomica). Nel riquadro, Anna Gallucci
La pm nella delibera del 24 aprile 2024: «Al procuratore Ambrogio Cartosio non piacque l’intercettazione a carico del primo cittadino di Mezzojuso», sciolto per infiltrazione mafiosa. Il «Fatto» la denigra: «Sconosciuta».
Dopo il comunicato del senatore del Movimento 5 stelle Roberto Scarpinato contro la pm Anna Gallucci era inevitabile che il suo ufficio stampa (il Fatto quotidiano) tirasse fuori dai cassetti le presunte valutazioni negative sulla toga che ha osato mettere in dubbio l’onorabilità del politico grillino. Ma il quotidiano pentastellato non ha letto tutto o l’ha letto male.
Federico Cafiero De Raho (Ansa)
L’ex capo della Dna inviò atti d’impulso sul partito di Salvini. Ora si giustifica, ma scorda che aveva già messo nel mirino Armando Siri.
Agli atti dell’inchiesta sulle spiate nelle banche dati investigative ai danni di esponenti del mondo della politica, delle istituzioni e non solo, che ha prodotto 56 capi d’imputazione per le 23 persone indagate, ci sono due documenti che ricostruiscono una faccenda tutta interna alla Procura nazionale antimafia sulla quale l’ex capo della Dna, Federico Cafiero De Raho, oggi parlamentare pentastellato, rischia di scivolare. Due firme, in particolare, apposte da De Raho su due comunicazioni di trasmissione di «atti d’impulso» preparati dal gruppo Sos, quello che si occupava delle segnalazioni di operazione sospette e che era guidato dal tenente della Guardia di finanza Pasquale Striano (l’uomo attorno al quale ruota l’inchiesta), dimostrano una certa attenzione per il Carroccio. La Guardia di finanza, delegata dalla Procura di Roma, dove è approdato il fascicolo già costruito a Perugia da Raffaele Cantone, classifica così quei due dossier: «Nota […] del 22 novembre 2019 dal titolo “Flussi finanziari anomali riconducibili al partito politico Lega Nord”» e «nota […] dell’11 giugno 2019 intitolata “Segnalazioni bancarie sospette. Armando Siri“ (senatore leghista e sottosegretario fino al maggio 2019, ndr)». Due atti d’impulso, diretti, in un caso alle Procure distrettuali, nell’altro alla Dia e ad altri uffici investigativi, costruiti dal Gruppo Sos e poi trasmessi «per il tramite» del procuratore nazionale antimafia.
Donald Trump e Sanae Takaichi (Ansa)
Il leader Usa apre all’espulsione di chi non si integra. E la premier giapponese preferisce una nazione vecchia a una invasa. L’Inps conferma: non ci pagheranno loro le pensioni.
A voler far caso a certi messaggi ed ai loro ritorni, all’allineamento degli agenti di validazione che li emanano e ai media che li ripetono, sembrerebbe quasi esista una sorta di coordinamento, un’«agenda» nella quale sono scritte le cadenze delle ripetizioni in modo tale che il pubblico non solo non dimentichi ma si consolidi nella propria convinzione che certi principi non sono discutibili e che ciò che è fuori dal menù non si può proprio ordinare. Uno dei messaggi più classici, che viene emanato sia in occasione di eventi che ne evocano la ripetizione, sia più in generale in maniera ciclica come certe prediche dei parroci di una volta, consiste nella conferma dell’idea di immigrazione come necessaria, utile ed inevitabile.






