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2020-01-20
Così hanno ucciso i piccoli Comuni
Ansa
Chissà se Jennifer Lopez, quando dice che il suo sogno è vivere in un piccolo Comune italiano, sa a quali disservizi andrebbe incontro. I borghi del nostro Paese non sono solo fiori ai balconi, odore di pane fresco e gioco delle bocce in piazza, come si legge nelle guide turistiche.
Breme, in provincia di Pavia, 730 abitanti, attira numerosi visitatori per l'antica Abbazia di San Pietro. È una bomboniera ma è a un passo dalla bancarotta. Il sindaco, Francesco Berzero, ha lanciato un grido di aiuto, scrivendo anche al capo dello Stato, Sergio Mattarella. «La legge ci condanna al fallimento», protesta il primo cittadino e ci racconta il suo dramma. «Il giudice ci ha dato in affidamento tre minori che ora sono in una comunità alla quale dobbiamo versare 110 euro al giorno per ciascuno di loro, ovvero 120.000 euro l'anno. Pur considerando le necessità di questi ragazzi che provengono da una situazione familiare tremenda con un padre violento e alcolizzato, il mio Comune non ha le risorse per far fronte alla loro assistenza». E spiega che «la Regione rimborsa la spesa ma solo per il 40% e dopo un anno. Intanto io forse sarò costretto ad aumentare le imposte, a tagliare il servizio di scuolabus e ad aumentare le rette dell'asilo. Oltre al fatto che ho molti problemi per la manutenzione delle strade». Berzero si è anche rivolto al prefetto perché 110 euro al giorno per ciascun minore «mi sembravano davvero tanti. Ma mi ha risposto che le spese sono alte».
Breme non è un caso isolato. Sono numerosi i piccoli Comuni in tutta Italia che si trovano a dover far fronte a situazioni simili.
Sempre in provincia di Pavia, Ceretto Lomellina, antichissimo borgo, 200 anime, rischia il dissesto per lo stesso motivo. «Da marzo 2018 abbiamo in affido tre minori per le quali versiamo a una casa famiglia circa 85 euro al giorno a testa. Sono 93.000 euro l'anno che solo in parte ci vengono rimborsati e in ritardo», dice il sindaco Giovanni Cattaneo e aggiunge: «Sono stato costretto a tagliare una serie di servizi, dallo scuolabus, al pacco dono per anziani indigenti e ho dovuto rinviare la sistemazione delle strade. Se questi minori restano a nostro carico fino ai 18 anni, il Comune chiude».
Dalla Lombardia al Piemonte, altra Regione cult per il turismo d'élite.
la dittatura di internet
Il sindaco Monica Ciaburro, del Comune di Argentera, 77 abitanti, in provincia di Cuneo, è da 16 mesi senza dipendenti. «Devo aprire e chiudere gli uffici e occuparmi di tutte le pratiche burocratiche, mentre il vicesindaco e l'assessore sbrigano i lavori da cantonieri. Sono intervenuta a riparare una fontana, ho fatto sopralluoghi nei cambi di residenza. Pensi che il pasticcere taglia l'erba e apre l'ambulatorio», ci racconta. Per risponderci ha dovuto interrompere la formazione di un paio di ragazzi con contratto interinale, che dovrebbero dare una mano in ufficio ma «completamente a digiuno delle pratiche di un Comune». E aggiunge: «Sto aspettando l'esito di un bando per avere tre persone, un amministrativo, un tecnico e una polizia municipale ma part time. Il tutto con una burocrazia che ci fa impazzire e Internet che non funziona».
La prima cittadina punta il dito contro un governo che moltiplica le incombenze fiscali con l'uso esclusivo della Rete. «Scontrini e fatture elettroniche, i commercianti non sanno come fare. In Comune la connessione è rimasta bloccata per due settimane. Bisognerebbe capire che i piccoli Comuni non sono attrezzati e non per loro responsabilità».
Ci spostiamo in Liguria. Lavagna, cittadina del Tigullio, è in dissesto finanziario, nelle casse non c'è un soldo per pagare i dipendenti figurarsi per l'acquisto degli alberi di Natale. Agli addobbi, in occasione di queste feste, hanno pensato i cittadini e un vivaista locale.
Queste realtà non ci aspetteremo di trovarle nel florido Nord. Sono borghi con meno di 5.000 residenti ma occupano il 54% del territorio nazionale, in cui vivono oltre 10 milioni di persone e rappresentano il 70% della totalità dei Comuni italiani. Dal 1971 al 2017 in quasi 2.000 piccoli Comuni la popolazione è diminuita di oltre il 20%. Sono località spesso di grande interesse artistico e storico, che compaiono nelle Lonely Planet di tutto il mondo, ma dimenticate dalla politica, prosciugate da un decennio di tagli, tagliate fuori dagli investimenti pubblici, spinte ai margini del Paese da una cultura che tende a privilegiare i grandi centri urbani e il litorale.
Nell'entroterra dell'Abruzzo, la consuetudine della seconda casa per le vacanze resiste ancora, ma non riesce a colmare le casse comunali. Luigi De Acetis, sindaco di Caramanico Terme, provincia di Pescara, ha denunciato più volte la mancanza nei Comuni montani di una postazione fissa del 118. Secondo una recente rilevazione, le sedi senza un segretario o dirigente comunale sono 1.729 negli enti sotto i 10.00 abitanti. Complessivamente i segretari in servizio sono 3.500. Un contingente insufficiente. La conseguenza è spesso la paralisi dei servizi.
i negozi spariscono
Ma c'è di più: coloro che lavorano a volte in sei, anche sette Comuni, devono fare i conti con la legislazione che non prevede rimborsi spesa per gli spostamenti.
Nelle aree interne stanno chiudendo i servizi pubblici e i negozi. Il panettiere, il salumiere o il macellaio sono sempre stati piccoli salotti dove chiacchierare oltre che far spesa. Quelli sopravvissuti alla crisi economica hanno ricevuto la mazzata finale dal fisco con l'introduzione dei pagamenti digitali. A Podenzoi, frazione di 500 abitanti di Longarone, in provincia di Belluno, meta di escursionisti appassionati della montagna, hanno chiuso tutti gli esercizi commerciali. Non potevano affrontare le spese per dotarsi di un registratore di cassa collegato a Internet che marcia a rilento.
«Alla mia età non me la sento di usare computer, Pos e altre diavolerie del genere», ha detto alla stampa l'ultimo barbiere rimasto a Montalcino, Paolo Cencioni, di 76 anni. Niente più pane per i 4.000 abitanti di Pedavena, vicino Belluno. I proprietari dell'ultimo e storico alimentari, con 90 anni di vita, hanno abbassato la saracinesca per sempre: «Troppe tasse». L'Uncem, l'Unione dei Comuni di montagna, aveva chiesto al governo di rinviare l'obbligo dello scontrino elettronico per queste realtà. Nessuna risposta. Sono comunità con poco peso elettorale.
Lo spopolamento influenza anche il sistema scolastico. Alla riduzione degli alunni si è cercato di far fronte con le pluriclassi, cioè l'unione di due ma anche tre classi, con gli insegnanti che devono frammentare il programma per accontentare i bambini di età diverse. A Rocca di Mezzo, in provincia dell'Aquila, il preside dell'Istituto comprensivo San Demetrio Ne' Vestini ha lanciato l'allarme: «Aiutatemi a salvare le mie scuole, altrimenti da qui se ne andranno tutti».
beffa in emilia romagna
A ogni legge di bilancio non mancano le sorprese. A Rifreddo, in Valle Po, sindaco e ragioniere hanno scoperto un taglio di oltre 5.000 euro sul Fondo di solidarietà comunale.
Una sforbiciata di 155.000 euro invece a Casalecchio di Reno, una realtà più grande con 36.700 abitanti, vicino Bologna. «Con meno risorse dovremo rivedere la spesa però senza tagli ai servizi», ci illustra l'assessore al Bilancio, Concetta Bevacqua. Ma qui il governo, a ridosso delle elezioni regionali, ha fatto pervenire anche un altro «regalo»: ha tolto la polizia stradale.
La legge Delrio, il Bullo e Gentiloni: il delitto perfetto dei centri minori
Bilanci a pezzi, dissesto idrogeologico, spopolamento, lotta agli incendi, criminalità in aumento, difesa delle tradizioni, integrazione dei migranti… Sono solo alcune delle problematiche che quotidianamente sindaci, assessori e consiglieri dei piccoli Comuni italiani sono chiamati ad affrontare. Oltre 5.000 centri (per la precisione 5.500) inferiori ai 5.000 abitanti, a rappresentare con 10 milioni di residenti il 17% della popolazione totale e ben il 54% dell'estensione territoriale nazione. Sono 8 le Regioni italiane (Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia, Trentino Alto Adige, Abruzzo, Molise, Calabria e Sardegna) nelle quali almeno 8 Comuni su 10 fanno parte di questa fascia. Una realtà impossibile da trascurare per dimensioni, rilevanza storica e impatto socioculturale.
Senza dubbio in cima alla lista dei problemi troviamo la difficilissima situazione finanziaria. Secondo un'elaborazione del Sole 24 Ore basata su dati Anci-Ifel, per ben 1.883 centri sotto i 5.000 abitanti (37,8% dei piccoli Comuni, 23,8% sul totale nazionale) il costo del debito assorbe più del 12% della spesa corrente complessiva. Una percentuale che sale fino al 18% per quasi 700 amministrazioni, rappresentando non solo un freno alla crescita, ma anche una vera e propria spada di Damocle sulla tenuta stessa dei conti degli enti locali. Per questo motivo, nel corso di un incontro svoltosi lo scorso luglio a Gornate Olona, il responsabile finanza di Anci-Ifel, Andrea Ferri, pur evidenziando passi in avanti con la manovra 2019 (grazie alla rinegoziazione dei mutui Mef) ha fatto presente la necessità di «soluzioni per la riduzione del debito comunale». Secondo quanto emerge dalla banca dati redatta dall'Università Ca' Foscari, dal 1993 a oggi sono stati 95 i piccoli Comuni che hanno dichiarato il dissesto, mentre 166 hanno avviato la procedura di riequilibrio (cosiddetto «predissesto»).
C'è poi il gravoso tema legato allo spopolamento. Dal 2012 al 2017 i piccoli Comuni hanno perso 307.000 residenti, pari al 3% della popolazione. Consultando l'Atlante dei piccoli Comuni realizzato dall'Anci, si scopre che per 965 Comuni in situazione di «controesodo» (cioè con variazione demografica maggiore dell'incremento nazionale), in ben 4.007 si presenta un tasso di crescita inferiore alla media italiana. Detto in altri termini, se questo trend verrà rispettato, più di 7 Comuni su 10 vedranno diminuire nei prossimi anni il loro numero di abitanti.
Alla base della crisi, l'errata convinzione che la fitta rete di minuscoli centri che costituisce l'ossatura dello stivale costituisca un peso più che una risorsa. Un pregiudizio smentito da almeno tre dati: il numero di dipendenti ogni 1.000 abitanti è inferiore alla media dei Comuni italiani (4,8 contro 5,4), la spesa pro capite è più bassa rispetto ai centri più grandi e il 93% delle amministrazioni presenta un avanzo di bilancio.
E invece, complice la famigerata spending review, nell'ultimo decennio i piccoli Comuni si sono ritrovati a dover pagare un prezzo altissimo. Nel suo piano di revisione della spesa presentato a febbraio del 2014, Carlo Cottarelli proponeva l'unione forzosa dei Comuni sotto i 5.000 abitanti. Una misura che, unitamente alla riduzione dei compensi per gli amministratori locali, dei consiglieri regionali e dei loro vitalizi, per il triennio 2014-2016 avrebbe dovuto portare nelle casse dello Stato - udite udite - la ridicola cifra di 300 milioni all'anno. Tradotto in percentuale, lo 0,02% del Pil. Nel corso di un'audizione svoltasi pochi mesi dopo (era ottobre del 2014) di fronte ai membri della commissione parlamentare di vigilanza sull'Anagrafe tributaria, Cottarelli insisteva nella sua tesi: «Non vorrei creare polemica […] ma secondo me 8.000 Comuni sono troppi. Si dovrebbe pensare a una riduzione. Faceva parte delle misure della revisione della spesa anche una riduzione del numero dei Comuni, il che renderebbe più facile il coordinamento». Nel frattempo, la legge 56 del 2014 (cosiddetta «legge Delrio») prevedeva tra le altre cose, «al fine di favorire la fusione dei Comuni» l'erogazione «per i dieci anni successivi alla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati a una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono». E infine, in tempi più recenti, la legge 158 del 2017. Una norma che pur essendo nata con l'intento di sostenere e valorizzare i piccoli Comuni, al tempo stesso istituiva nero su bianco la «priorità al finanziamento degli interventi proposti da Comuni istituiti a seguito di fusione o appartenenti a unioni di Comuni». Ecco servito dai governi guidati da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni il delitto perfetto ai danni dei centri minori, e del quale i territori ancora oggi subiscono le conseguenze.
Ma la ciliegina sulla torta è rappresentata dalle sciagurate norme europee che per anni hanno castrato la possibilità di spesa degli enti locali. Con l'adesione al Patto di stabilità e crescita, lo Stato ha coinvolto gli enti locali nel raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica. Nel 2012, con il governo Monti, anche per queste amministrazioni entra in vigore l'obbligo del pareggio di bilancio. Comuni, province e Regioni si trovano con le mani legate nell'impossibilità di spendere i loro stessi soldi. Fortunatamente dal 2018, a seguito della decisione della Consulta, il patto di stabilità interno viene superato e l'avanzo di amministrazione torna nella piena disponibilità degli enti. Per i piccoli Comuni finalmente una boccata d'ossigeno che vale 2,7 miliardi di euro e può rappresentare, dopo anni di austerità, l'occasione per il tanto atteso rilancio.
«Dietro questa strage c’è un disegno politico»

Ansa
Trentacinque anni di esperienza come amministratore di Marsaglia, Comune di poco più di 200 abitanti che vivono abbarbicati su un colle delle Langhe, a poco meno di un'ora di macchina da Cuneo. «Tutti i sindaci lavorano per il bene del proprio Comune», tiene a precisare il nostro interlocutore. Ma bastano pochi minuti di conversazione con Franca Biglio, sindaco e presidente fin dalla sua fondazione dell'Associazione nazionale dei piccoli comuni di Italia (Anpci, circa 3.000 associati sotto i 15.000 abitanti), per capire che, in realtà, dietro a questa scelta di vita c'è molto di più.
Com'è nata l'idea di costituire l'Associazione?
«Era il 1987 quando il governo introdusse il regime di tesoreria unica anche per i piccoli Comuni. Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Decisi di affittare un camper con mio marito e girare per capire se il problema che sentivo io fosse lo stesso per tutti. Quello che riscontrammo fu un coro unanime: “Nessuno ci rappresenta, nessuno si interessa a noi". Ecco, la nostra Associazione nasce per questo: accendere un faro, e tenerlo acceso, sui piccoli Comuni. Siamo riusciti a far cambiare l'idea che ci considera un peso anziché un patrimonio virtuoso».
Ci spiega perché questi centri sono così importanti?
«Noi siamo il presidio e l'avamposto sul territorio. Se non ci fossero gli amministratori dei piccoli Comuni che si rimboccano le maniche e lavorano al fianco della Protezione civile, delle pro loco e del volontariato, il territorio sarebbe meno vivibile».
Ma negli ultimi anni le cose si sono fatte difficili…
«Lo sa che la spending review ha causato una riduzione del 60% delle risorse finanziarie? Quando in un Comune vengono a mancare determinati servizi, è normale che la gente vada via. È vero che nei piccoli centri costano di più, ma bisogna vedere la contropartita».
E quale sarebbe?
«La qualità della vita, innanzitutto. Poi c'è il rapporto con il territorio, nel quale sono insediate una miriade di piccole e medie imprese agroalimentari, come ha dimostrato l'Expo di Milano del 2015. Infine, le relazioni sociali: altrove sei un numero, qua invece ci conosciamo e ci aiutiamo tutti, siamo una comunità. Ecco: questa contropartita è cercare di assaporare il gusto di un ambiente diverso dalla città, dove da un pianerottolo all'altro non ci si conosce».
Non si tratta di aspetti secondari. Siamo sicuri che dietro all'attacco ai piccoli Comuni si nasconda solo una questione di risparmio?
«Ma no, dei costi in realtà non interessa a nessuno! C'è un progetto politico, perché nei piccoli Comuni i sindaci si candidano con liste civiche e non sono manovrabili dal partito. Unire i Comuni significa avere centri più grandi, e dunque amministratori scelti dalla politica».
Quali sono le battaglie che vi trovate ad affrontare in questo periodo?
«Sempre le stesse: chiediamo risorse adeguate e la possibilità di operare in deroga rispetto alle leggi nazionali, progettate per le grandi città. Noi non sprechiamo, anzi siamo oculati! Ma abbiamo bisogno di un abito confezionato su misura».
Con tutti questi problemi, chi ve lo fa fare?
«Vede, quello di sindaco più che un mestiere è una vocazione. Sono convinta che i sindaci dei piccoli comuni vivano in una condizione di perenne innamoramento. È la cosa più bella perché non ti fa fermare mai».
«Lo Stato ci soffoca con le tasse»

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«Calo demografico, invecchiamento della popolazione, tutela sanitaria, scuola, infrastrutture e connettività: sono questi i grandi mali dei piccoli Comuni. Ci sono amministrazioni dove il sindaco fa anche il ragioniere, il geometra, il capo cantiere, perché non può assumere nessuno. Negli ultimi dieci anni il prelievo finanziario da parte dello Stato è stato pesantissimo». È un'analisi impietosa quella di Guido Castelli, responsabile finanza locale dell'Anci, l'associazione che riunisce i Comuni italiani.
Ora però i sindaci possono tornare ad assumere.
«Ma non hanno i soldi per farlo. La crisi finanziaria ha ridotto la loro autonomia. Dal 2012 al 2019 il saldo del bilancio pubblico è migliorato di 25 miliardi e 12 miliardi sono venuti dalle autonomie che hanno effettuato pesanti tagli alle spese. Il contributo dato dai Comuni e in particolare da quelli piccoli è stato sproporzionato rispetto a quanto hanno ricevuto. Inoltre hanno subito gli effetti delle riforme delle province. Queste prima garantivano una sorta di protezione amministrativa svolgendo funzioni di supporto e consulenza ma ora sono state private di questa capacità operativa professionale».
Quali sono i problemi che impediscono ai piccoli Comuni di superare la crisi?
«Oltre alla mancanza di risorse c'è un problema sociologico. L'attuale modello di sviluppo tende a favorire le grandi concentrazioni urbane e litoranee con il conseguente indebolimento dell'entroterra. Con lo spopolamento di vaste zone, i servizi di assistenza sanitaria si sono ridotti spingendo ancora di più la popolazione a migrare verso i grandi centri. Lo stesso accade per le scuole che hanno sempre meno alunni».
Cosa impedisce all'economia di ripartire?
«I piccoli centri sono lontani dagli snodi dei traffici di merci e servizi e il modello di sviluppo nazionale li tiene ai margini del Paese».
Eppure ci sono stati tentativi legislativi per sostenere la crescita di queste aree. Cosa non ha funzionato?
«Ermete Realacci si intestò una legge nel 2017 per sostenere i piccoli Comuni anche sotto il profilo turistico. Una legge ben fatta, peccato però che il Parlamento non ci ha messo un soldo. E tutto è finito lì».
C'è carenza di servizi?
«Servirebbero piani di sviluppo mirati per queste realtà, con regole diverse da quelle che agiscono nelle grandi città. Prendiamo la scuola. Gli standard previsti dalle leggi nazionali per la costituzione delle classi devono essere adattati ai piccoli Comuni. C'è il problema del trasporto pubblico locale, dei servizi postali per la consegna dei pacchi. Nell'era di Amazon è necessaria una rete che comprenda anche realtà montane. E poi Internet, la banda larga è ancora un lusso. C'è un programma di cablaggio delle aree svantaggiate, ma siamo in ritardo».
Continua a leggereRiduci
Strangolati dai tagli, con personale all'osso, spopolati, privati dei presidi sanitari o di polizia, vessati da scadenze fiscali e burocrazia: così sta morendo mezza Italia.I governi di sinistra hanno forzato la mano sugli accorpamenti. Il risparmio per l'erario? Solo lo 0,02% del Pil I borghi infatti hanno una spesa pro capite inferiore a quella delle grandi città. E i bilanci quasi tutti in attivo.Il sindaco attivista di Marsaglia (Cuneo) Franca Biglio: «Ci puniscono perché amministriamo con le liste civiche, non manovrabili dai partiti».Guido Castelli, responsabile finanza dell'Anci: «Abbiamo versato più di quanto abbiamo ricevuto ma ci tengono ai margini del Paese. Le aree interne sono escluse pure dalla Rete».Lo speciale contiene quattro articoli.Chissà se Jennifer Lopez, quando dice che il suo sogno è vivere in un piccolo Comune italiano, sa a quali disservizi andrebbe incontro. I borghi del nostro Paese non sono solo fiori ai balconi, odore di pane fresco e gioco delle bocce in piazza, come si legge nelle guide turistiche. Breme, in provincia di Pavia, 730 abitanti, attira numerosi visitatori per l'antica Abbazia di San Pietro. È una bomboniera ma è a un passo dalla bancarotta. Il sindaco, Francesco Berzero, ha lanciato un grido di aiuto, scrivendo anche al capo dello Stato, Sergio Mattarella. «La legge ci condanna al fallimento», protesta il primo cittadino e ci racconta il suo dramma. «Il giudice ci ha dato in affidamento tre minori che ora sono in una comunità alla quale dobbiamo versare 110 euro al giorno per ciascuno di loro, ovvero 120.000 euro l'anno. Pur considerando le necessità di questi ragazzi che provengono da una situazione familiare tremenda con un padre violento e alcolizzato, il mio Comune non ha le risorse per far fronte alla loro assistenza». E spiega che «la Regione rimborsa la spesa ma solo per il 40% e dopo un anno. Intanto io forse sarò costretto ad aumentare le imposte, a tagliare il servizio di scuolabus e ad aumentare le rette dell'asilo. Oltre al fatto che ho molti problemi per la manutenzione delle strade». Berzero si è anche rivolto al prefetto perché 110 euro al giorno per ciascun minore «mi sembravano davvero tanti. Ma mi ha risposto che le spese sono alte».Breme non è un caso isolato. Sono numerosi i piccoli Comuni in tutta Italia che si trovano a dover far fronte a situazioni simili.Sempre in provincia di Pavia, Ceretto Lomellina, antichissimo borgo, 200 anime, rischia il dissesto per lo stesso motivo. «Da marzo 2018 abbiamo in affido tre minori per le quali versiamo a una casa famiglia circa 85 euro al giorno a testa. Sono 93.000 euro l'anno che solo in parte ci vengono rimborsati e in ritardo», dice il sindaco Giovanni Cattaneo e aggiunge: «Sono stato costretto a tagliare una serie di servizi, dallo scuolabus, al pacco dono per anziani indigenti e ho dovuto rinviare la sistemazione delle strade. Se questi minori restano a nostro carico fino ai 18 anni, il Comune chiude». Dalla Lombardia al Piemonte, altra Regione cult per il turismo d'élite. la dittatura di internetIl sindaco Monica Ciaburro, del Comune di Argentera, 77 abitanti, in provincia di Cuneo, è da 16 mesi senza dipendenti. «Devo aprire e chiudere gli uffici e occuparmi di tutte le pratiche burocratiche, mentre il vicesindaco e l'assessore sbrigano i lavori da cantonieri. Sono intervenuta a riparare una fontana, ho fatto sopralluoghi nei cambi di residenza. Pensi che il pasticcere taglia l'erba e apre l'ambulatorio», ci racconta. Per risponderci ha dovuto interrompere la formazione di un paio di ragazzi con contratto interinale, che dovrebbero dare una mano in ufficio ma «completamente a digiuno delle pratiche di un Comune». E aggiunge: «Sto aspettando l'esito di un bando per avere tre persone, un amministrativo, un tecnico e una polizia municipale ma part time. Il tutto con una burocrazia che ci fa impazzire e Internet che non funziona». La prima cittadina punta il dito contro un governo che moltiplica le incombenze fiscali con l'uso esclusivo della Rete. «Scontrini e fatture elettroniche, i commercianti non sanno come fare. In Comune la connessione è rimasta bloccata per due settimane. Bisognerebbe capire che i piccoli Comuni non sono attrezzati e non per loro responsabilità».Ci spostiamo in Liguria. Lavagna, cittadina del Tigullio, è in dissesto finanziario, nelle casse non c'è un soldo per pagare i dipendenti figurarsi per l'acquisto degli alberi di Natale. Agli addobbi, in occasione di queste feste, hanno pensato i cittadini e un vivaista locale.Queste realtà non ci aspetteremo di trovarle nel florido Nord. Sono borghi con meno di 5.000 residenti ma occupano il 54% del territorio nazionale, in cui vivono oltre 10 milioni di persone e rappresentano il 70% della totalità dei Comuni italiani. Dal 1971 al 2017 in quasi 2.000 piccoli Comuni la popolazione è diminuita di oltre il 20%. Sono località spesso di grande interesse artistico e storico, che compaiono nelle Lonely Planet di tutto il mondo, ma dimenticate dalla politica, prosciugate da un decennio di tagli, tagliate fuori dagli investimenti pubblici, spinte ai margini del Paese da una cultura che tende a privilegiare i grandi centri urbani e il litorale.Nell'entroterra dell'Abruzzo, la consuetudine della seconda casa per le vacanze resiste ancora, ma non riesce a colmare le casse comunali. Luigi De Acetis, sindaco di Caramanico Terme, provincia di Pescara, ha denunciato più volte la mancanza nei Comuni montani di una postazione fissa del 118. Secondo una recente rilevazione, le sedi senza un segretario o dirigente comunale sono 1.729 negli enti sotto i 10.00 abitanti. Complessivamente i segretari in servizio sono 3.500. Un contingente insufficiente. La conseguenza è spesso la paralisi dei servizi. i negozi sparisconoMa c'è di più: coloro che lavorano a volte in sei, anche sette Comuni, devono fare i conti con la legislazione che non prevede rimborsi spesa per gli spostamenti. Nelle aree interne stanno chiudendo i servizi pubblici e i negozi. Il panettiere, il salumiere o il macellaio sono sempre stati piccoli salotti dove chiacchierare oltre che far spesa. Quelli sopravvissuti alla crisi economica hanno ricevuto la mazzata finale dal fisco con l'introduzione dei pagamenti digitali. A Podenzoi, frazione di 500 abitanti di Longarone, in provincia di Belluno, meta di escursionisti appassionati della montagna, hanno chiuso tutti gli esercizi commerciali. Non potevano affrontare le spese per dotarsi di un registratore di cassa collegato a Internet che marcia a rilento. «Alla mia età non me la sento di usare computer, Pos e altre diavolerie del genere», ha detto alla stampa l'ultimo barbiere rimasto a Montalcino, Paolo Cencioni, di 76 anni. Niente più pane per i 4.000 abitanti di Pedavena, vicino Belluno. I proprietari dell'ultimo e storico alimentari, con 90 anni di vita, hanno abbassato la saracinesca per sempre: «Troppe tasse». L'Uncem, l'Unione dei Comuni di montagna, aveva chiesto al governo di rinviare l'obbligo dello scontrino elettronico per queste realtà. Nessuna risposta. Sono comunità con poco peso elettorale.Lo spopolamento influenza anche il sistema scolastico. Alla riduzione degli alunni si è cercato di far fronte con le pluriclassi, cioè l'unione di due ma anche tre classi, con gli insegnanti che devono frammentare il programma per accontentare i bambini di età diverse. A Rocca di Mezzo, in provincia dell'Aquila, il preside dell'Istituto comprensivo San Demetrio Ne' Vestini ha lanciato l'allarme: «Aiutatemi a salvare le mie scuole, altrimenti da qui se ne andranno tutti». beffa in emilia romagnaA ogni legge di bilancio non mancano le sorprese. A Rifreddo, in Valle Po, sindaco e ragioniere hanno scoperto un taglio di oltre 5.000 euro sul Fondo di solidarietà comunale. Una sforbiciata di 155.000 euro invece a Casalecchio di Reno, una realtà più grande con 36.700 abitanti, vicino Bologna. «Con meno risorse dovremo rivedere la spesa però senza tagli ai servizi», ci illustra l'assessore al Bilancio, Concetta Bevacqua. Ma qui il governo, a ridosso delle elezioni regionali, ha fatto pervenire anche un altro «regalo»: ha tolto la polizia stradale.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/uccidono-i-piccoli-comuni-aiuto-2644859418.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-legge-delrio-il-bullo-e-gentiloni-il-delitto-perfetto-dei-centri-minori" data-post-id="2644859418" data-published-at="1766791260" data-use-pagination="False"> La legge Delrio, il Bullo e Gentiloni: il delitto perfetto dei centri minori Bilanci a pezzi, dissesto idrogeologico, spopolamento, lotta agli incendi, criminalità in aumento, difesa delle tradizioni, integrazione dei migranti… Sono solo alcune delle problematiche che quotidianamente sindaci, assessori e consiglieri dei piccoli Comuni italiani sono chiamati ad affrontare. Oltre 5.000 centri (per la precisione 5.500) inferiori ai 5.000 abitanti, a rappresentare con 10 milioni di residenti il 17% della popolazione totale e ben il 54% dell'estensione territoriale nazione. Sono 8 le Regioni italiane (Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia, Trentino Alto Adige, Abruzzo, Molise, Calabria e Sardegna) nelle quali almeno 8 Comuni su 10 fanno parte di questa fascia. Una realtà impossibile da trascurare per dimensioni, rilevanza storica e impatto socioculturale. Senza dubbio in cima alla lista dei problemi troviamo la difficilissima situazione finanziaria. Secondo un'elaborazione del Sole 24 Ore basata su dati Anci-Ifel, per ben 1.883 centri sotto i 5.000 abitanti (37,8% dei piccoli Comuni, 23,8% sul totale nazionale) il costo del debito assorbe più del 12% della spesa corrente complessiva. Una percentuale che sale fino al 18% per quasi 700 amministrazioni, rappresentando non solo un freno alla crescita, ma anche una vera e propria spada di Damocle sulla tenuta stessa dei conti degli enti locali. Per questo motivo, nel corso di un incontro svoltosi lo scorso luglio a Gornate Olona, il responsabile finanza di Anci-Ifel, Andrea Ferri, pur evidenziando passi in avanti con la manovra 2019 (grazie alla rinegoziazione dei mutui Mef) ha fatto presente la necessità di «soluzioni per la riduzione del debito comunale». Secondo quanto emerge dalla banca dati redatta dall'Università Ca' Foscari, dal 1993 a oggi sono stati 95 i piccoli Comuni che hanno dichiarato il dissesto, mentre 166 hanno avviato la procedura di riequilibrio (cosiddetto «predissesto»). C'è poi il gravoso tema legato allo spopolamento. Dal 2012 al 2017 i piccoli Comuni hanno perso 307.000 residenti, pari al 3% della popolazione. Consultando l'Atlante dei piccoli Comuni realizzato dall'Anci, si scopre che per 965 Comuni in situazione di «controesodo» (cioè con variazione demografica maggiore dell'incremento nazionale), in ben 4.007 si presenta un tasso di crescita inferiore alla media italiana. Detto in altri termini, se questo trend verrà rispettato, più di 7 Comuni su 10 vedranno diminuire nei prossimi anni il loro numero di abitanti. Alla base della crisi, l'errata convinzione che la fitta rete di minuscoli centri che costituisce l'ossatura dello stivale costituisca un peso più che una risorsa. Un pregiudizio smentito da almeno tre dati: il numero di dipendenti ogni 1.000 abitanti è inferiore alla media dei Comuni italiani (4,8 contro 5,4), la spesa pro capite è più bassa rispetto ai centri più grandi e il 93% delle amministrazioni presenta un avanzo di bilancio. E invece, complice la famigerata spending review, nell'ultimo decennio i piccoli Comuni si sono ritrovati a dover pagare un prezzo altissimo. Nel suo piano di revisione della spesa presentato a febbraio del 2014, Carlo Cottarelli proponeva l'unione forzosa dei Comuni sotto i 5.000 abitanti. Una misura che, unitamente alla riduzione dei compensi per gli amministratori locali, dei consiglieri regionali e dei loro vitalizi, per il triennio 2014-2016 avrebbe dovuto portare nelle casse dello Stato - udite udite - la ridicola cifra di 300 milioni all'anno. Tradotto in percentuale, lo 0,02% del Pil. Nel corso di un'audizione svoltasi pochi mesi dopo (era ottobre del 2014) di fronte ai membri della commissione parlamentare di vigilanza sull'Anagrafe tributaria, Cottarelli insisteva nella sua tesi: «Non vorrei creare polemica […] ma secondo me 8.000 Comuni sono troppi. Si dovrebbe pensare a una riduzione. Faceva parte delle misure della revisione della spesa anche una riduzione del numero dei Comuni, il che renderebbe più facile il coordinamento». Nel frattempo, la legge 56 del 2014 (cosiddetta «legge Delrio») prevedeva tra le altre cose, «al fine di favorire la fusione dei Comuni» l'erogazione «per i dieci anni successivi alla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati a una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono». E infine, in tempi più recenti, la legge 158 del 2017. Una norma che pur essendo nata con l'intento di sostenere e valorizzare i piccoli Comuni, al tempo stesso istituiva nero su bianco la «priorità al finanziamento degli interventi proposti da Comuni istituiti a seguito di fusione o appartenenti a unioni di Comuni». Ecco servito dai governi guidati da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni il delitto perfetto ai danni dei centri minori, e del quale i territori ancora oggi subiscono le conseguenze. Ma la ciliegina sulla torta è rappresentata dalle sciagurate norme europee che per anni hanno castrato la possibilità di spesa degli enti locali. Con l'adesione al Patto di stabilità e crescita, lo Stato ha coinvolto gli enti locali nel raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica. Nel 2012, con il governo Monti, anche per queste amministrazioni entra in vigore l'obbligo del pareggio di bilancio. Comuni, province e Regioni si trovano con le mani legate nell'impossibilità di spendere i loro stessi soldi. Fortunatamente dal 2018, a seguito della decisione della Consulta, il patto di stabilità interno viene superato e l'avanzo di amministrazione torna nella piena disponibilità degli enti. Per i piccoli Comuni finalmente una boccata d'ossigeno che vale 2,7 miliardi di euro e può rappresentare, dopo anni di austerità, l'occasione per il tanto atteso rilancio. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/uccidono-i-piccoli-comuni-aiuto-2644859418.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="dietro-questa-strage-ce-un-disegno-politico" data-post-id="2644859418" data-published-at="1766791260" data-use-pagination="False"> «Dietro questa strage c’è un disegno politico» Ansa Trentacinque anni di esperienza come amministratore di Marsaglia, Comune di poco più di 200 abitanti che vivono abbarbicati su un colle delle Langhe, a poco meno di un'ora di macchina da Cuneo. «Tutti i sindaci lavorano per il bene del proprio Comune», tiene a precisare il nostro interlocutore. Ma bastano pochi minuti di conversazione con Franca Biglio, sindaco e presidente fin dalla sua fondazione dell'Associazione nazionale dei piccoli comuni di Italia (Anpci, circa 3.000 associati sotto i 15.000 abitanti), per capire che, in realtà, dietro a questa scelta di vita c'è molto di più. Com'è nata l'idea di costituire l'Associazione? «Era il 1987 quando il governo introdusse il regime di tesoreria unica anche per i piccoli Comuni. Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Decisi di affittare un camper con mio marito e girare per capire se il problema che sentivo io fosse lo stesso per tutti. Quello che riscontrammo fu un coro unanime: “Nessuno ci rappresenta, nessuno si interessa a noi". Ecco, la nostra Associazione nasce per questo: accendere un faro, e tenerlo acceso, sui piccoli Comuni. Siamo riusciti a far cambiare l'idea che ci considera un peso anziché un patrimonio virtuoso». Ci spiega perché questi centri sono così importanti? «Noi siamo il presidio e l'avamposto sul territorio. Se non ci fossero gli amministratori dei piccoli Comuni che si rimboccano le maniche e lavorano al fianco della Protezione civile, delle pro loco e del volontariato, il territorio sarebbe meno vivibile». Ma negli ultimi anni le cose si sono fatte difficili… «Lo sa che la spending review ha causato una riduzione del 60% delle risorse finanziarie? Quando in un Comune vengono a mancare determinati servizi, è normale che la gente vada via. È vero che nei piccoli centri costano di più, ma bisogna vedere la contropartita». E quale sarebbe? «La qualità della vita, innanzitutto. Poi c'è il rapporto con il territorio, nel quale sono insediate una miriade di piccole e medie imprese agroalimentari, come ha dimostrato l'Expo di Milano del 2015. Infine, le relazioni sociali: altrove sei un numero, qua invece ci conosciamo e ci aiutiamo tutti, siamo una comunità. Ecco: questa contropartita è cercare di assaporare il gusto di un ambiente diverso dalla città, dove da un pianerottolo all'altro non ci si conosce». Non si tratta di aspetti secondari. Siamo sicuri che dietro all'attacco ai piccoli Comuni si nasconda solo una questione di risparmio? «Ma no, dei costi in realtà non interessa a nessuno! C'è un progetto politico, perché nei piccoli Comuni i sindaci si candidano con liste civiche e non sono manovrabili dal partito. Unire i Comuni significa avere centri più grandi, e dunque amministratori scelti dalla politica». Quali sono le battaglie che vi trovate ad affrontare in questo periodo? «Sempre le stesse: chiediamo risorse adeguate e la possibilità di operare in deroga rispetto alle leggi nazionali, progettate per le grandi città. Noi non sprechiamo, anzi siamo oculati! Ma abbiamo bisogno di un abito confezionato su misura». Con tutti questi problemi, chi ve lo fa fare? «Vede, quello di sindaco più che un mestiere è una vocazione. Sono convinta che i sindaci dei piccoli comuni vivano in una condizione di perenne innamoramento. È la cosa più bella perché non ti fa fermare mai». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/uccidono-i-piccoli-comuni-aiuto-2644859418.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="lo-stato-ci-soffoca-con-le-tasse" data-post-id="2644859418" data-published-at="1766791260" data-use-pagination="False"> «Lo Stato ci soffoca con le tasse» Ansa «Calo demografico, invecchiamento della popolazione, tutela sanitaria, scuola, infrastrutture e connettività: sono questi i grandi mali dei piccoli Comuni. Ci sono amministrazioni dove il sindaco fa anche il ragioniere, il geometra, il capo cantiere, perché non può assumere nessuno. Negli ultimi dieci anni il prelievo finanziario da parte dello Stato è stato pesantissimo». È un'analisi impietosa quella di Guido Castelli, responsabile finanza locale dell'Anci, l'associazione che riunisce i Comuni italiani. Ora però i sindaci possono tornare ad assumere. «Ma non hanno i soldi per farlo. La crisi finanziaria ha ridotto la loro autonomia. Dal 2012 al 2019 il saldo del bilancio pubblico è migliorato di 25 miliardi e 12 miliardi sono venuti dalle autonomie che hanno effettuato pesanti tagli alle spese. Il contributo dato dai Comuni e in particolare da quelli piccoli è stato sproporzionato rispetto a quanto hanno ricevuto. Inoltre hanno subito gli effetti delle riforme delle province. Queste prima garantivano una sorta di protezione amministrativa svolgendo funzioni di supporto e consulenza ma ora sono state private di questa capacità operativa professionale». Quali sono i problemi che impediscono ai piccoli Comuni di superare la crisi? «Oltre alla mancanza di risorse c'è un problema sociologico. L'attuale modello di sviluppo tende a favorire le grandi concentrazioni urbane e litoranee con il conseguente indebolimento dell'entroterra. Con lo spopolamento di vaste zone, i servizi di assistenza sanitaria si sono ridotti spingendo ancora di più la popolazione a migrare verso i grandi centri. Lo stesso accade per le scuole che hanno sempre meno alunni». Cosa impedisce all'economia di ripartire? «I piccoli centri sono lontani dagli snodi dei traffici di merci e servizi e il modello di sviluppo nazionale li tiene ai margini del Paese». Eppure ci sono stati tentativi legislativi per sostenere la crescita di queste aree. Cosa non ha funzionato? «Ermete Realacci si intestò una legge nel 2017 per sostenere i piccoli Comuni anche sotto il profilo turistico. Una legge ben fatta, peccato però che il Parlamento non ci ha messo un soldo. E tutto è finito lì». C'è carenza di servizi? «Servirebbero piani di sviluppo mirati per queste realtà, con regole diverse da quelle che agiscono nelle grandi città. Prendiamo la scuola. Gli standard previsti dalle leggi nazionali per la costituzione delle classi devono essere adattati ai piccoli Comuni. C'è il problema del trasporto pubblico locale, dei servizi postali per la consegna dei pacchi. Nell'era di Amazon è necessaria una rete che comprenda anche realtà montane. E poi Internet, la banda larga è ancora un lusso. C'è un programma di cablaggio delle aree svantaggiate, ma siamo in ritardo».
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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